Il linguaggio del giornalismo |
Questo saggio è un ampio rifacimento di un intervento fatto al convegno organizzato
dall’Accademia della Crusca a Firenze il 22-23 maggio 1987 sul tema “Gli italiani scritti”.
Il testo diventò l’appendice di “Scrivere bene e farsi capire”, “Manuale di linguaggio per chi lavora nel
campo della comunicazione”, pubblicato nel 1988 da “Gutenberg 2000”. E’ quindi un saggio datato
e le citazioni si riferiscono ai giornali di quei tempi. Da allora il linguaggio dell’informazione nella
stampa quotidiana è cambiato molto e in meglio, ma i condizionamenti
della professione giornalistica sono rimasti più o meno gli stessi.
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Del giornalismo italiano – anche di quello di informazione – ci sono molti motivi per parlare male; ma non esageriamo. Se ne può parlare male per la sua storica tendenza a farsi spesso strumento del potere politico ed economico; per la sua inguaribile propensione a dimenticarsi del lettore come istituzionale destinatario; per il suo scarso rispetto del cittadino in quanto persona; e spesso per la sua ambizione di essere non testimone ma protagonista, non osservatore ma facitore di realtà; a volte anche fabbricante di “carte false”.
Ma se pensiamo ai linguaggi parlati e scritti di ieri e di oggi, dobbiamo ammettere che il giornalismo è stato anche – come specchio di una società in trasformazione – una delle cause del grande cambio linguistico che ha caratterizzato il nostro paese negli ultimi decenni; un mezzo importante (in specie, quello radiofonico e televisivo) per la formazione di una lingua più unitaria e – bene o male – più moderna; è stato un diffusore di cultura, anche se, spesso, di una cultura superficiale e approssimativa.
Negli ultimi sessanta anni è cambiata la società ed è cambiato il giornalismo; è cresciuto il numero delle pagine dei giornali ed è cresciuto il numero dei giornalisti e, mediamente, anche il loro grado di istruzione (o, per lo meno, il loro titolo di studio). E il linguaggio del giornalismo non è più quello – di prima e durante il fascismo – in cui la lingua ipertrofica ereditata dai grammatici e dai letterati e conservata dalla didattica delle scuole si sposava col linguaggio dei mattinali della questura e dei referti degli ospedali.
Non si deve dimenticare che cosa era in quei tempi lontani il linguaggio della borghesia cosiddetta colta, degli insegnanti, dei magistrati, degli avvocati (anzi: dei “principi del foro”), degli uomini politici e – espressione culturalmente molto modesta (salvo qualche rara eccezione) di quella realtà – dei giornalisti.
Erano tempi ancora dominati dai vecchi manuali di retorica, tanto che perfino l'”inno dei lavoratori” rispettava la comune tradizione letteraria, sostenendo aulicamente che “il riscatto del lavoro dei suoi figli opra sarà” e che “o vivremo del lavoro o pugnando si morrà”. Gli articoli di fondo dei giornali erano scritti, in genere, con lo stesso stile delle domande in carta bollata o come i temi in classe (non per niente chiamati “componimenti”) e nelle pagine di cronaca qualcuno si faceva “saltare le cervella” o andava al “nosocomio” con ferite da “corpo contundente” all’emitorace” destro o sinistro o “convolava a nozze” o “rendeva l’anima a Dio” e i “sacri bronzi” suonavano per dare 1′ “estremo saluto” alle sue “spoglie mortali”.
Molto è mutato a cominciare da metà del secolo. Nella lingua dei giornali la non interrotta divaricazione dal parlato è stata moderata dal contatto con i dialetti, non più repressi e demonizzati, e da un graduale assorbimento della lingua corrente. Con la radio e la televisione sono nate nuove forme di comunicazione e il fiorire dei settimanali ha portato i quotidiani a seguirne i temi e i modelli formali.
Il vecchio e il nuovo
Accanto al “nuovo” è tuttavia rimasta molta parte del “vecchio”; e, fra le tante eredità, la più nefasta: il culto del cosiddetto “bello scrivere”, che la scuola ha continuato a tramandare almeno per tutti gli anni Sessanta e Settanta con la ossessiva ricerca delle parole migliori (non si deve dire “cominciare” ma “iniziare”; non “andare” ma “recarsi”; non “arrabbiarsi” ma “adirarsi”; non “fare” ma “effettuare”) e che il giornalismo ha rispettato, nella convinzione di essere non “scienza del contingente” (e non è poco) oppure, come ha detto Umberto Eco, una “storiografia dell’istante” (e sarebbe ancora di più), ma letteratura; proprio letteratura, senza neppure distinguere tra quella buona e quella cattiva e mettendoci dentro un po’ di tutto: le espressioni retoriche, gli sfoggi di erudizione, le metafore di varia e dubbia provenienza, gli eufemismi con maggiore o minore giustificazione, i forestierismi da lingue conosciute superficialmente o non conosciute affatto, i ricordi scolastici (e di una scuola riconoscibile, come per i vini, ad annate: buone, meno buone, cattive), i titoli e le trame di film o di libri scorsi più che letti, i richiami ai più diversi linguaggi settoriali (dalla politica alla pubblicità, dalla pubblica amministrazione allo sport, dalla scienza e dalla tecnica all’economia), e perfino battute orecchiate e giochi di parole presi in prestito, insomma tutta una grande orchestrazione di mezzi espressivi che vorrebbe essere – e quasi sempre non è – un discorso non solo razionale ma anche brillante e seducente (Maurizio Dardano).
Si può parlare, allora, di un “linguaggio giornalistico”? e magari definirlo un linguaggio settoriale? In realtà sembra giusto parlare di un linguaggio dell’informazione o, meglio, di un modo di fare informazione, sottoposto ad alcuni canoni (accettati da tutti, ma rispettati da pochi) di semplicità e di chiarezza, che significano un certo lessico e certe norme di struttura: ossia un certo lessico che necessariamente non si limiti a qualche migliaio di vocaboli (sarebbe un’operazione sciocca e reazionaria), ma tenga conto dei livelli medi di istruzione e di cultura dei lettori o degli ascoltatori; e certe norme che regolino l’architettura della notizia in rapporto ai meccanismi anche psicologici della lettura o dell’ascolto.
Se sembra giusto parlare comunemente di “linguaggio dell’informazione”, non però sembra giusto parlare di “linguaggio giornalistico” come di un sottocodice interno al codice generale della lingua; che per di più abbracci tutti i contenuti, e quindi tutti i fruitori; che comprenda cioè il giornale quotidiano e il giornale periodico, il quotidiano a stampa e quello parlato, il quotidiano nazionale e quello locale; e soprattutto l’informazione generale e quella specializzata, le pagine di politica e quelle di cronaca, l’economia e lo sport, le scienze e lo spettacolo.
Nell’universo lessicale del giornalismo compaiono sottocodici diversi e diversi registri, spesso intercambiabili anche nella stessa testata e nello stesso settore informativo: i linguaggi settoriali più importanti (politico, burocratico-amministrativo, tecnico-scientifico, pubblicitario) e quasi tutti i livelli di lingua (aulico, colto, ufficiale, colloquiale, popolare).
I cinque condizionamenti
Non è facile, quindi, identificare i modi di creazione di questo composito linguaggio. Un tentativo nuovo può essere quello di classificare le scelte lessicali del giornalista secondo i vari condizionamenti – tra loro intrecciabili e componibili – che quelle scelte s subiscono in maniera consapevole o a volte inconscia.
II primo condizionamento nasce da due caratteristiche del lavoro giornalistico: una di esse è la fretta, e quindi la necessità di un lessico di pronto uso e perciò, spesso, stereotipato; l’altra è la scarsezza dello spazio o il limite imposto dai mezzi tipografici (ci riferiamo ai titoli), e quindi la necessità di concisione.
Il secondo condizionamento viene dalle aree linguistiche in cui il giornalismo opera, cioè dalla società di cui è una delle espressioni: specchio delle sue trasformazioni economiche e culturali, e perciò veicolo, anche, delle sue evoluzioni nel campo della lingua.
Il terzo condizionamento è nella perniciosa concezione del giornalismo come qualcosa che attiene alla letteratura, al “bello scrivere” e significhi quindi l’uso di parole ed espressioni ricercate, quanto più possibile estranee alla lingua parlata, quasi che il parlare corrente sia da rifuggire come grossolano e volgare.
Il quarto condizionamento nasce da una concezione del giornalismo che si accompagna alla precedente ed è altrettanto perniciosa e forse più: il giornalismo inteso non come un servizio compiuto a favore del cittadino-lettore, ma come un fatto di potere: una professione che permette di partecipare (o di darne l’illusione) all’uno o all’altro dei sistemi di potere; e il linguaggio diventa proprio lo strumento cui il giornalista affida la pretesa peculiarità e autorità della sua posizione nella società.
L’ultimo condizionamento è proprio invece del giornalista in quanto operatore, la cui professionalità consiste in genere nell’aderire alla logica produttiva dell’informazione (Giovanni Cesareo): una logica fissata dai rapporti tra condizioni materiali (ossia gli apparati di produzione nelle loro situazioni storico-politiche) e l’organizzazione complessiva del processo produttivo, con i conseguenti criteri di scelta e di interpretazione e i conseguenti stili, va lori e codici, anche lessicali. Non è il giornalista che fa il sistema; è il sistema che fa il giornalista.
I limiti del tempo e dello spazio
II primo dei cinque condizionamenti è quello più connaturato al lavoro giornalistico, a un lavoro, cioè, regolato -perfino nella scelta del lessico, come vedremo – dalla lancetta dell’orologio e dagli spazi a disposizione; ma è proprio in questo modo che il giornalismo contribuisce – bene o meno bene – all’allargamento del lessico, attraverso la creazione o la diffusione di neologismi in un tempo in cui, terminata la stagione del purismo, le parole nuove sono al centro dell’evoluzione linguistica.
Specialmente in alcune ore della giornata (per i quotidiani) e in alcuni giorni della settimana o del mese (per i settimanali e i mensili) il correre del tempo regola il lavoro del giornalista, sia esso il redattore o il cronista o il corrispondente o l’inviato.
Il cronista o l’inviato scrive spesso all’ultimo momento, quando l’avvenimento di cui deve dar conto è appena finito o non lo è ancora, e scrive su un taccuino o su un pc portatile, posto sulle ginocchia, seduto su una panchina o in auto o in treno o in aereo. Le cose non cambiano molto, del resto, per il corrispondente, nonostante che, in genere, egli abbia un tavolino su cui lavorare; e neppure per quello che si chiama “redattore di desk”, il quale, nella sede centrale del giornale, rivede i pezzi altrui, riprende ed elabora il materiale di agenzia e fa i titoli; e i titoli, che, comportano spesso una eccezionale economia di mezzi linguistici, sono proprio non solo la chiave di lettura del giornale, ma la parte più letta di esso (il tempo medio che il lettore dedica alla lettura di un quotidiano va dai quindici ai trenta minuti).
Tutti, insomma, gli uni e gli altri, sonò legati ai tempi della produzione e alle dimensioni che al pezzo da scrivere vengono fissate non sempre dall’importanza oggettiva del fatto trattato, bensì dallo spazio lasciato libero da altri fatti, più importanti o accaduti in precedenza, oppure dalla pubblicità o, soprattutto, dalle esigenze imposte dalla grafica. E che dire del radiocronista e del telecronista, condizionati dalla simultaneità tra il loro parlato e lo svolgimento del fatto? e costretti ad usare un linguaggio sintatticamente semplificato, che eviti fraseologie complicate?
Questo spiega i tanti modi per cui la lingua viene piegata a un uso imposto dalla fretta e dalla necessità di concisione; molti di questi modi devono essere creati, molti già si trovano sul mercato, in aree linguistiche contigue (pubblicità, commercio, politica). Vediamoli.
a) I sintemi o combinazioni asindetiche, in cui il secondo sostantivo qualifica il primo; ecco degli esempi: autobomba (e notiziabomba), borsa valori, busta paga, buono benzina, carro attrezzi, caso limite, conferenza stampa (e incontro stampa, sala stampa, silenzio stampa), decreto catenaccio, deposito bagagli, discorso fiume (e udienza fiume), divano letto, legge delega, miscela famiglia, mobile bar, mostra mercato, nave traghetto, opzione zero, parola chiave, ponte radio, reparto confezioni, scuola guida, treno merci, uomini radar (e uomini rana), villaggio vacanze; e nello sport: formazione tipo, peso forma, zona Cesarini.
b) Le ellissi, in cui l’aggettivo diventa un sostantivo autonomo; per esempio: la celere, la mobile, la scientifica, la volante; il coordinamento, il direttivo, l’esecutivo; la litoranea, la tangenziale; la (legge) finanziaria, la forestale, l’utilitaria; e nello sport: gli internazionali, gli europei, i mondiali (i campionati), il comunale (lo stadio).
c) Gli accorciamenti, per cui un sostantivo perde le sue apposizioni o qualificazioni; per esempio: (blue)jeans, pillola (anticoncezionale) e perfino tossico(dipendente); oppure quando un sintema perde uno dei due sostantivi; per esempio: (penna)biro, night(club), (ragazza)squillo ecc.
d) Le metonimie o sineddochi come trasferimenti semantici: per esempio, il Quirinale (per il Presidente o la presidenza della repubblica), Palazzo Chigi (per il Presidente del consiglio), la Casa Bianca (per il Presidente degli Stati Uniti), il Cremlino (per il governo russo), Londra, Parigi, Pechino (per i governi della Gran Bretagna, della Francia, della Cina), e così Downing Street, Scotland Yard, Quai d’Orsay, Wall Street; così il loggione, la platea, la piazza; localmente, Palazzo Marino (Milano), Palazzo Vecchio (Firenze); e, nello sport, la panchina.
e) Le abbreviazioni; per esempio: auto, bici, bus, cine, colf, frigo, moto, prof, sub, tele, tv.
f) Le sigle, per esempio le sigle di partito, molte delle quali usate anche in forma aggettivale, oltre alle sigle che si possono chiamare ufficiali (Ue, Nato, Unesco ecc.).;
g) Le acronimie ossia la fusione di due parole: autosole, autoparcheggio, cantautore, casalbergo, Confagricoltura (e tutte le altre confederazioni: Confcommercio, Confindustria ecc.), eliporto, fantascienza, totonero, turboelica; e anche Assitalia, Bancoroma, Bankitalia, Cariplo, Coldiretti, Comit, Consob e così via.
h) Le composizioni con base verbale o nominale; per esempio: fotoromanzo, ferrotranviere, guardalinee, guardamacchine, guardaspalle, metalmeccanico, metronotte, netturbino, postelegrafonico ecc.
i) Le deverbalizzazioni a suffisso zero, che nascono, tuttavia, prevalentemente in altre aree linguistiche e che il giornalismo assorbe, come si vedrà, non solo per ragioni di brevità: per esempio, codifica, convalida, realizzo, riordino, stipula.
l) Le prefissazioni ossia la moltiplicazione delle parole con prefissi o prefissoidi, nominali o aggettivali; i più frequenti o recenti: baby, cripto, maxi, mega, micro, mini, neo, oligo, paleo, posi, trans, vetero (per esempio, “babypensione”, “criptocomunismo”, “maxigonna”, “megabomba”, “microcomputer”, “minimiss”, “neomarxista”, “oligominerale”, “paleoindustrialismo”, “postmoderno”, “transavanguardia”, “veterocapitalismo”); anche porno: “pornodiva”, “pornodeputata”.
m) Le suffissazioni ossia la moltiplicazione delle parole con l’aggiunta di particolari morfemi alla parola base; ma i verbi in -izzare, i sostantivi in -izzazipne o in -ismo, gli aggettivi in -ale nascono in prevalenza in altre aree linguistiche; ne parleremo in seguito.
n) Rientrano invece totalmente in questo campo i luoghi comuni, le frasi fatte, gli stereotipi, le espressioni “fast food”, come qualcuno le ha chiamate scherzosamente, cioè gli aggettivi e le locuzioni che il giornalista usa senza sforzo concettuale, per forza di automatismi mentali (e non sempre la colpa è della fretta; a volte è soltanto della pigrizia).
Cominciamo con alcuni esempi di aggettivi (alcuni dei quali, presi a sé, appaiono inusuali ed altri addirittura oscuri): abbondante libagione, coltello acuminato, agghiacciante sciagura; episodio boccaccesco, notte brava, brillante operazione; cauto ottimismo, corpo contundente, opera costruttiva; delicato intervento, pianto dirotto, discutibile reputazione; esemplare sentenza, estrema dimora (cioè il cimitero), estremo saluto (alla salma); facile esca (per il fuoco), fervidi voti, freddo marmo (dell’obitorio), scontro frontale (di due automobili), merce furtiva, futili motivi; zona impervia, improvviso malore, dolore incontenibile, male incurabile, indescrivibile disordine, infima minoranza, ingente bottino, atti innominabili, gesto insano (cioè il suicidio), irrefrenabile risata, slancio irresistibile; caso letale; magro bottino, spoglie mortali, movimentato inseguimento; netto rifiuto; amico occasionale, pensione ospitale; pesante bilancio, pregevole fattura (di un oggetto), profondo cordoglio, pronta guarigione, pronto intervento; raccapricciante spettacolo, ricchi premi, ridente località, rigoroso riserbo, rocambolesca evasione, ordigno rudimentale; scena allucinante, solerte funzionario, soliti ignoti, tonfo sordo, sforzo sovrumano, guida spericolata, spettacolare incidente, squallida vicenda, strepitoso successo, stringente interrogatorio; tempestivo intervento, toccante episodio, torbida vicenda, tragica fatalità; vibrante attesa, viva soddisfazione, vivo allarme e vivo compiacimento.
Ecco ora alcune locuzioni: “ammasso di rottami”, “anonima sequestri”, “assoluta mancanza di spazio”, “battuta a vasto raggio”, “caccia all’uomo”, “camera ardente”, “colonnina di mercurio” (cioè il termometro), “conflitto a fuoco”, “due fitte ali di folla”, “immenso piacere”, “momento della verità”, “morsa del gelo”, “perdutamente (o follemente) innamorato”, “perfetto silenzio”, “perfetto stato di conservazione”, “racket del vizio”, “regolamento di conti”, “scene di panico”, “scherzo di pessimo gusto”, “tragedia della follia”, “strada del vizio”, “visita lampo”, “volo pindarico”.
o) Lo stile nominale, inteso non come fenomeno generale della lingua a tutti i suoi livelli (se ne parlerà in seguito), ma come criterio necessario per la titolazione, dove le esigenze grafiche (larghezza delle colonne, grandezza dei caratteri tipografici) richiedono il massimo risparmio di parole, e quindi l’uso prevalente degli elementi nominali a scapito delle strutture verbali; si aggiungano gli espedienti indicati in alcuni dei punti precedenti (sintomi, ellissi, accorciamenti, metonimie, abbreviazioni, prefissoidi adoperati come sostantivi), le contrazioni ellittiche e i procedimenti prolettici; per avere degli esempi basta dare un’occhiata a un giorno qualsiasi (25 apr. 1988): “Da Craxi una proposta per la pace in Israele” (“Repubblica”), “Un mandato CEE sulla Palestina” (“Giorno”), “II passo forte di Craxi per Gaza e Gerusalemme” (“Tempo”), “Craxi: la CEE in Palestina” (“Stampa”), “Craxi: mandato europeo in Cisgiordania” (“Giorno”).
Si potrebbe continuare all’infinito, magari anticipando quello che diremo più avanti sui pericoli che l’eccesso di concisione insieme all’eccesso di fantasia comporta per l’intelligibilità del testo; per esempio: “No psi a De Mita” (“Messaggero”, 28 giugno 1987), “Siringhe: merce leader in tutte le farmacie” (“Tempo”, 10 sett. 1987), “Manager con un hobby / il party alla cocaina” (“Stampa”, 5 apr. 1988), “Digiuno radicale per la Tv ai no” (“Corsera”, 26 ott. 1988), “Nel PCI la pax di Occhetto / Ingrao e Cossutta signornò” (“Corsera”, 30 lug. 1987), “Scrutini, ormai è thriller” (“Unità”, 28 mag. 1987), “Dai 7 dell’Est nuovi toni, ma niente acuti” (“Giornale”, 30 mag. 1987), “Tasse al buio / Sgravi Irpef e imposta salute: si riparte” (“Nazione”, 4 nov 1987), “Bush sogna il martedì del ko” (“Stampa”, 6 mar. 1988).
p) Infine le invenzioni lessicali, proprie soprattutto dei radiocronisti e dei telecronisti, non per gusto di novità e originalità (c’è anche questo, e ne parleremo in seguito), ma per necessità di un linguaggio più flessibile e privo, quanto è possibile, di complicazioni sintattiche (“spintonare”, per esempio, può essere fatto passivo, a differenza di “dare uno spintone”; e cosi “centrare”, “stoppare”, “dribblare”).
Il giornalismo e le aree linguistiche in cui opera
II secondo condizionamento viene dalle aree linguistiche da cui il giornalismo trae alimento: alimento di contenuti e quindi del lessico col quale quei contenuti si esprimono; e anche in questo caso i giornali si fanno, in certo modo, diffusori di cultura o, per lo meno, strumenti di quell’arricchimento del lessico che rende viva la lingua, dove una parola nuova porta con sé il sottofondo culturale al quale essa è legata.
Questo è il campo di quelli che si possono chiamare riusi o travasi o prestiti, quando vocaboli ed espressioni di varia provenienza (locale, nazionale e internazionale; scritta e parlata) vengono riformulati e adattati al racconto informativo, che così diventa un mezzo di divulgazione e contribuisce – sia pure al prezzo di una certa standardizzazione e di molto impoverimento lessicale – al processo di unificazione della lingua e alla sua omogeneizzazione nei vari strati sociali, compresi quelli di più modesta estrazione culturale (Gian Luigi Beccaria). Vediamoli.
a) I neologismi da linguaggi settoriali: specialmente quello tecnico-scientifico (astronautica, informatica, meccanica, scienze mediche e biologiche) e quello economico-fìnanziario; anche quello sportivo: linguaggi che sono sorgenti incessanti di nuovi concetti e di parole quasi tutte di abbastanza facile comprensione perché più o meno legate a fatti della vita di ogni giorno.
b) I neologismi semantici che ne derivano, cioè con un mutamento di significato:
– dalla tecnica: per esempio, “andare in tilt”, “area di parcheggio”, “assestamento”, “cassa di risonanza”, “cerniera”, “cinghia di trasmissione”, “dare una sterzata”, “dinamica”, “essere su di giri”, “fare il pieno”, “flessione”, “impatto”, “mettere in orbita”, “piattaforma”, “riciclaggio”, “rodaggio”, “valvola di sicurezza”, “vuoto di potere”;
– dalle scienze mediche e biologiche: “colpo di bisturi”, “complesso di inferiorità”, “diagnosi”, “emorragia (di voti)”, “encefalogramma piatto” (del governo), “inconscio”, “isteria”, “pulsione”, “rimozione”, “terapia”;
– dalla matematica: “asse”, “parametro”, “vertice”;
– dall’economia: “bilancio”, “congiuntura”, “fluttuazione”, “gestione”;
– anche dallo sport: “governo di serie B”, “maratona”, “mettere alle corde”, “nastro di partenza”, “round”, “salvarsi in angolo”, “scavalcamento”, “slittamento”, “sorpasso”, “staffetta”, “tabella di marcia”, “tappa”, “traguardo”.
c) I termini che designano oggetti nuovi che entrano nel giro della produzione industriale (per es. i tanti elettrodomestici e arnesi per la cucina e gli accessori radio e tv: da “frullatore” a “videoregistratore”, da “frigorifero” a “lavastoviglie”, da “cinepresa” a “telecamera” e cosi via) o nuove professioni o nuove denominazioni professionali (ma in queste ultime l’unificazione porta a una perdita di vocaboli; per es. “idraulico”, che assorbe “fontaniere”, “lattoniere”, “stagnaio”, “stagnino”, “trombaio”).
d) I prestiti (di necessità) da lingue straniere, che riguardano nuovi oggetti o nuovi concetti, e quindi entrano facilmente nell’uso per immediata comprensibilità e difficile o impossibile alternativa; un po’ di esempi: “baseball”, “biberon”, “bitter”, “brandy”, “boyscout”; “camion”, “club”, “computer”, “corrida”; “festival”, “film”, “forfait”, “fotoreporter”, “frac”; “garage”, “golf, “gong”; “harem”, “hobby”, “hostess”, “hotel”; “jazz”, “jeep”; “laser”; “miss”, “motel”; “pic-nic”, “pullman”, “pullover”; “radar”, “roulette”, “roulotte”, “rugby”; “shock”, “slalom”, “slip”, “slogan”, “smoking”, “snob”, “sport”, “stop”; “telex”, “tennis”, “ticket”, “tight”, “transistor”; “valzer”; “whisky”; “yoghourt”.
Altri forestierismi sono in corso di probabile assimilazione; eccone alcuni: “baby-sitter”, “barbecue”, “barman”, “bestseller”, “bluejeans”, “bluff”, “boiler”, “boom”, “boomerang”, “bowling”, “bulldozer”; “camping”, “caravan”, “cargo”, “carillon”, “casual”, “chalet”, “clacson”, “cliché”, “collant”, “commando”, “consommé”, “container”, “cowboy”; “derby”, “doping”; “fast food”, “flash”, “flipper”, “fon”; “hamburger”; “iceberg”, “identikit”; “jolly”, “judo”, “jumbo”; “karaté”, “kiwi”; “manager”, “marine”; “playboy”, “poster”; “racket”, “raid”, “relax”, “robot”, “rock”; “scoop”, “scotch”, “self service”, “sexy”, “skilift”, “smog”, “sponsor”, “spray”, “sprint”, “stand”, “stress”, “suspense”; “terminal”, “toast”, “topless”; “ufo”; “water”, “wurstel”; “zoom”.
Nei primi e nei secondi casi il guaio è che, non adattati al sistema morfologico dell’italiano, molti di questi prestiti producono inevitabili errori di scrittura (quelli entrati per via orale) o difformità di pronuncia (quelli entrati per via scritta).
Il giornalismo e il mito del “bello scrivere”
II terzo condizionamento del giornalismo viene da una secolare tradizione, così radicata nel comune giudizio da trasformare in uno dei miti della professione quello che è invece un pesante impedimento a un moderno modo di “porgere la notizia”, scarno, rapido, essenziale: quel modo di fare informazione che è richiesto dalla funzione che il giornalismo ha di mediare tra la fonte e il fruitore del messaggio e che da tempo si è affermato nel linguaggio giornalistico straniero, specialmente anglosassone; e un mito radicato nella convinzione che “scrivere bene” significhi usare espressioni quanto più possibile estranee alla lingua parlata; è il gusto, insomma, per le “parole belle”, che – spesso oscure, a volte anche ridicole – tutto sono fuorché belle; diamone qualche campione.
a) Cominciamo con le locuzioni verbali, sia per l’ampio privilegio che viene dato ai verbi di uso meno corrente e di provenienza dotta, sia per la frequente adozione della costruzione nominale invece del verbo semplice; è un fenomeno che troveremo – con caratteristiche analoghe, ma con presupposti diversi – anche nel linguaggio burocrati-co-amministrativo; è inutile dire che le due parallele operazioni finiscono per accoppiarsi, come vedremo, in un comprensibile quanto perverso connubio; ecco alcuni esempi: “aver luogo” invece di “accadere”, “conferire” invece di “parlare” e così via: “dar lettura” (leggere), “darsi alla fuga” (fuggire), “debellare” (sconfiggere), “deplorare” (nell’espressione “non si deplorano vittime”, cioè “non ci sono vittime”), “diramare una smentita” (smentire), “effettuare” (fare), “entrare in collisione” (scontrarsi), “esibire” (mostrare), “essere nell’impossibilità” (non potere), “fare ingresso” (entrare), “far fuoco” (sparare), “far rientro” (rientrare), “fornire” (al posto di “dare”, in alcuni casi), “ingiungere” (ordinare), “iniziare” (cominciare), “inumare” (seppellire), “mandare assolto” (assolvere), “mettere a dimora” (piantare), “mettere al mondo” (generare, far nascere), “mettere a morte” (far morire, uccidere), “mettere al muro” (fucilare), “mettere al bando” (bandire), “mettere al corrente” (informare), “mettere a parte” (far partecipare, informare), “mettere in atto” (attuare, realizzare), “mettere in chiaro” (chiarire), “mettere in pratica” (attuare), “mettere in cantiere” (cominciare a fare), “mettere in valore” (valorizzare), “opporre un rifiuto” (rifiutare), “permanere” (rimanere), “pervenire” (giungere), “porre fine” (finire, concludere), “porre in essere” (realizzare), “portarsi” (nel senso di “andare”), “praticare” (nel senso di “esercitare”, “fare”, “eseguire”), “prendere la decisione” (decidere), “prendere albergo” (alloggiare), “prendere congedo” (congedarsi), “prendere in esame” (esaminare), “prendere la fuga” (fuggire), “prendere la parola” (cominciare a parlare), “prendere nota” (annotare), “prendere piede” (affermarsi, aver successo), “prendere sonno” (addormentarsi), “prendere un bagno” (fare un bagno), “prendersi cura” (preoccuparsi, curarsi), “prestare giuramento” (giurare), “pronunziare” (nel senso di “dire”), “pronunziarsi” (nel senso di “esprimersi”), “rassegnare le dimissioni” (dimettersi), “registrare” (nel senso di “accadere”; per es. “si è registrato un terremoto”; oppure di “avere”; per es. “si sono registrati tre vittime”), “rendere testimonianza” (testimoniare), “rendere visita” (visitare), “rilasciare una dichiarazione” (fare una dichiarazione, dichiarare, dire), “rinvenire” (trovare), “riportare” (nel senso di “riferire”), “rispondere al nome” (chiamarsi), “rivolgere un invito” (invitare), “sporgere querela” (querelare), “trarre la conclusione” (concludere), “verificarsi” (nel senso di “accadere”; per es. “si è verificato un incidente”).
b) Anche per i nomi occorre distinguere quelli partoriti dall’amore (sbagliato) per un preteso “bello scrivere’ da quelli che il giornalismo adotta fra i numerosissimi nati in area burocratica e di cui parleremo più avanti; ecco un piccolo campione dei primi, tutti di origine dotta o aulica: “astanteria” (per “pronto soccorso”), “audizione” (ascolto), “farmaco” (medicina), “festività” (feste), “genetliaco” (compleanno), “habitat” (ambiente, ambiente naturale), “habitus” (comportamento, atteggiamento abituale), “legali” (avvocati), “nosocomio” (ospedale), “paziente” (malato), “plico” (pacco), “precipitazione piovosa” (pioggia), “precipita/ione nevosa” (neve), “precipitazione temporalesca’ (temporale), “raptus” (impulso), “sani-tari” (medici), “terapia” (cura), “toghe” (magistrati)
c) Una larghissima l’onte di “belle parole” è rappresentata dai vari modi che si richiamano all”eufemismo e all”interdizione, essendo l’eufemismo quel fenomeno linguistico per cui un vocabolo, ritenuto troppo crudo o realistico, viene sostituito da un altro vocabolo oppure da una perifrasi ed essendo l’interdi/ione In causa psicologica dell’eufemismo (Nora Galli); i termini interdetti hanno in comune il disagio che si prova noi pronunciarli e nello scriverli, ma le interdizioni hanno parecchi tipi di motivazione, che cambiano nei loro oggetti o nella loro forza di coercizione da una società all’altra e, all’interno di una stessa società, secondo i vari livelli socioculturali e secondo i mutamenti che avvengono nella cultura e nel costume:
– la più forte nella società contemporanea, ma in via di generale attenuazione, è l’interdizione che colpisce gli argomenti sessuali (interdizione per pudore); è così, per esempio, che sulla stampa la parola “sesso” sostituisce oggi l’uno o l’altro dei molti nomi che indicano gli organi genitali maschili o femminili e “rapporto”, più che “amplesso”, sostituisce “coito”; molto sta tuttavia cambiando, per l’influenza del più libero e disinvolto linguaggio parlato e, forse, del turpiloquio dei dialoghi dei film trasmessi da quel mezzo così persuasivo che è la televisione; così ogni tanto si legge “incinta” invece delle perifrasi abituali di “in stato interessante” o di “aspetta un bambino”; ancora raro è “mestruazioni”, ma si trovano “cicli mestruali” o, per lo meno, “cicli”; “puttana” non è più un tabù rigoroso, anche se prevale “prostituta” e ancora, ogni tanto, “passeggiatrice”; sembra scomparsa l’espressione “donna di facili costumi” con l’aggiunta di “fare la vita” e di “battere il marciapiede;
– il secondo tipo di interdizione è quello che riguarda gli argomenti scatologici (interdizione di decenza o per disgusto fisico); è così che “latrina” e “cesso” lasciano il posto prima a “gabinetto” e poi a una metonimia come “bagno”, quando non si preferiscano parole straniere italianizzate quali “toeletta” (o “toaletta”) e “vater” (che però viene ora usato piuttosto per la “tazza” di porcellana dello “sciacquone”); stesso discorso per “culo” e anche per “deretano” e “sedere”; non si usa neppure “natiche”, ma, al massimo, “glutei”; e di una signora abbondante di quest’ultimi si dice che è “larga di fianchi”; analogamente “sudore” diventa “traspirazione”, i “piedi” le “estremità”; tabù, per ora, è rimasto “merda” (al massimo si usa l’iniziale m seguita da quattro punti), ma già si è visto “vaffanc…”, dove i tre puntini riducono l’interdizione a una piccola ipocrisia;
– un’altra categoria di interdizione riguarda la religione e la morte; per la religione il problema quasi non si pone più e i nomi di Dio (invece di “il Signore”, “l’Altissimo”, “l’Onnipotente” e anche, più bonariamente, “il Padreterno”); di Cristo (invece di “Figlio di Dio”, “Redentore”, “Salvatore”) e della Madonna (invece della “Vergine”, la “Vergine Maria”, la “Madre di Dio”) vengono usati anche in ambienti di stretta osservanza cattolica, a differenza di anni non lontani; pochi cambiamenti, invece, per le parole legate alla morte; in genere non si usa più sostituirla con “decesso” o “dipartita”, ma con “scomparsa” si, e quanto a “morire” si continua ancora a preferire, per lo meno quando si parla di persone importanti, “spengersi”, “cessare di vivere”, “scomparire”, “spirare”, “venire a mancare”, “decedere” (sono scomparsi, però,”finire di soffrire”, “passare a miglior vita”, “rendere l’anima a Dio”, “lasciare questo mondo”, “addormentarsi per sempre”, “raggiungere la pace eterna”, “intraprendere l’ultimo viaggio”, “andare nel mondo dei più”, “mancare all’affetto dei propri cari” e, per i bambini, “volare in ciclo” e “diventare un angelo”); più o meno cosi per “suicidio”, ormai raramente sostituito da “folle gesto” o “gesto sconsiderato”, mentre si trova ancora spesso “togliersi la vita” per “suicidarsi”; un accenno anche alle malattie: praticamente sconfitta, per fortuna, la tubercolosi (si preferiva chiamarla “mal sottile”, “un brutto male ai polmoni” o, al peggio, “tbc”), è rimasto il cancro, cioè un “male incurabile” (anche, a volte, un “male che non perdona”); – un altro tipo di interdizione è quello che potremmo chiamare sociale, cioè l’interdizione che colpisce i concetti di ricchezza e di povertà e certi mestieri e condizioni inferiori; è una categoria vastissima di sostituti eufemistici, anche escludendo quelli che nascono in aree politiche e burocratiche, di cui parleremo al punto giusto; è cosi che invece di “ricco” troviamo “abbiente”, “agiato”, “benestante”, “dotato di beni di fortuna”, “privo di preoccupazioni economiche”; e, invece di “povero”, ecco “persona di modeste condizioni”, “in disagiate condizioni economiche”, “di modesta famiglia” o, al massimo, “bisognoso” e “indigente”; e come in luogo di “elemosina” si dice “elargizione”, “offerta”, “carità”, cosi viene bandito “paga” e sostituito da “stipendio”, “salario”, “emolumento”, “retribuzione”, “compenso”, “onorario”, “parcella”; analogamente succede per i nomi di mestiere: “facchino” che diventa “portabagagli”, “serva” che diventa “donna di servizio” o “donna” o “domestica” e “dattilografa” che diventa “segretaria” e se il “padrone” viene chiamato “datore di lavoro”, gli “impiegati” sono promossi a “funzionari” o “dipendenti” e gli “operai” a “maestranze”; ultimo il “prete”, al quale (forse per un senso negativo della parola, nato in tempi di anticlericalismo) si preferisce “sacerdote” o “religioso”; cosi come è scomparso “giudeo” e ha lasciato il posto a “ebreo” o “israelita”;
– un’ultima circoscritta categoria di moderata interdizione è quella che riguarda certe qualificazioni che si vuole attenuare, per cui invece di “stupido” si dice “non intelligente” (oppure “non è un’aquila”), e così “non simpatico” invece di “antipatico”, “non bello” invece di “brutto”.
d) Un vasto campo è quello delle metafore; la maggior parte di esse, di varia provenienza (ma sempre corrente e non dotta: tecnica, commerciale, militare, sportiva), può non piacere a chi preferisce uno stile sobrio ed asciutto, ma rende più ricco il linguaggio di chi scrive e più ricco il linguaggio di chi legge (od ascolta); basta qualche esempio per identificarle: “braccio di ferro”, “a ruota libera”, “con l’acqua alla gola”, “essere nelle secche”, “essere in alto mare”, “vittoria ai punti”; poca indulgenza meritano invece le metafore che si richiamano a elementi concettuali di tipo storico o politico o, comunque, non usuale; ecco alcuni titoli, tutti sul “Corriere della sera”: “Cina: un grande balzo all’indietro / il riformista Hui Yao-bang si dimette”, “La lunga marcia di Occhetto verso la segreteria”, “La Canossa di Daniel Ortega”, “Per gli armeni è lotta continua”, “Roulette russa nei cieli di Albione”, “Etiopia ’87: prima dell’olocausto”, “L’altra metà del cielo alla conquista del Paradiso”, dove la perplessità nasce soprattutto dal fatto che la metafora del titolo non trova quasi mai un richiamo e una spiegazione nel testo; meglio accettabili, perché di più facile comprensione (ma non sempre), le metafore che si riferiscono a personaggi noti, della storia o di invenzione; si giudichi da qualche titolo: “Al congresso degli avvocati, Vassalli garantisce la riforma del codice di procedura penale / A gennaio arriva Perry Mason” , “Ancora una sfida in Nuova Caledonia / Magistrato e sei Rambo in ostaggio” e “Manila, un Savonarola in gonnella dichiara guerra ai corrotti”.
e) Discutibili non per oscurità ma per i risultati comici che spesso raggiungono sono le metafore per antonomasia, quando un nome (in genere un nome proprio di persona o geografico; a volte anche il nome di un ente) viene sostituito da un nome comune o da un giro di parole, quasi sempre perché si ritiene che non sia bello ripeterlo a poca distanza nella stessa frase o nello stesso periodo; questa antica norma dei manuali di retorica (la cosiddetta “variatio”), diventata poi una ridicola tradizione della pubblicistica e della didattica italiana (Dante è il “sommo poeta”, Napoleone il “grande Corso”, Garibaldi l'”eroe dei due mondi”), non sembra mutata col mutare dei tempi, ed ecco che per non ripetere Venezia si dice “la città lagunare”, per non ripetere Napoli si dice “la metropoli partenopea”; Firenze diventa “la città del giglio” e di questo passo si finisce con l’ascoltare alla televisione che la zona vesuviana è “l’hinterland flegreo” e che San Gimignano, finora rimasta come “il paese delle cento torri”, è addirittura una “Manhattan collinare”; nessuna meraviglia, quindi, se, per non ripetere Dc(ma perché?) si scrive “il partito dello scudo crociato”, se il Psi diventa “il partito del garofano”, il Pr “il partito della rosa in pugno” e il gruppo politico dei Verdi “il sole che ride”.
f) Si può essere altrettanto severi con le metonimie del linguaggio del giornalismo sportivo? qui i pareri sono controversi; le metonimie, con i loro spostamenti di significato tra una parola e l’altra, fanno parte del parlare corrente (“bere un bicchiere”, “essere pieno di bile”, “leggere Leopardi”, “comprare un Guttuso”, “aver fegato”, “correre i 100 metri”, così come “il Quirinale”, “Montecitorio” e altri che abbiamo già visto), ma è certo che se alcune metonimie dello sport sono perfino divertenti, altre sono irritanti; facciamo degli esempi: “sfera” o “cuoio” per “pallone”, “sacco” (la rete della porta del giuoco del calcio) e “legno” (la traversa e i pali), “panchina” (l’allenatore e le riserve), “giacchetta nera” (l’arbitro); per il resto, vedremo tra poco.
g) Un capitolo vastissimo è quello delle immagini, delle parole, delle frasi – spesso anche nel testo, ma soprattutto nella titolazione – modellate su titoli di libri, di film, di programmi televisivi; è un fenomeno che troveremo, più avanti, anche nel linguaggio della pubblicità e che appare, specie nel linguaggio del giornalismo, largamente discutibile: sia per la frequente oscurità, perché il richiamo pseudoculturale non è sempre facilmente intelligibile, soprattutto per larghe fasce di lettori, sia perché le formule adottate diventano ripetitive, convenzionali e prevedibili, cioè si trasformano in luoghi comuni; converrà darne un largo campione:
– cominciamo con i titoli dei libri e cominciamo da quello che ha avuto maggior numero di riprese, la “Cronaca di una morte annunciata” di Gabriel Garcia Marquez, sicuramente perché accoppiata con l’omonimo film di Francesco Rosi (che così ha risparmiato a qualcuno la lettura del libro); la prima è la “Stampa” (20 giugno 1987): “Inps, uno scandalo annunciato”; due giorni dopo è il “Tempo”: “Piccola cronaca di una storia annunciata” (una immaginaria seduta a Montecitorio); due giorni dopo è il “Corriere della sera”: “Pci, cronaca di una crisi annunciata”; il giorno seguente tocca alla “Nazione”: “E una morte annunciata bloccò il calcio in costume”; quattro giorni più tardi, nell’articolo di fondo del “Corriere della sera”, Achille Occhetto è il “segretario annunciato”; il 17 luglio, sul “Messaggero”: in Francia “per venti chilometri i segni / di una tragedia annunciata”; il 21, sulla “Repubblica”, la “tragedia annunciata” è in Lombardia; il 27, sul “Corriere della sera”: “Sull’esodo un caos annunciato”; il 30 sulla “Stampa”: “II giudice apre due inchieste / sulla “tragedia annunciata” (con le virgolette, e non si capisce bene perché); il primo agosto sulla “Repubblica” il verdetto della Caf su Empoli e Triestina è “una sentenza annunciata” (anche qui “annunciata” tra virgolette e anche qui non se ne capisce chiaramente la ragione); un salto fino al 10 settembre; ecco il “Corriere della sera”: “Boustany, un intrigo annunciato”; il 2 ottobre sul “Messaggero”: “Los Angeles / Cronaca di un terremoto annunciato”; qualche mese di pausa e poi, il 4 febbraio 1988, sulla “Repubblica”, un servizio politico comincia col dire che l’ultima imboscata al governo “è stata una sconfitta annunciata”; ultimo (ma la rassegna è sicuramente incompleta, e in ogni caso limitata ad alcuni quotidiani nazionali) il “Corriere della sera” del 18 aprile 1988, per cui la morte di Abu Jihad è, in un titolo a tutta pagina, “un assassinio fin troppo annunciato”.
Al secondo posto viene Milan Kundera; ecco sulla “Repubblica”, il 12 luglio 1987, “L’insostenibile leggerezza del libro” e sul “Corriere della sera”, il 28 gennaio 1988, “L’insostenibile leggerezza di Wall Street” (ma sull'”Un-tà” del 7 gennaio 1986 c’era stata almeno una variante: “Shanghai / l’insostenibile pesantezza di una metropoli”); e ora una sommaria antologia: Umberto Eco, “Nel nome della rosa le abbazie toscane” (“Corriere della sera”), “Città senza legge / l’inviato de / nell’abbazia di Eco” (“Messaggero”); Leonardo Sciascia, “A Catania un arresto eccellente” (“l’Unità”, ma “eccellente” si trova un po’ dappertutto, e non solo per i cadaveri); anche qualche morto: Giuseppe Berto, per esempio: “II male oscuro di piazza degli Affari” (“Corriere della sera”); anche qualche scrittore di tempi andati: James Joyce, “Io, Pogorelich / Ritratto di pianista da giovane” (“La Nazione”); Luigi Pirandello, un titolo su un convegno di critici teatrali: “Così è, ma non ci pare” (“Messaggero”) e “Quattro cadaveri in cerca d’autore” (“Corriere della sera”); perfino Marcel Proust: “Il tempo ritrovato dei francesi d’Algeria” (“Corriere della sera”) e “I Duran Durai sono cresciuti all’ombra dì fanciulle in fiore” (“II Giorno”); e per finire (coi libri) ecco, su un giornale che ci dimenticheremo di citare, un titolo assolutamente incomprensibile su un pezzo siglato Ansa: “Inghilterra: Mr. Hyde ha 12 anni”; chi è questo Mr. Hyde (doctor Jekill) di cui nel pezzo, ovviamente, non si parla?
Del resto, non si salvano neppure i poeti; Giuseppe Ungaretti: ” II Tigullio si illumina d’immenso: arrivano tutti i super-vip” (“Messaggero”) e il titolo, niente male, di un articolo di fondo sul “Giornale”: “Verso la fuoriuscita dal nucleare /Mi illumino di niente”; Salvatore Quasimodo: “Granelli: fermate il piano Finsider / Prodi non ci sta, ed è subito guerra” (“Corriere della sera”); ‘Vertice europeo / Ed è subito rissa” (“La Nazione”); anche Giacomo Leopardi non è risparmiato: “E il naufragar m’è fatale in questo alcol” (“Corriere della sera”).
Figuriamoci i film: “Gorbaciov vola sul nido del cuculo” (“Messaggero”), “E Rust volò sul nido del Cremlino” (“II Tempo”), “Che succede se qualcuno vola sul nido del Cremlino?” (“Messaggero”); sul mondiale superleggeri di pugilato di sabato 4 luglio 1987: “Tranquillo week-end di paura” (“la Repubblica”), sulla vigilia elettorale del giugno 1987: “Un lunghissimo weekend di paura” (ancora “la Repubblica”), “Torino appalti: un weekend di paura”, “Tranquillo Fantastico di paura”; “Natta ritorna dalla Russia con amore” (“Corriere della sera”); “La pagella, un oscuro oggetto di desiderio” (“Messaggero”); “Palazzo Campana: amarcord di quel ’67” (“Corriere della sera”); “Manca De Rose, abbondano i soliti ignoti (“Corriere della sera”); “Iran-Irak, provaci ancora Perez” (“Corriere della sera”); e ancora sul “Corriere della sera”, entrambi: “II day after di Islamabad” e “È già day after per le cavallette” (cioè le cavallette che il vento d’Africa ha fatto morire sulle spiagge laziali nell’aprile 1988); “Inferno di cristallo a New Delhi”: eguale il 30 giugno 1987 sul “Corriere della sera”, sulla “Stampa” e sul “Giornale”; e il 6 maggio 1988 il modulo si ripete; tutti allineati come se fosse la prima volta: “Los Angeles: grattacielo in fiamme / Inferno di cristallo” (il “Giornale”), “Inferno di cristallo” (la “Stampa”), “Un inferno di cristallo dal vivo” (il “Messaggero”), “Un morto nell’inferno di cristallo a Los Angeles” (“Unità”), “Los Angeles, ‘”inferno di cristallo” (“Paese sera”), “Un inferno di cristallo nel centro di Los Angeles” (la “Repubblica”).
Carrellata finale con una selezione di richiami a programmi televisivi: “Venti di guerra a Sri Lanka” (“la Repubblica”), “Venti di pace a Managua” (“Corriere della sera”), ” Venti di guerra nel Pci” (“Corriere della sera”), ” Venti di guerra alla Rai” (“la Repubblica”); “Cossutta, il separato in casa” (“Corriere della sera”), “Separati in casa al Psdi” (“Messaggero”); “Giornali di Francia: indietro tutta” e “Indietro tutta sull’infedeltà” (entrambi sulla “Stampa”); “Manette sulla Gucci dynasty” (“Messaggero”).
Ultimissime, un ardito accoppiamento tra un richiamo politico e un richiamo musicale (Mozart): “Una, cento, mille Valsella, così fan tutte ma il giudice è impotente” (“Corriere della sera”).
h) In questo capitolo rientrano d’ufficio i forestierismi che, a differenza di quelli di cui abbiamo già parlato, non hanno alcuna utilità o necessità, sicché si può supporre che vengano usati soltanto per rendere più “bello” il testo o per far sapere che si conoscono le lingue straniere (ma davvero?); eccone un campione: “atout”, “austerity”, “avances”, “basket”, “blitz”, “break” e “budget”, “carnet”, “chance”, “clergyman”, “collier”, “deja vu”, “dossier”, “drink”, “escalation”, “establishment”, “export-import”, “fall out”, “first lady”, “fiscal drag”, “guardrail”, “golpe”, “grisbi”, “happening”, “hinterland”, “kit”, “kolossal”, “leader”, “maî tre a penser”, “mass media”, “match”, “meeting”, “mix” e “mixer”, “musical”, “nuance”, “omelette”, “opinion maker”, “optional”, “outsider”, “pamphlet”, “partner”, “party”, “performance”, “plafond”, “promotion”, “pole position”, “premier”, “prime rate”, “privacy”, “ralenti”, “recital”, “remake”, “revival”, “ring”, “set”, “shopping”, “sketch”, “special”, “spot”, “staff’, “stage”, “status symbol”, “summit”, “suspense”, “target”, “test”, “top secret”, “tour”, “turnover”, “vernissage”, “verve”, “week-end”.
Vediamoli un po’, questi inutili forestierismi, tolti dall’ambiente nel quale hanno un minimo di possibilità di essere compresi, e inseriti non tanto in un testo, dove si può sperare che dal contesto esca qualche elemento che aiuti a capirli, ma in un titolo, destinate anche a un pubblico di medio o modesto livello culturale,; “L’Italia ora si trova in pale position fra i paesi europei” (“Messaggero”, 12 giugno 1987), “La bagarre delle poltrone” (su sei colonne in apertura di prima pagina sul “Corriere della sera” del 30 luglio 1987), “Sul Golfo io non bleffo / Reagan avverte, ma Tokio invia un suo messaggero in Iran” (su sette colonne in apertura di prima pagina sulla “Nazione” del 9 giugno 1987), “Terra, altri 40 anni di baby boom” (su sette colonne in apertura di sesta pagina sulla “Stampa”), “L’ambasciatore Usa dribbla Waldheim” (“Messaggero”, 24 giugno 1987), “Tilt / Vertice Cee: Thatcher non molla (“La Nazione” 30 giugno 1987), “Marco / panzer / Riallineamento?” (“La Nazione”, apertura di prima pagina, 4 novembre 1987), “Sulla voce dei piloti c’è il top secret” (ancora sulla “Nazione”, su sette colonne in prima pagina), “Coi giovani rimane il gap” (“Messaggero”, 11 ottobre 1985); tutti titoli che, per la loro scarsa intelligibilità, giustificano la satira di “Tango” (supplemento all'”Unità” del 26 ottobre 1987): “Wall Street: il day after del big crash / Plof del trend del Dow Jones / Iri: blitz del pool del trust. Wow!”.
i) In questo largo ventaglio di inutili sforzi per abbellire il linguaggio giornalistico (rendendolo invece più brutto o, per lo meno, oscuro) non può rimarcare un accenno alle citazioni erudite, in via di estinzione, tuttavia (e lasciamo senza risposta la domanda se a estinguersi è l’erudizione oppure gli eruditi oppure – speriamo sia così – il cattivo gusto di servirsi di citazioni erudite in un discorso che deve rivolgersi con semplicità a un pubblico non necessariamente tenuto a conoscere latino e greco); eccone alcune, ma solo quelle che si trovano, o si trovavano, più spesso: “ab ovo”, “absit iniuria verbo” o “verbis”, “ad abundantiam”, “ad audiendum verbum”, “ad maiora”, “ad personam”, “ad usum delphini”, “alea iacta est”, “alter ego”, “ante litteram”, “apertis verbis”, “a priori”, “beati monoculi in terra caecorum”, “brevi manu”, “captatio benevolentiae”, “casus belli”, “Cicero pro domo sua”, “coram populo”, “cui prodest”, “cum grano salis”, “de iure condendo” e “de iure condito”, “deminutio capitis”, “deus ex machina”, “do ut des”, “deminutio capitis”, “dura lex sed lex”, “errare humanum est”, “est modus in rebus”, “ex cathedra”, “ex novo”, “extrema ratio”, “hic Rhodus hic salta”, “in camera caritatis”, “in fieri”, “in medias res”, “in medio stat virtus”, “in nuce”, “intelligenti pauca”, “inter nos”, “ipse dixit”, “ipso facto”, “longa manus”, “lupus in fabula”, “magna pars”, “mala tempora currunt”, “manu militari”, “mare magnum”, “medice cura te ipsum”, “memento mori”, “minus habens”, “more solito”, “mutatis mutandis”, “nemo propheta in patria”, “nihil sub sole novi (o novum)”, “non olet”, “obtorto collo”, “oportet ut scandala eveniant”, “ore rotundo”, “o lempora o mores”, “panem et circenses”, “parce sepulto”, “primus inter pares”, “pro bono pacis”, “promoveatur ut amoveatur”, “punctum dolens”, “qui pro quo”, “quis custodiel custodes?”, “quot capita tot sententiae”, “res sic stantibus”, “redde rationem”, “relata refero”, “repetita iuvant”, “risum teneatis”, “sancta sanctorum”, “semel in anno”, “sic et simpliciter”, “sic transit gloria mundi”, “sua sponte”, “sub iudice”, “tertium non datur”, “timeo Danaos et dona ferentes”, “toto corde”, “ubi maior minor cessat”, “ultima ratio”, “unicuique suum”, “verba volant”, “vexata quaestio”, “vox clamantis in deserto”.
Queste che abbiamo elencato sono espressioni latine destinate a scomparire, e se scomparissero solo nel linguaggio dei giornali, non ci sarebbe niente di male; altre rimarranno, perché ormai entrate nel parlare comune (in certo modo italianizzate o ritenute italiane; “in alto loco”, “insalutato hospite”, “pollice verso”, “tabula rasa”, “grosso modo”, “in extremis”, “longa manus”, “pro loco”); altre sono legate ad alcuni linguaggi settoriali e sarebbe bene che anche le nuove leve giornalistiche, arrivate alla professione con scarsa o nessuna conoscenza del latino, le identificassero come tali, per evitare comici errori di pronuncia o di scrittura (in genere lo scambio è con l’inglese, per cui “placebo” è da qualcuno pronunciato plesibo, “habitat” ébiteit, “iter” àiter, e “aut… aut” è spesso scritto “out… out” e a volte pronunciato, come se fosse francese, ot… of); ecco allora i latinismi in uso in questa o quell’area linguistica: “ad hoc”, “ex aequo” (possibilmente, non “ex equo”), “erga omnes”, “honoris causa”, “in vitro”, “modus vivendi”, “more uxorio” (superato ormai dal cambiamento dei costumi), “motu proprio”, “omissis”, “placet”, “plenum”, “pro capite”, “statu quo”, “sui generis”, “una tantum”, “vacatio legis”.
1) Un altro genere che, per fortuna, è quasi completamente scomparso è quello legalo a una retorica di tipo ottocentesco, caratterizzata dall’uso di vocaboli quanto più possibile aulici, da una densa aggettivazione, da abbondanti metafore ed anafore; è uno stile di cui si trovano tracce ogni tanto, soprattutto nella cronaca, e che esprime nel modo più chiaro che cosa si intendeva un tempo per “bello scrivere”; ma, se si fa attenzione, si nota che il “bello scrivere” di oggi si differenzia da quello soltanto per il lessico diverso e nuovo, eguale essendo il gusto per gli aggettivi e per le parole ricercate; eguale, cioè, essendo la convinzione che l’emozione del lettore si stimola non con le cose che sì raccontano, bensì col modo in cui quelle cose sono raccontate ossia non con la sapiente e sobria architettura delle parole-cose, ma con l’abbondanza e la pregnanza delle parole-emozioni; verifichiamo con questi esempi recenti su quotidiani nazionali (non ne faremo il nome): “… il drammatico episodio… aggiunge un nuovo anello alla spirale di violenza e morte che sconvolge l’area del Golfo… Grazie alle testimonianze di alcuni scampati all’orrenda carneficina è stato possibile ricostruire solo in parte e in modo provvisorio le sequenze del tragico film… L’aereo come un uccello colpito a morte è precipitato in fiamme… Sono stati momenti teribili… In un attimo il jet si è trasformato in una terribile bara di fuoco… qualcuno è riuscito ad attivare uno scivolo di emergenza; ed è attraverso questa via che trenta persone si sono conquistate il diritto di vivere… Dietro di loro è rimasta la morte.
m) A questo registro aulico e retorico si contrappone il registro colloquiale e familiare, ma la contrapposizione è solo apparente, perché gli obbiettivi non sono molto diversi: il primo registro è usato per conquistare l’ammirazione e la reverenza di chi legge, il secondo per accattivarsene la confidenza e la simpatia, e così facilitare l’accettazione dei contenuti grazie alla instaurazione di una specie di rapporto “alla pari”. Si capisce, quindi, che il fenomeno sia limitato solo ad alcuni settori del giornalismo e che il settore meno toccato sia proprio quello della cronaca; frequente è invece negli articoli di fondo e nei servizi impegnati, in particolare negli “incipit”. “Cosa passa il convento dopo il voto?” comincia un articolo della “Repubblica”; “Così, dopo un mese e mezzo dalle elezioni, è nato il governo Goria-Amato” sono le prime parole di un articolo della “Stampa”; lo stesso per l'”Unità”: “E così Ilona Staller è stata eletta deputata della repubblica”; e ancora sull'”Unità”: “Diciamolo francamente…”.
Sul piano della lingua, e in specie su quello lessicale, il fenomeno è tuttavia positivo, perché, attingendo spesso ai modi popolari, semidialettali e paragergali, arricchisce il linguaggio giornalistico con vocaboli e locuzioni che mantengono la vitalità dell’uso e sono quindi largamente comprensibili o, per lo meno, di facile apprendimento oltre l’area di provenienza.
L’esempio più convincente è dato dalle parole regionali; ne bastano alcune: dall’Italia settentrionale “barbone”, “maneggione”, “sberla”, “scartoffia”; da Roma “bagarino”, “iella”, “inghippo”, “lagna”, “pacchia”, “pappagallo” (il corteggiatore di strada), “sfilatino” e parecchi aggettivi in -aro (“graffitaro”, “gruppettaro”, “palazzinaro”, “madonnaro”, “rockettaro” ecc.); dall’Italia meridionale “bancarella”, “bustarella”, “camorra”, “carrozzella”, “intrallazzo”, “marchingegno”, “mazzetta”, “pastetta” (per “imbroglio”), “pezzo da 90”, “pizza”, “sfizio” e così via; e altrettanto si potrebbe dire di vivaci gergalità come “aria fritta”, “olio di gomiti”, “figlio della serva”, “fare un quarantotto”, “essere una mezza cartuccia”, “smammare”, “fare le scarpe”, “farsi” (la macchina, un bicchiere), “tagliare la testa al toro”, “costare l’osso del collo”, “pastrocchiare”, “sgraffignare”, “stravaccarsi”, “sparapanzarsi”, “darsi una regolata”.
Sia pure entro limiti circoscritti e con scopi spesso subliminari (dell’intreccio con i modi della pubblicità parleremo più avanti) i giornali contribuiscono, così facendo, alla propagazione dell’italiano verso il basso e alla legittimazione pubblica (Gian Luigi Beccarla) dell’informale e del colloquiale. Magari facessero di più.
n) Caratteristiche analoghe a tutte quelle che abbiamo elencato si ritrovano nel linguaggio del giornalismo sportivo e, nonostante una certa moderazione espressiva che si è manifestata in questi ultimi anni, è il momento di parlare di esso proprio in questo capitolo dedicato al “bello scrivere”, allo scopo di rilevarne il gusto, ancora prevalente, dell’aggettivazione enfatica, delle immagini ridondanti e barocche, ossia, anche qui, la tendenza ad un discorso non razionale, che tende a suscitare emozioni non con i fatti, ma attraverso le figure retoriche, i toni e i registri del linguaggio.
Delle metonimie ossia delle invenzioni, alcune anche divertenti, per cui la materia si sostituisce all’oggetto (“cuoio”, “legno” ecc.) o il luogo alle persone che vi si trovano (“panchina” ecc.) abbiamo già parlato; ad essi potremmo aggiungere altri vocaboli, arricchiti di nuovi significati e di nuove cariche semantiche (il cerchio della pista che diventa “anello”, lo stadio che diventa “catino”, lo schieramento difensivo che diventa “catenaccio”, l’ultimo tratto di pista che diventa “dirittura (d’arrivo)”, e così “imbeccata” (il passaggio della palla), la “scuderia” (la squadra), la “sfera” (la palla), la “traversa” (la sbarra orizzontale della porta del gioco del calcio), la “forma” (la condizione fisica), i “colori” (il nome e il prestigio della squadra).
Vediamo già qui che la caratteristica del linguaggio sportivo, il modo in cui esso esprime la propria presunta necessità di suscitare meraviglia ed emozione, è il traslato; il traslato esige fantasia, invenzione, ed è per questo che le cronache dello sport, a parte i contenuti, non irritano come altri settori dell’informazione. Il traslato è un modo per uscire dal luogo comune; tutto sta nel non ricascarci,-cosa che accade invece molto spesso, quando il traslato diventa un nuovo luogo comune. Diamo un’occhiata ai vari modi di questo linguaggio.
Prima di tutto, i verbi, fraseologici o no; eccone un campione: “addormentare la partita”, “agganciare la palla”, “andare in barca” (cioè perdere il filo del gioco), “balbettare” (per un gioco incerto ed esitante), “chiamare la palla”, “dialogare in profondità”, “dosare il tiro”, “falciare” o “francobollare” l’avversario, “filtrare un passaggio”, “forare la difesa”, “fulminare in rete”, “imbastire un’azione”, “imbeccare” (dare il pallone a un compagno), “imbottigliare l’avversario”, “infilare” (l’avversario oppure il pallone in rete), “lavorare di spola”, “macinare azioni su azioni”, “ricucire il centro campo”, “sforbiciare (colpire il pallone con un rapido movimento, a forbice, delle gambe), “siglare il gol”, “svirgolare” (colpire male il pallone), “telefonare” (lanciare il pallone a un compagno di squadra lontano), “toccare in bellezza”; questi, per il giuoco del calcio; per il ciclismo: “mordere la strada”, “risucchiare” o “seminare” l’avversario (superandolo o lasciandolo indietro), “succhiare le ruote”, “superare in tromba” e così per gli altri sport; per ultima l’espressione più divertente (nel gioco del calcio): “manovrare la sfera”, dopo di che ci si domanda perché l’arbitro non fischi il fallo di mano, visto che “manovrare” significa appunto “operare con la mano”.
Accanto a questi verbi specifici, quelli presi in prestito da altre aree linguistiche, ma scelti tutti fra i più immaginifici oppure caricati di immagini traslate; se ne può dare solo una breve casuale rassegna: “essere in apnea”, “mettersi in ginocchio”, “raccogliere margherite”, “aprire una breccia”, “non trovare il bandolo della matassa”, “non avere più storia”, “indorare la pillola”, “srotolarsi nella noia”.
Poi gli aggettivi, ma, anche questi, cercati fra quelli più enfatici e uniti al sostantivo in maniera da dargli una carica emotiva; per esempio: “agghiacciante” (il risultato), “apocalittico” (il boato della folla), “divino” (il giocatore), “elettrizzante” o “esaltante” (l’azione), “fantasmagorico” o “fantastico” o “favoloso” o “fenomenale” o “formidabile” (il gol, la partita), “guizzante” o “grintoso” (il giocatore), “inebriante” (l’incontro), “inesorabile” (il tiro), “irsuta” (la difesa), “maiuscola” (la prestazione), “micidiale” (il tiro), “ossessionante” (il ritmo), “tetragona” (la difesa); e così via- “mordente”, “mostruoso”, “perentorio”, “rombante”, “sensazionale”, “spettacolare”, “superlativo”, “sovrumano”.
Poi l’uso smodato degli accrescitivi e dei superlativi: “campionissimo”, “classicissima”, “partitissima”, “supercampione”, “supermarcatore”, “superpartita”, “partitona”, “squadrone”; anche “lanciatissimo” e “solissimo”.
Poi i toni e il registro: i toni quasi sempre epici e guerreschi, volti a creare emozioni e suscitare entusiasmi (la partita che si trasforma in una “furibonda battaglia” nello stadio “fiammeggiante di sole”, quando non è addirittura uno “scontro all’arma bianca”; gli atleti che appaiono come “eroi”, “furie”, “titani”, “proiettili umani”; e le azioni che diventano “arrembaggi”, “bombardamenti”, “imboscate” contro il “fortino” del campo avversario e il “bunker” dell’area di rigore; il registro è invece, a volte, letterario (Giovanni Arpino: il centrocampo “sornione e attento”, il tocco “morbido” dell’attaccante, i recuperi “dispendiosi e confusi”), non senza richiami storici, filosofici, poetici e artistici e citazioni erudite (Antonio Ghirelli: l’azione della Figc è uno “Sturm und Drang” e l’azzurro delle maglie della squadra nazionale di calcio fa pensare “al Picasso del periodo mediterraneo”).
Anche i forestierismi fanno parte di questo quadro; molti dì essi sono pertinenti a sport entrati in Italia dall’estero col loro bagaglio di tecnicismi (il calcio dall’Inghilterra e il ciclismo dalla Francia alla fine del secolo scorso; il pugilato, il nuoto, l’atletica leggera, il rugby, la pallacanestro, il baseball dagli Stati Uniti, specie dall’ultimo dopoguerra in poi; altri dal Giappone e da altri paesi negli ultimi anni) ed è già apprezzabile che alcuni vocaboli stranieri siano stati sostituiti da analoghi vocaboli italiani (per esempio, nel gioco del calcio, “rete” e “portiere”; con più fatica, “calcio di rigore” al posto di “penalty” e “angolo” al posto di “corner”) oppure italianizzati (per esempio, “goal” che diventa “gol”); parecchi tecnicismi sono insostituibili perché internazionalmente legati ai loro sport oppure non adattabili alla morfologia della lingua italiana (l'”inning” del baseball, l'”indoor” dell’atletica e così via: “chicane”, “endurance”, “rally”, forse anche “pole position” nell’automobilismo; “stopper” nel calcio; “cross” e “ciclocross”, “pavé”, “sprinter”, “surplace” nel ciclismo; “drive” e “green” nel golf; “barrage”, “sulky” nell’ippica; “cross country” e “motocross” nel motociclismo; “off-shore” nella motonautica; forse “pivot” nella pallacanestro; “k.o.” o “knock out” nel pugilato; “touché” nella scherma; “slalom” nello sci; “tiebreak” nel tennis; “flying dutchman”, “skipper”, “spinnaker”, “surf” e “windsurf ‘ nella vela; “break” e “handicap” in vari sport).
Di tutti gli altri forestierismi esistono i corrispettivi in italiano, a cominciare da “pallacanestro”, che non si capisce perché debba essere chiamata “basket”; e l’uso della parola straniera, anche se generalmente capita dai lettori che seguono lo sport, è del tutto inutile: “meeting” per “riunione”, “repéchage” per “gara di recupero” o “recupero”, “starter” per “mossiere”; “gymkhana” per “gincana”; “corner” per “angolo”, “cross” per “traversone”, “match” per “incontro”, “offside” per “fuorigioco”, “penalty” per “calcio di rigore”, “trainer” o “coach” per “allenatore” e “dribbling”, “forcing”, “pressing”; “grimpeur” per “scalatore”, “sprint” per “scatto” e “sprinter” per “scattista” o “velocista”; “crochet” per “colpo basso”, “ring” per “quadrato”, “round” per “ripresa”, “swing” per “montante”, “uppercut” per “gancio”; “manche” per “prova”, “skilift” per “sciovia”; “drive” per “diritto”, “game” per “giuoco”, “out” per “fuori”, “set” per “partita”, “smash” per “schiacciata”, “volée” per “colpo a volo”; la ragione non può quindi che essere una, la stessa che troviamo in altri settori dell’informazione: la convinzione che il forestierismo renda più bello e prezioso il discorso informativo e qualifichi a un livello superiore, come conoscitore di lingue straniere, il giornalista che lo fa; la riprova la troviamo quando il telecronista usa, al posto di “al rallentatore”, la parola “ralenti” (oltretutto, pronunciandola male: ràlenti invece di ralantì; e cosi fa la figura dell’ignorante; ben gli sta).
Quello dello sport è insomma un linguaggio epico-folcloristico, amante delle iperboli, zeppo di neologismi, di arcaismi, di forestierismi anche inutili, di figure retoriche e grammaticali, in un continuo oscillare dalla banalità all’ermetismo, fino alla esagerazione e all’assurdo; un linguaggio in buona parte da respingere, ma che merita indulgenza e perfino simpatia, perche è un linguaggio che -sia pure aiutato dai contenuti, più vicini agli interessi, alle curiosità, alle passioni dei lettori – ha saputo conquistarsi un suo pubblico, facendosi quasi sempre capire e diventando addirittura il parametro sul quale il lettore modella un suo modo di esprimersi.
Il giornalismo come un fatto di potere
II secondo dei due grandi miti che pesano da sempre sulla professione giornalistica è che essa rappresenti una qualche forma di potere. II primo mito l’abbiamo visto: il giornalismo non come mediazione tra la onte e i fruitori del messaggio; non come accertamento – nella realtà che ci circonda col suo incessante corso di accadimenti – dell’evento meritevole di diventare materia di fruizione, cioè di diventare notizia; non come capaciti di raccontare le cose, ossia i fatti, le vicende, con un linguaggio comprensibile ai lettori; non come soddisfacimento dei bisogni informativi del cittadino-lettore, dei suoi interessi, delle sue curiosità; non come scienza del contingente e della quotidianità, non come supporto di storiografia ed esso stesso, in certo modo, storiografia; bensì il giornalismo come qualcosa che attiene alla letteratura, come un’attività letteraria, come esercizio di bella scrittura, come culto della prosa elegante (o creduta tale), come ricerca formale al di là dei contenuti, come compiacimento estetizzante e narcisistico.
È il mito legato alla fatidica domanda “giornalisti si nasce o si diventa?”, alla quale chi la pone sa già come rispondere: che il giornalismo non è un mestiere come tutti gli altri, che non si esaurisce nei suoi contenuti tecnici, culturali e, se vogliamo, ideali, ma si risolve sempre in “qualcos’altro”, una dote innata, un privilegio di natura; una capacità misteriosa (fiuto, intuito, sensibilità?), che non necessariamente presuppone studio, conoscenze culturali e linguistiche, capacità di analisi critica, gusto della ricerca anche se paziente e faticosa, e infine il possesso dei necessari strumenti semantici insieme all’umiltà di servirsene nell’interesse di quel vasto universo di lettori che dal giornalismo aspettano non verità prefabbricate ma gli elementi per essere più liberi e per migliorare la qualità della propria vita.
Il secondo mito ha anch’esso radici lontane ed è stato reso ufficiale da quando, un secolo e mezzo fa, alla Camera dei Comuni, Edmund Burke, statista e scrittore politico, defini il giornalismo come il “quarto potere” accanto al legislativo, all’esecutivo e al giudiziario; molto probabilmente il deputato Burke intendeva dire che, in un sistema democratico, la stampa esercita un potere di controllo sugli altri tre poteri, nella misura in cui si fa portavoce dell’opinione pubblica; ma oggi la funzione appare spesso ribaltata, e il giornalismo, più che rendersi interprete dei cittadini, si fa invece strumento, sui cittadini, di altri poteri, politici o economici; ed è questa politicizzazione della stampa italiana fino dalle sue origini ottocentesche che ha dato alimento al protagonismo del giornalista e alla sua convinzione che la professione giornalistica sia un’attività socialmente aristocratica, che nasce e si conclude in ambienti altamente qualificati.
Da quando mondo è mondo la stampa – scritta e ora soprattutto parlata – è stata considerata un mezzo per la conquista o la conservazione del potere e da quando mondo è mondo la lingua – o, meglio, un certo tipo di lingua – un mezzo per codificare il potere, presunto o no, di cui ci si sente investiti: un sistema che deliberatamente passa sopra la testa del pubblico per raggiungere soltanto chi conosce il codice e sa decifrarne i messaggi. Tutto questo spiega i rapporti di osmosi, di scambio, di reciproco stimolo che legano il linguaggio di un certo giornalismo con due particolari sottocodici linguistici, quello della politica e quello della pubblicità; e il linguaggio del giornalismo e quello della politica con un terzo sottocodice, quello burocratico-amministrativo. Giornalismo, politica e pubblicità hanno infatti come mezzo la persuasione, palese od occulta; come fine il consenso; e come contenuto, spesso, un immaginario collettivo e totalizzante. Per quanto riguarda il lessico, tutti e tre rappresentano il variopinto connubio tra la lingua comune, gli apporti linguistici di tecniche diverse e le strutture formali dell’antica arte del convincere: la retorica come docere, movere e delectare; insegnare, commuovere e dare diletto a chi legge od ascolta.
Al terzo sottocodice – quello burocratico-amministrativo – il giornalismo si avvicina e in parte lo assume per forza di cose: è il linguaggio mistificante che la “nomenklatura” e, via via calando, tutte le strutture burocratiche fino alle più modeste, creano per stabilire la peculiarità e l’autorità della loro posizione nella società; sono gli stessi motivi per cui il giornalista cerca in un certo linguaggio lo strumento per legittimare la sua opera di persuasore; e anche per far capire al lettore che il messaggio che graziosamente gli fornisce proviene da ambienti di grande prestigio, di cui egli si ritiene e vuoi mostrare di essere partecipe.
Del linguaggio della pubblicità parleremo nell’ultimo capitolo, quando si accennerà al sistema di produzione nel quale giornalisti e pubblicitari operano. Qui analizzeremo il linguaggio della politica e quello della burocrazia. Sul “politichese” è già stato scritto molto da autorevoli esperti di lingua e di costume; ci limiteremo perciò ad analizzarne i modi espressivi in rapporto al linguaggio giornalistico per le parti che hanno in comune.
a) Prima di tutto le metafore, che anche in questo caso sono il peccato meno grave, perché spesso evitano perifrasi e ripetizioni e posseggono inoltre una notevole efficacia mnemonica; la provenienza è dai campi più diversi (economia, medicina, matematica e geometria, scienza e tecnica, sport) e il fenomeno è simile a quello dei neologismi semantici che abbiamo visto nel quinto capitolo; è difficile stabilire se l’operazione di assorbimento e manipolazione è parallela, oppure se il giornalismo ha assunto queste espressioni dalla politica o viceversa; alcuni esempi: “ago della bilancia”, “anni di piombo”, “area di parcheggio”, “assalto alla diligenza”, “autunno caldo”, “banco di prova”, “bene rifugio”, “caccia alle streghe”, “cavallo di razza”, “cinghia di trasmissione”, “colpo di spugna”, “corsa agli armamenti”, “cortina di ferro”, “crisi di identità”, “crisi al buio”, “cultura dell’effimero”, “emorragia di voti”, “falce e martello”, “fase di stallo”, “fuga in avanti”, “gabinetto ombra”, “giro di valzer”, “giro di vite”, “incidente di percorso”, “ipotesi di lavoro”, “lavaggio del cervello”, “parco buoi”, “polo di sviluppo”, “politica dei redditi”, “provvedimento ponte”, “rosa dei candidati”, “salto nel buio”, “salto di qualità”, “salto della quaglia”, “scuola di pensiero”, “socialismo dal volto umano”, “spirale della violenza”, “stanza dei bottoni”, “stanza di compensazione”, “stato di necessità”, “strategia dell’attenzione”, “strategia del consenso”, “strategia della tensione”, “tempi di vacche grasse”, “testa d’uovo”, “tigre di carta”, “travaso di voti”, “ventaglio dei salari” ecc. ecc.
Meritano una sezione a parte le metafore coniate per “legge”, “governo” e “sciopero”: legge capestro, cornice, quadro, ponte, stralcio; governo allo sbando, a luci rosse, a rischio, a termine, balneare, congelato, del non voto, di larghe intese, di latitanza, di maggioranza elastica, di parcheggio, di programma, di transizione, di trasparenza, fantoccio, fotocopia, ponte, propositivo, sexy-ecologico, anche governo vattelappesca; sciopero articolato, a catena, alla rovescia, a scacchiera, a singhiozzo, bianco, di disturbo, selvaggio.
b) La suffissazione in -ismo; l’elenco dei nomi è infinito e ne daremo soltanto un campione, scelto fra i meno comprensibili per i “non addetti ai lavori”: “avventurismo”, “bipolarismo”, “buonismo”, “cattocomunismo”, “collateralismo”, “continuismo”, “dirigismo”, “doroteismo”, “entrismo”, “europessimismo”, “frazionismo”, “fusionismo”, “garantismo”, “gruppuscolarismo”, “kabulismo”, “migliorismo”, “marginalismo”, “milazzismo”, “millenarismo”, “nostalgismo”, “paleocapitalismo” e “paleocomunismo”, “panzercomunismo”, “pentitismo”, “perbenismo”, “perdonismo”, “permessivismo”, “piduismo”, “presenzialismo”, “rambismo”, “rampantismo”, “sfascismo”, “stragismo”, “terzaforzismo”, “terzomondismo”, “tripolarismo”, “verticismo”.
c) La suffissazione dei verbi in -izzare (e dei relativi nomi in -izzazione); anche qui un breve elenco dei più brutti: “deindustrializzare”, “ghettizzare”, “marginalizzare”, “meridionalizzare”, “prefettizzare”, “quotidianizzare”, “robotizzare”, “roulottizzare”, “saragattizzare”, “satellizzare”, “scolarizzare”, “scristianizzare”, “semestralizzare”, “serializzare”, “sessualizzare”, “settimanalizzare”, “sottocapitalizzare”, “spettacolarizzare”, “sprivatizzare”, “tecnicizzare”, “terziarizzare”, “vietnamizzare”.
d) L’aggettivazione in -ista o in -iano da nomi propri; tutti ovvii e accettabili, da “stalinista”, “leninista”, “gollista” (ma non “titoista” invece di “titista”) a “fanfaniano”, “berlingueriano”, “gorbacioviano” (qualche difficoltà per “occhettiano” e “ingraiano”); ricordiamo qui anche “doroteo”, che ha una diversa origine (il convento di Santa Dorotea nel quale, nel 1958, avvenne la scissione della corrente che nella Dc faceva capo a Fanfani), ma che ha poi figliato il discutibile “moroteo”, poi “doromoroteo”.
e) Gli ossimori ossia gli accostamenti paradossali di termini di significato contrario o contraddittorio: le famosissime “convergenze parallele” da cui “divergenze convergenti” e “divergenze parallele” (“De Mita e Andreotti / le divergenze parallele” sulla “Repubblica” del 20 giugno 1987); la “fiducia nella non sfiducia”, il “partito di lotta e di governo”, gli “equilibri più avanzati”, un'”opposizione costruttiva”, la “maggioranza delle minoranze”, il “totalitarismo pluralistico”, le “ruote quadrate”, un “impegno contestativo” e un “disimpegno che non contesti”, una “critica fiancheggiatrice”; tutti coniati, però, più dai giornalisti politici che non dagli uomini politici.
f) Gli eufemismi creati non per una forma di psicologica interdizione, ma per la cosciente volontà di attenuare la crudezza o la impopolarità di certe espressioni: i licenziamenti diventano “un piano di alleggerimento”, i disoccupati una “manodopera disponibile”, la svalutazione un “allineamento monetario” o uno “slittamento della moneta”; il “ritocco” o l'”assestamento dei prezzi” è l’aumento dei prezzi, il “raffreddamento dell’economia” è la crisi economica; invece di diminuzione si dice “decremento” o addirittura “crescita negativa”, invece di sfiducia “non fiducia”, invece di sciopero degli insegnanti “non partecipazione agli scrutini”; un tipo di vera e propria interdizione (per vergogna? per paura?) si è avuta invece per molti anni dopo la fine della guerra, quando si parlava di “passato regime” o di “bieco ventennio” (il fascismo), di “nostalgici” (i neofascisti) e dell'”ex-Duce” (Mussolini).
g) Le espressioni che si richiamano a particolari momenti o episodi della vita politica, usate senza una contestuale spiegazione: “Aventino”, “autunno caldo”, “boia chi molla”, “convegno del Midas”, “Domus Mariae”, “Kennedy round”, “legge truffa”, “notte di San Gregorio”, “operazione Sturzo”, “opposti estremismi”, “opzione zero”, “patto d’unità d’azione”, “politique d’abord”, “Pralognan”, “regime dei colonnelli”, “repubblica conciliare”, “scissione di palazzo Barberini”, “Sessantotto”, “spaghetti italiani in salsa cilena”, “terza”, “quarta” e “quinta repubblica”; alcune di queste espressioni sono scomparse o stanno scomparendo quatto più ci si allontana dalla vicenda cui si riferiscono, salvo “Aventino” (“ritirarsi sull’Aventino”), che riappare ogni tanto a tanti anni di distanza (1924); la loro comprensibilità è pertanto più o meno circoscritta agli ambienti politici
h) I forestierismi non necessari e comunque non spiegati nel contesto: “gentlemen’s agreement”, “apartheid”, “auditing”, “austerity”, “budget”, “cash flow”, “deregulation”, “export-import”, “fiscal drag”, “hearing”, “impeachment”, “prime rate”, “understatement”; ma anche questi prosperano fra i giornalisti politici più che fra i politici.
i) Lo stile nominale con la trasformazione del verbo in sostantivo (“è necessario che tutti collaborino” diventa “è necessaria la collaborazione di tutti”) e soprattutto col passaggio dal verbo semplice al verbo fraseologico appare una delle più rilevanti caratteristiche del linguaggio dei politici, tanto più che esso comporta, diversamente dai titoli dei giornali, non una economia ma uno spreco di mezzi linguistici; il politico non “dice” ma “dichiara”, anzi “fa” o “rende una dichiarazione”; non “dice di essere disposto” ma “dichiara la propria disponibilità”; non “dice di essere convinto” ma “conferma la propria convinzione”; non “si dice preoccupato” ma “manifesta la sua preoccupazione”; non “conclude” ma “trae le conclusioni”; non “esamina” ma “prende in esame”; non “suppone” ma “avanza l’ipotesi”; non “vuole” ma “afferma la volontà”; non “spera” ma “nutre speranza”; non “testimonia” ma “rende testimonianza”; non “entra” ma “fa il suo ingresso”; non “visita” ma “rende visita”; lo stile nominale crea insomma una serie di schemi costruttivi che possono essere usati in ogni contesto sintattico, rendendo il parlare del politico al tempo stesso più facile per lui e più “importante” per chi lo ascolta o lo legge.
A questo punto appare chiaro come sia difficile distinguere il linguaggio della politica dal linguaggio del giornalismo politico; tra l’uno e l’altro ci sono infatti ben tre tipi di rapporti: il rispecchiamento (il secondo è la copia del primo), l’adattamento (il secondo adatta ai propri codici le forme del primo) e lo scambio (entrambi creano nuovi modi e se li scambiano a vicenda: il linguaggio giornalistico soprattutto il lessico, il linguaggio della politica soprattutto le costruzioni sintattiche). Si può cercare allora di spiegare perché il politico usa un linguaggio quasi sempre lontano da quello corrente e quasi sempre di difficile comprensione. Umberto Eco sostiene che il politico parla oscuro perché emette un messaggio in cifra che parte da un gruppo di potere e deve raggiungere un altro gruppo di potere; e che il fatto che non sia capito dagli altri è la condizione indispensabile per il permanere di un rapporto privato tra i gruppi di potere. Ma ci sono anche altre spiegazioni, che non contraddicono e si aggiungono alla prima: una è che la lingua è spesso usata non come mezzo per comunicare ma come un simbolo di riconoscimento, di identificazione e di coesione di un gruppo; l’altra è che il ricorso a discorsi lessicalmente e sintatticamente difficili serve sia a nascondere la realtà sia a condizionare chi li ascolta o li legge, agendo sulla sua ignoranza. Eugenio Ambrosi fa un paragone divertente: che cosa significa, per i più, che è migliore il dentifricio contenente esaclorofene o un frigorifero fatto con poliuretani espansi? è proprio come proporre equilibri politici più avanzati senza dire di quali equilibri si tratta.
Ci fermeremo più avanti su questo legame tra discorso politico e discorso pubblicitario. Per il momento ci limiteremo a notare che, se spiegazioni ci sono dell’oscurità del linguaggio politico, queste spiegazioni non valgono per il linguaggio giornalistico. Non è, il giornalismo, una mediazione tra l’emissore e il fruitore del messaggio? e che mediazione è se il messaggio non è capito da chi lo riceve? e un messaggio non capito non è un messaggio inesistente?
Vediamo ora il linguaggio della burocrazia, con una rassegna delle espressioni tipiche delle circolari e dei manifesti degli uffici amministrativi centrali e periferici dello stato, ma tipiche anche, per analogia di situazioni, delle amministrazioni private, senza escludere che, per il fenomeno di osmosi di cui si è detto, alcune di tali espressioni siano nate in ambienti politici; in ogni caso la caratteristica comune è il rifiuto delle parole e delle locuzioni che, proprie del parlare corrente, appaiono – per un registro aulico – volgari e grossolane e la loro sostituzione con altre, ritenute più pertinenti alla ufficialità o al prestigio della fonte e più idonee a consacrarne l’autorità.
a) Prima i nomi; per esempio: “abitacolo” (dell’automobile), “aeromobile” (così gli aerei nelle comunicazioni ai passeggeri a bordo o negli aeroporti), “audizione” (invece di “ascolto”), “balneazione” (il “vietato fare il bagno” diventa “divieto di balneazione”), “bigliettazione” (nelle stazioni ferroviarie: “è sospesa la bigliettazione”), “festività” (nelle circolari scolastiche, invece di “feste”; e le “feste di Natale” diventano “festività natalizie”), “generalità” (“fornisca le generalità”, cioè nome, cognome, paternità, data di nascita ossia i dati non della generalità ma, semmai, della individualità), “impossidenza” (sostituto di tipo eufemistico per “povertà”), “modalità”, “nominativo”, “oblazione”, “obliterazione”, “ordinativo”, “plico” (per “pacco” o grossa busta), “portualità” (la “difesa della portualità” cioè degli elementi che caratterizzano un porto), “quantitativo” (per cui dei fiaschi di vino possono diventare un “quantitativo di prodotti vinicoli”), “sede stradale” (la “strada”), “sportellatura” (in un ufficio postale: “Dalle 12 alle 14 è sospesa la sportellatura” cioè l’apertura degli sportelli), “tutela” (invece di “difesa”), “titolo di viaggio” invece di “biglietto”.).
b) I sostituti eufemistici che riguardano certe professioni o stati sociali; ce ne sono di divertenti: “agente postale” (per “postino” o “portalettere”), “cinovigile” (per “accalappiacani”), “coadiutore” (per “assistente”), “conduttore di appartamento” o, al massimo, “locatario” (per inquilino), “lavoratore edile” (per “muratore”), “lungo degente” (per “malato cronico”), “non udente” (per “sordo”), “operatore ecologico seppellitore” (per “becchino”), “operatore mercantile su spazi e aree pubbliche” (per “venditore ambulante”), “responsabile d’acquisti” (per “casalinga”), “silenziosi” (“gare per atleti silenziosi” cioè “muti”), “solventi” (negli ospedali i malati “paganti”), “tecnico della vigilanza municipale” (il “vigile urbano”), “usciere scolastico” (il “bidello”), “supporto di ufficio” (per “fattorino”), “utente dei servizi psichiatrici” (per “malato mentale”, che è già un eufemismo per “matto”), “malato terminale” (per “moribondo”; anche in un titolo di “Tutto scienze”, settimanale della “Stampa”, 11 maggio 1988: “Contro la solitudine del malato terminale”).
c) I verbi usati al posto di altri più comuni: “attergare”, “conferire”, “deteriorare”, “differire”, “dimissionare”, “dirimere”, “disdettare”, “eclissarsi”, “evidenziare”, “formulare”, “inibire”, “ipotizzare”, “notificare”, “obliterare”, “occultare”, “ospedalizzare”, “permanere” (“le condizioni del tempo permarranno instabili”), “pervenire” (“è pervenuta una lettera”), “procrastinare”, “propalare”, “referenziare” (“si accettano soltanto domande referenziate”), “reiterare”, “relazionare”, “ripristinare”, “transitare”, “traslare”, “ubicare”.
d) Le costruzioni nominali al posto del verbo semplice; “accusare ricevuta”, “adire le vie legali”, “apportare modifiche”, “associare alle carceri”, “avere dimora”, “comminare una pena”, “consumare il pasto”, “contrarre un abbonamento”, “dare comunicazione”, “dare lettura”, “darsi alla fuga” o “alla latitanza”, “effettuare fermate” (“il treno non effettua fermate”), “elevare una contravvenzione”, “espletare una pratica”, “essere fatto segno”, “fare irruzione”, “interporre i propri uffici”, “mandare assolto”, “mettere a dimora” o “a segno” o “in cantiere” o “in chiaro” o “in non cale” o “in pratica” o “in valore”, “operare un arresto”, “opporre un rifiuto”, “osservare un periodo di riposo”, “porre in essere”, “prendere domicilio”, “prestare assistenza”, “prestare giuramento”, “procedere a un arresto”, “rassegnare le dimissioni”, “sottoporre a interrogatorio” e chissà quanti altri.
e) Le tautologie cioè le mutili ripetizioni di concetti (per amore di precisione o per semplice errore?); il più frequente: “entro e non oltre”; e altri: “consentito agli autorizzati” (un cartello stradale di traffico a Firenze), “indagine conoscitiva” (al Parlamento), “pratica attuazione”, “preventiva autorizzazione”, “prospettive future”, “requisiti richiesti”, “reperti trovati”.
Il giornalismo dentro il sistema
II punto centrale e riassuntivo di tutto quello che abbiamo scritto è che il giornalismo opera in un determinato sistema, di cui il giornalista rimane fatalmente vittima, specialmente se gli manca la capacità culturale di controllarne e di padroneggiarne il processo e i meccanismi. Elementi costitutivi di quel sistema sono la situazione dell’editoria giornalistica italiana (la natura della proprietà, il rapporto col potere politico ed economico) e la situazione della categoria giornalistica (la legge sull’Ordine professionale e le sue norme, specialmente quelle che riguardano gli esami di idoneità per il passaggio a professionista); a ciò si aggiungono una serie di altri elementi che si sommano e si intrecciano: gli strumenti materiali (ossia il tipo di medium nel quale si lavora e le relative tecniche di espressione, l’organizzazione e i tempi di lavoro), le destinazioni del prodotto, i meccanismi di fruizione da parte del lettore, i rapporti con la proprietà, con i detentori del potere e, quando è il caso (frequente), con i propri padrini politici o con le proprie chiese di appartenenza.
La professionalità del giornalista non consiste soltanto nel suo patrimonio culturale e ideale, ma anche nell’adesione a questa logica produttiva; e il protagonista, allora, non è il giornalista nella sua individualità, con il suo patrimonio di eredità biologica e di storia personale, col suo maggiore o minore senso di responsabilità, col suo modo più o meno diverso di concepire il proprio dovere di mediatore, ma il giornalista come elemento di un apparato che opera secondo logiche e meccanismi corrispondenti alle strutture e ai rapporti di produzione; e che stabilisce determinati criteri di scelta e determinati codici, valori e stili in rapporto a quelle logiche e a quei meccanismi (Giovanni Cesareo).
Che cosa vuole il sistema? Lanciare messaggi e vendere notizie; ossia distribuire idee e miti, politica e magia; condizionare le nostre scelte ideologiche e i nostri consumi; alimentare le nostre passioni e stimolare i nostri sentimenti; suggerirci il partito a cui dare il voto, il posto dove trascorrere il fine-settimana, il libro da leggere, il film da vedere cosi come il dentifricio da usare. Tanto è vero che se per far questo basta registrare o interpretare gli eventi, bene; altrimenti si aggiunge ad essi una “porzione di realtà”; e la realtà simulata diventa spesso, per la forza di suggestione dei media, un vero più vero del vero.
Il rapporto tra linguaggio giornalistico e linguaggio della pubblicità appare allora evidente. L’immagine pubblicitaria – ha scritto Roland Barthes – non è solo un certo modo di presentare i prodotti in maniera da invogliare il consumatore all’acquisto, ma è un messaggio complesso, strutturato attraverso molteplici codici e sottocodici e capace, grazie ad alcuni procedimenti formali, di farsi veicolo di significati ideologici; e di questo messaggio – ci ricorda Francesco Sabatini – tre sono le funzioni: la prima è una funzione informativa, la seconda una funzione persuasiva, la terza una funzione poetica.
Fermiamoci su questa terza funzione, che, per evitare malintesi, preferiremmo non chiamare “poetica”; la funzione, diciamo, che riguarda l’elaborazione della forma linguistica a prescindere dai contenuti. Ecco dunque un elenco sommario delle tecniche del linguaggio pubblicitario.
a) Prima e fondamentale è la tendenza all’iperbole, sia come immagine, sia come modulo espressivo. Tutto è “più” (“non plus ultra”, “più bianco del bianco”, “che più bianco non si può”); tutto è “super” (“superconcentrato”, “supersgrassante”, “supercongelante”) o “ultra” o “iper”; tutto è “tutto” (“tuttafrutta”, “tuttaluce”); tutto è “issimo” (“aranciatissima”, “Diorissimo”, “aperitivolissimevolmente”), tutto è (o era; la moda è passata) “in” (“digerire in”, “Ritmo in”).
b) La retorica della enfatizzazione porta alla “rottura” linguistica e alla invenzione di parole nuove: neologismi (“amarevole”, “amaricante”), composizioni (“brancamenta”, “pienaroma”, “caldomorbido”, “aperitonico”, “sardomobile”, “gengidentifricio”, “gommapiuma”), metonimie (dal “brindate Gancia”, che è del 1936, al “brindate l’Italia” del 1988; e poi “correte Pirelli”, “viaggiate Cit”, “volate Alitalia”, “vestite Marzotto”), scambi tra aggettivi e avverbi (“vestire giovane”, “comprare sicuro”, “lavare pulito”, “bere facile”), riduzioni della frase agli elementi essenziali (“modello famiglia”, “tessuto freschezza”, “filato fantasia”).
c) Immancabili i ricalchi e i richiami allo spettacolo, alla letteratura, alla politica: “Tre personaggi in cerca di Super” (Pirandello), “Asti spumante, ed è subito festa” (Quasimodo), “Ferrarelle, frizzante leggerezza del bere” (Kundera), “Nut Club, noccioline d’ordinaria follia” (Bukovski), “Nei turbodiesel la potenza logora chi non ce l’ha” (Andreotti); e anche alla religione: “Non avrai altro jeans al di fuori di me” e “Non desiderare la mini d’altri”.
d) Infine quella che si può chiamare una vera e propria mistificazione, quando la funzione persuasiva si affida ad elementi non razionali e, giocando su termini scientifici o pseudoscientifici o su espressioni erudite di difficile comprensione, conta sull’ignoranza del consumatore: il sapone che contiene “duosteral”, il dentifricio che contiene “esaclorofene”, la “formula anfoterica” o la “linea tricogena” di alcuni prodotti per capelli, il materasso “climatizzato”, i “poliuretani espansi” di un frigorifero, gli “inestetismi” della cellulite.
Tutto si può dire, comunque, del linguaggio della pubblicità, ma non certo che non sia una interessante e a volte divertente palestra di fantasia; due, tuttavia, sono i rischi, e gravissimi: il primo è il manierismo, il secondo è l’oscurità; il secondo ancora più grave del primo; così come il messaggio giornalistico, il messaggio pubblicitario vale nella misura in cui sia capito e raggiunga quindi l’effetto istituzionale. La retorica della persuasione porta insomma a un uso non naturale della comunicazione linguistica; e lo sfruttamento per fini economici (e politici) delle possibilità offerte dalla lingua porta a non distinguere più fra informazione del vero e informazione del non vero; peggio: di un non vero che viene dato come vero.
A questo punto possiamo chiederci: le tecniche del linguaggio della pubblicità non appaiono molto simili a quelle del linguaggio giornalistico? La risposta è che il linguaggio del giornalismo (come in genere tutta la prosa contemporanea di comunicazione) è notevolmente influenzato, specialmente nella redazione dei titoli, dal linguaggio pubblicitario; che fra i due linguaggi ci sono scambi di formule, ma più dal linguaggio pubblicitario a quello giornalistico che non viceversa; che eguali sono i rischi di manierismo e di oscurità. Converrà allora fermarci su due modi che sembrano non pertinenti ai linguaggi della politica e della burocrazia e caratteristici, invece, oltre che del linguaggio pubblicitario, anche del linguaggio giornalistico: la manipolazione fantasiosa dei mezzi linguistici (i giuochi di parole) e l’uso dell’iperbole e dell’enfasi (già vista, del resto, nel linguaggio del giornalismo sportivo).
Il gusto sempre più diffuso dei giochi di parole (ovviamente nei titoli) è fenomeno relativamente recente; si è cominciato nei settimanali e il modulo è poi passato ai quotidiani come uno dei vari aspetti di quella che è stata chiamata la “settimanalizzazione” della stampa quotidiana: nella grafica, nel maggior peso dell’elemento visivo, nei contenuti (scelti e trattati in maniera più vicina ai gusti dei lettori) e nella loro presentazione semantica e propriamente linguistica; un fenomeno, quest’ultimo, che ha coinciso col grande cambiamento della titolazione, quando ci si è accorti che i titoli sono la cosa più letta dei giornali (il tempo medio di lettura di un quotidiano – l’abbiamo già detto – va dai 15 ai 30 minuti) e che i titoli, quindi, diventano il codice di lettura del pezzo o dell’articolo, un modo privilegiato di vantazione del fatto, la chiave interpretativa del giornale: il mezzo attraverso il quale il giornale fa arrivare i suoi messaggi fondamentali (Umberto Eco).
Delle tre categorie di titoli (indicativi, esplicativi, di fantasia) il primo è oggi praticamente scomparso, tranne che nelle documentazioni (“II testo del comunicato”, “Gli articoli della legge”), il secondo è in diminuzione, limitato ad alcune notizie di minore importanza o costrette da ragioni di spazio a una o due colonne (“Bomba esplode a Kuwait”, “Violenza sessuale / arrestato quindicenne”, “Nuovi vescovi a Foggia e Rovigo”, “Studente precipita dalla rupe di San Marino”).
La maggioranza dei titoli appartiene ormai al terzo genere, quello in cui, con la liberazione da ogni formula e regola così come vuole il processo di ammodernamento grafico, la fantasia del redattore può esprimersi attraverso numerosi registri (il suggestivo, l’allusivo, l’emotivo, lo spettacolare, il sensazionale, il metafisico, il letterario); e gli elementi linguistici sono sfruttati e, a volte, stravolti oppure sono messi in ombra da quelli visivi con sistemi e formule che fatalmente si richiamano a quelle della pubblicità.
Anche nella tendenza all’iperbole o, per lo meno, alla enfatizzazione giornalismo e pubblicità si trovano a fianco, e qui il giornalismo ha forse preceduto la pubblicità. Anche l’informazione è merce e l’economia degli apparati che la producono condiziona il lavoro mentale dei giornalisti e, almeno in parte, i bisogni e le passioni, le curiosità e le emozioni che si intrecciano nelle complicate pratiche di consumo (Giovanni Cesareo).
Da sempre l’informazione viene intesa dai giornalisti come un “cambiamento”, e il cambiamento è inteso generalmente come “eccezionalità” (l’uomo che morde il cane), come “devianza”, come “rottura”, insomma come il “mostro” da sbattere in prima pagina; più alta è l'”improbabilità” del messaggio, dicono i sostenitori di questa tesi, e più alto è il suo contenuto informativo. Vero è che gli apparati di produzione dell’informazione non sempre intendono la dinamica dei processi attraverso i quali la società si muove, procede e si trasforma; non sempre afferrano i valori espressi dai protagonisti degli eventi; non sempre si rendono conto degli interessi dei “consumatori” ossia di coloro a cui l’informazione è o dovrebbe essere destinata. E se si pensa ai bisogni informativi dei cittadini quali sono confermati dalle indagini (Censis), la conclusione è che non ci si accorge che spesso la “normalità” fa più notizia della “eccezionalità”, la “continuità” molto più della “novità”.
Il fatto è che – per colpa, anche, della diffusa strumentalizzazione politica dell’informazione – non solo l”eccezionalità” continua ad essere la regola-guida della valutazione dei fatti, ma si finisce col crearla quando non c’è; e se non si ha il coraggio o la faccia tosta di inventare una inesistente realtà (cosa che accade molto spesso), si rende “eccezionale” la realtà disponibile; e in quale modo? con l’inflazione delle parole, l’uso smodato dei termini, le esagerazioni linguistiche, la corsa alle iperboli; più o meno come nella pubblicità.
Cosi accade che tutto diventa drammatico o tragico, enorme, straordinario, favoloso; non c’è processo che non sia “maxi”, né aula di tribunale che non sia un “bunker”; ogni incontro è un “vertice”, ogni avvenimento è un avvenimento “del secolo”. Per il nubifragio in Valtellina (fine agosto 1987) il “Corriere della sera” scrive che “mezza Italia è con l’acqua alla gola” e la “Repubblica” ha questo titolo a tutta pagina: “Mezza Italia messa in ginocchio”. Tre gendarmi vengono uccisi a Noumea e la “Stampa” (27 aprile 1988) titola in prima pagina “Strage in Nuova Caledonia”. Alla vigilia dell’incontro (“al vertice”, naturalmente, e magari in questo caso l’espressione è giustificata) del giugno 1987 a Venezia il “Giorno” scrive a nove colonne “Golfo: tempesta in Laguna”, con uno sconcertante accostamento tra il golfo (arabico) e la laguna (veneziana). Del resto, in questa continua enfatizzazione, spesso il senso del comico viene a volte perduto, sicché sulle manifestazioni antinucleari svoltesi a Montalto di Castro si è potuto leggere (“Corriere della sera”, 24 marzo 1988) un titolo come questo: “Situazione sempre più esplosiva alla centrale di Montalto”; e meno male che la centrale non era in funzione.
Il manierismo è dunque il permanente pericolo così del messaggio pubblicitario come del messaggio giornalistico; è il primo pericolo, più grave ancora essendo il secondo: l’oscurità; un messaggio non capito è un messaggio che non “vende”; non vende il dentifricio (il messaggio pubblicitario), né l’ideologia (il messaggio giornalistico).
Lo sappiamo tutti: scrivere facile è più faticoso che scrivere difficile; e nessuno pensa, oltretutto, che un linguaggio giornalistico che si faccia capire deve per ciò stesso significare l’adozione di un lessico di base, rigorosamente privo di quei neologismi e tecnicismi, nazionali e anche stranieri, che il processo di mutazione della lingua propone ogni giorno. Sarebbe, per di più, un’operazione reazionaria, che ghettizzerebbe le classi subalterne e manterrebbe alle classi dirigenti il pieno dominio delle parole. Un linguaggio che si faccia capire deve essere anzi un contributo allo sviluppo culturale e quindi sociale del paese, in maniera da aiutare il processo attraverso il quale milioni di persone si impadroniscono giorno per giorno di nuovi vocaboli e quindi del sottofondo culturale ad essi legato (Tullio De Mauro).
La soluzione del problema sta dunque nel rifiuto non, pregiudizialmente, delle parole ed espressioni difficili, ma delle inutili parole e delle inutili espressioni difficili e nell’utilizzazione ragionata delle parole difficili ma indispensabili, spiegandole o inserendole in un contesto semanticamente trasparente e esplicitante. La soluzione è nell’uso quanto più ampio possibile del linguaggio corrente, difendendo quel patrimonio che è costituito dalla lingua parlata e non escludendo neppure il contributo che può venire dai dialetti. Nell’aspetto non grammaticale ma lessicale, il parlare con lo stesso idioma (o “registro”) usato in casa è spesso il,modello migliore per una prosa decente (Luciano Satta). È una questione di pulizia intellettuale, di cultura, di rispetto per gli altri (Tristano Bolelli).
Sulla comprensione lessicale dell’italiano sono note le ricerche compiute dal Servizio opinioni della Rai (basta, come esempio, una parola, “legislatura”, capita da quattro casalinghe di Vogherà su cento e, sempre su cento, da 53 impiegati di Roma con diploma di media superiore o con laurea); e così le conclusioni a cui è arrivato Tullio De Mauro: se vogliamo essere sicuri di farci capire da un universo pari al 66 per cento della popolazione dovremmo usare – a rigore, ossia senza l’aiuto del contesto – un vocabolario di sole duemila parole.
Vero è che la comprensione si manifesta con un largo ventaglio di gradi e di approssimazioni diverse. Ogni individuo “immagazzina” l’insieme delle parole lette o ascoltate, organizzandole in maniera da poterle trovare quando ne ha bisogno. Si forma così (Gaetano Berruto) quel “dizionario mentale” al quale il parlante si riferisce per utilizzare la parola che gli serve o per capire il significato di quella che ascolta, secondo strategie psicologiche che funzionano in maniera automatica.
Sui lettori dei giornali a stampa e sugli ascoltatori dei giornali radiofonici e televisivi il linguaggio giornalistico influisce con vari meccanismi: la comprensione (la parola capita), la malcomprensione (la parola capita con un significato diverso), la non comprensione (la parola non capita e quindi rigettata) e, alla radio e alla televisione, l’apprendimento fonico (la parola accettata come suono più che per il suo contenuto concettuale). È probabile che di questi quattro meccanismi il “giornalese” metta in moto soprattutto il più semplice, cioè il rigetto, almeno per coloro che sono meno provveduti culturalmente, e sono i più, sia come lettori di giornali a stampa, sia come radio e teleascoltatori.
Qui, ossia nel canale radiofonico e televisivo, interviene un altro elemento, pertinente a questo particolare tipo di comunicazione. C’è chi sostiene (Francesco Sabatini) che, accanto alle due tradizionali categorie della lingua parlata e della lingua scritta, quella “trasmessa” – fonoacustica e visiva indiretta – si presenta come una terza categoria, sia perché l’emissione del messaggio fonico e il ricevente non partecipano della stessa situazione ambientale, sia perché la ricezione del messaggio è regolata dal primo e subita dal secondo per quanto riguarda la durata e soprattutto la velocità di lettura. Di conseguenza molti ritengono scarso il potere dei moderni mezzi audiovisivi di produrre effettiva informazione ossia una informazione selezionarle e criticamente assimilabile dal ricevente. Il discorso vale soltanto per l’apprendimento dei contenuti o anche per l’apprendimento del linguaggio usato dalla radio e dalla televisione? e non sarà proprio questo tipo di linguaggio a rendere più difficile l’assimilazione dei contenuti?
Per la sua professione di giornalista, chi scrive ha esperienza di italiano scritto più che di italiano parlato; e l’italiano parlato è quello che ascolta negli ambienti, limitati e circoscritti, in cui opera e vive. Ma sicuramente il collega che scrive nosocomio nel suo pezzo di cronaca, dice, parlando, di essere stato all’ospedale. Se gli chiedo che tempo farà domani, il colonnello Bernacca mi risponde che si prevedono piogge, non precipitazioni. Il burocrate che ha scritto “divieto di balneazione” mi racconta che domenica prossima porterà la famiglia a Fregene a fare il bagno; e, uscendo dall’ufficio, dice “vado a mangiare”, non a “consumare il pasto”. La spiegazione ce la dà forse il fruttivendolo del mercato, che di solito parla un simpatico fluente romanesco, ma, intervistato dal cronista della tv, risponde cercando faticosamente di usare le parole difficili orecchiate alla televisione, convinto che così si debba parlare quando si parla non al cliente ma “al paese”: il linguaggio forbito come segno di appartenenza a una classe superiore.
Questo è dunque il “giornalese”: l’abuso dei suggerimenti lessicali pertinenti alle caratteristiche del lavoro giornalistico (sintemi, ellissi, accorciamenti, metonimie, deverbalizzazioni, proliferazione di sigle, acronimie, prefissazioni e suffissazioni) così come dei suggerimenti forniti dalle aree linguistiche nelle quali il giornalismo opera (riusi, travasi, prestiti); ma soprattutto è l’adozione, non meditata e anzi compiaciuta, del linguaggio della politica e/o della burocrazia: due sottocodici linguistici che vogliono essere strumento di qualificazione sociale e di affermazione di potere; non un mezzo di generale comunicazione, ma di discriminazione; un diaframma fra i colti (o pseudocolti) e la massa.
A questa “antilingua” (Italo Calvino), a questo “metalinguaggio” (Ugo Cardinale), a questo “kakokratese” (Luciano Satta) si aggiungono poi i moduli del linguaggio della pubblicità e più ancora la tendenza a vedere nella realtà che ci circonda, nella sua serie infinita di accadimenti, soltanto i fatti che abbiano una carica emotiva, nella logica effimera dello spettacolo e dello “spot” pubblicitario (Giovanni Bechelloni); un giornalismo impaziente e isterico, senz’altra preoccupazione che quella di stupire.
In questa società così originalmente nuova e in corso di incessante trasformazione; in questa società che alla stampa chiede non mostri da sbattere in prima pagina, ma un flusso di informazioni concrete, chiare, utilizzabili giorno per giorno in ragione delle esigenze vitali degli individui: di utilità, di conoscenza, di arricchimento culturale; in questa società che cerca non imbonimenti e padrini, ma aiuti e conforti; in questa società i giornalisti dovrebbero tutti rendersi conto che l’uso di una lingua più piana e più facile, più ricca e più vera non è solo il corretto modo di esercitare la propria funzione istituzionale di mediatori tra gli accadimenti e i cittadini-lettori; è anche l’assunzione di responsabilità nuove.
Sono responsabilità appassionanti: aiutare a superare il concetto di una informazione come strumento di potere; contribuire a instaurare una lingua che permetta a ognuno il più alto grado possibile di partecipazione; svolgere un’azione formativa e liberatrice, secondo il principio che l’individuo è tanto più libero quanto più è messo in condizioni non di subire verità altrui ma di costruire e confrontare le proprie.
Nota
Autori dei libri che hanno offerto spunti e conforti:
Tullio De Mauro. “Guida all’uso delle parole”. Editori Riuniti. Roma.
Giovanni Cesareo. “Fa notizia. Fonti, processi, tecnologie e soggetti nella macchina dell’informazione”. Editori Riuniti. Roma.
Gaetano Berruto. “L’italiano impopolare”. Liguori editore. Napoli.
Nora Galli de’ Paratesi. “Le brutte parole. Semantica dell’eufemismo”. Mondadori. Milano.
“Il mestiere di giornalista”, curato da Giovanni Bechelloni. Liguori editore. Napoli.
Mario Medici. “La parola pubblicitaria”. Sarin, Marsilio editore. Venezia.
Roberto Grandi. “Come parla la pubblicità”. Edizioni “II Sole-24Ore”. Milano.
Eugenio Ambrosi. “Nella misura in cui…”. Edizioni lavoro. Roma.
Francesco Sabatini. “La comunicazione e gli usi della lingua”. Loescher editore. Torino.