L’8 settembre 1943 al comando della 5/a armata |
Questa testimonianza è apparsa sul n. 6, novembre-dicembre 2003, di “Nuova storia contemporanea”, diretta da Francesco Perfetti. Il testo è qui pubblicato per gentile concessione di Francesco Perfetti
Che la guerra era finita, il comandante della quinta armata, generale Mario Caracciolo di Feroleto, lo seppe mentre stava mangiando nella mensa precariamente allestita in una sala del seminario che si trova nel centro storico di Orte; glielo disse, ancora affannato per la corsa, il sottotenente Paolo Emilio Poesio, ufficiale “addetto” al comandante in seconda, il generale Rovere. Passando per caso davanti a un bar, il sottotenente Poesio (poi giornalista, redattore e critico teatrale della “Nazione” di Firenze), l’aveva appreso – così raccontò – dalla voce (registrata) del maresciallo Pietro Badoglio, che alle 19.45 di quell’8 settembre aveva annunziato alla radio la conclusione dell’armistizio.
Il Comando della quinta armata aveva il compito di difendere tutta l’Italia centrale dalla Spezia al Garigliano e da Porto Recanati a Istonio (oggi si chiama Vasto); era esclusa soltanto la difesa di Roma, di cui era diretto responsabile il Comando Supremo. Dal Comando dipendevano sei divisioni mobili e quattro divisioni costiere, schierate lungo la costa tirrenica (la 16a divisione, di stanza a Grosseto, era comandata da un quadrunviro del fascismo, Cesare Maria De Vecchi).
La sede logistica del Comando era a Firenze nella villa Torrigiani e nel suo parco, in mezzo al popolare quartiere di San Frediano. La sede operativa fu prima a Margine Coperta, subito fuori Montecatini Terme, sulla strada per Pescia (qui si trovava il 25 luglio); poi a Viterbo nel moderno edificio dell’istituto tecnico, fuori le mura; poi, verso la fine di agosto, per sfuggire ai bombardamenti aerei di ogni notte, la sede fu spostata nel palazzo Manni sulla rocca di Orte. Tutte le sedi erano considerate zona di operazioni con l’indirizzo “Posta militare 119”; ai dipendenti spettava così ogni anno una stelletta sul nastrino di guerra a strisce rosse e verdi.
La testimonianza di Paolo Emilio Poesio conferma quello che si sa: che quella sera tutti gli alti comandi interessati non ricevettero nessuna informazione sull’armistizio e nessun ordine, né dal generale Vittorio Ambrosio, che era il capo dello Stato Maggior Generale e quindi il più alto responsabile militare, né dal capo del governo, il maresciallo Pietro Badoglio, e neppure dal comandante del Gruppo armate sud (scherzosamente chiamato GAS), che era il principe di Piemonte e che proprio due giorni prima (ancora la testimonianza di Paolo Emilio Poesio) era arrivato a Orte alle 8 del mattino e aveva avuto un lungo colloquio col generale Caracciolo. La sera dell’8, Ambrosio, Badoglio e il principe Umberto stavano preparando i bagagli per abbandonare Roma all’alba del 9 insieme al re Vittorio Emanuele, diretti tutti a Pescara e poi a Ortona, dove una unità della marina militare, la corvetta “Baionetta”, scortata dall’incrociatore leggero “Scipione l’Africano”, li avrebbe portati a Brindisi dove stavano per arrivare le truppe e le autorità militari inglesi e americane.
Dell’armistizio, in realtà firmato il 3 a Cassibile, vicino a Siracusa, il comandante della quinta armata non venne dunque informato né – si suppone – dal principe Umberto il pomeriggio del 6 (sembra che anche il principe Umberto non sapesse niente della firma), né – sicuramente – da Roma la sera dell’8: nessuna informazione e nessun ordine.
Gli storici sono tuttavia d’accordo nel sostenere che una serie di ordini era stata data in precedenza. Nella notte fra i 2 e il 3 settembre – scrivono tutti – arrivò ai comandi di armata un documento dello Stato maggiore dell’esercito (il cui capo era il generale Mario Roatta). Del documento (che ha trovato nomi diversi: “Memoria 44” o “Memoria 44 OP” o “OP 44”) non si conosce integralmente il testo, perché l’ufficiale superiore che lo portava ingiunse che fosse bruciato appena letto, fatta eccezione per l’ultima pagina, firmata per ricevuta. Di esso si è scritto, tuttavia, ma sempre in termini molto generici; oltretutto quel misterioso “O.P.” faceva ritenere prevalenti i motivi di odine pubblico.
Indicazioni più precise sui contenuti di quel testo vengono dalla lettura del testo, quasi sconosciuto, della sentenza con cui il tribunale militare territoriale di Roma, nella persona del giudice istruttore generale Enrico Santacroce, dichiarò, il 19 febbraio 1949, di non doversi procedere (“perché i fatti non sono preveduti dalla legge come reato”) contro i generali Vittorio Ambrosio (Capo di Stato Maggior Generale), Mario Roatta (Capo di Stato Maggiore dell’esercito), Giacomo Carboni (comandante del Corpo motocorazzato a difesa di Roma) ed altri, imputati, fra l’altro, di omissione di provvedimenti per la difesa militare e anche di abbandono del comando.
Secondo il generale Santacroce (di cui si parlerà in tempi recenti a proposito del cosiddetto “armadio degli scheletri”) la “Memoria 44” era relativa “all’impiego in senso antigermanico delle grandi unità italiane dipendenti dallo Stato Maggiore, eccezion fatta per quelle destinate alla difesa di Roma” e partiva da una premessa: la probabilità di “un colpo di mano germanico per ristabilire il regime fascista ed impossessarsi di tutte le leve di comando militari e civili italiane”. Sempre secondo il testo di questa sentenza, i compiti fissati dal documento erano: “interrompere a qualunque costo, anche con attacchi di forza ai reparti germanici di protezione, le ferrovie e le grandi rotabili alpine”; “agire con grandi unità o raggruppamenti mobili contro le truppe germaniche, specie a cavallo delle linee di comunicazione”; “raggruppare il maggior quantitativo possibile delle rimanenti truppe in posizioni centrali e opportune”; “passare a un’azione organizzata d’insieme, appena chiarita la situazione”.
Il testo della sentenza scrive anche che, insieme a queste disposizioni, la “Memoria 44” “riproduceva le prescrizioni del «foglio 111 C.T.»”, compilato dopo il convegno di Tarvisio – tra i ministri degli esteri italiano, Guariglia, e tedesco, Ribbentrop, il 6 agosto – e dopo la conseguente riunione del Consiglio dei ministri a Roma.
Ecco dunque un altro documento, il “Foglio 111 C.T.”. Soltanto qualche storico ha scritto, ma senza troppi particolari e senza farne il nome, di un documento precedente la “Memoria 44” e inviato dallo Stato Maggiore dell’esercito fra il 10 e il 20 di agosto; quindi non alla vigilia della firma dell’armistizio, come la “Memoria 44”, ma in tempo ampiamente utile per disporre i nuovi piani di difesa. Dell’esistenza di quel documento chi scrive questa nota può dare una diretta e personale testimonianza; in quei giorni, dai primi di luglio all’11 settembre, era in servizio militare proprio al Comando della quinta armata, ufficio operazioni.
E’ vero che ero solo un sergente. Nonostante la laurea, non ero stato ammesso alla scuola allievi ufficiali perché mi mancavano due millimetri alla statura di un metro e sessanta, allora prescritta per essere ufficiali (prima della guerra il limite era di un metro e 54, che era la statura del re). Soldato semplice, poi caporale, poi caporal maggiore, come sergente ero approdato a Posta militare 119 e la laurea aveva suggerito di collocarmi nel settore più delicato del Comando, appunto l’ufficio operazioni, guidato da un tenente colonnello di carriera, Giuseppe Bertorelle (vicentino, non nascondeva il suo antifascismo; fu poi attivo nella Resistenza). Uno dei miei compiti era di tenere aggiornata visivamente la posizione dei reparti che costituivano la quinta armata: tante bandierine di carta di diverso colore appuntate con uno spillo su una grande carta topografica, il 200 mila del Touring.
Proprio col tenente colonnello Bertorelle ero di servizio in una notte che identificherei fra il 19 e il 20 di agosto, ma che potrebbe essere anche prima, due o tre giorni. Dopo mezzanotte arriva a Viterbo un ufficiale da Roma (un colonnello, mi pare di ricordare); aveva un documento urgente, da bruciare – seppi più tardi – appena letto. Mi precipito a svegliare il tenente colonnello Bertorelle; il tenente colonnello Bertorelle si precipita a svegliare il generale Caracciolo e il generale Rovere. La riunione, durò almeno un’ora nella stanza del generale Caracciolo (una riunione a cui, ovviamente, non partecipai). Poi l’ufficiale arrivato da Roma se ne va, accompagnato all’uscita dal tenente colonnello Bertorelle, che mi vede, mi strizza l’occhio, “grandi cose” mi dice; “bisognerà spostare tutte le bandierine”.
Sulla grande carta topografica che ricopriva una parete le bandierine le spostai, su sua indicazione, due o tre giorni più tardi e dopo lunghe e segretissime riunioni degli alti gradi del Comando, accompagnate da un’infinità di messaggi trascritti dall’ufficio cifra: quattro delle sei divisioni dipendenti dal Comando dell’armata venivano disposte intorno alle due divisioni tedesche presenti nell’Italia centrale, cioè la terza divisione corazzata (“panzergrenadier”), schierata tra l’Amiata e il lago di Bolsena, e la seconda divisione paracadutisti, giunta da poco nella zona di Pratica di Mare, a sud di Roma. Le divisioni costiere, schierate lungo la costa tirrenica faccia a mare in funzione antisbarco, si rivoltavano di 180 gradi con le loro artiglierie, cioè verso terra.
Non era necessario essere degli esperti di strategia militare per capire che cosa stava succedendo e non erano necessari gli ammiccamenti del colonnello Bertorelle e i suoi commenti a bassa voce. Il colonnello venuto da Roma aveva portato la grande e attesa novità: il nemico da fronteggiare non erano più gli angloamericani ma i tedeschi; di conseguenza dovevano essere cambiati tutti i piani di difesa: le divisioni costiere dovevano perdere il loro compito di truppe antisbarco per acquistare quello di truppe di rincalzo e le unità mobili dovevano essere dislocate intorno alle divisioni tedesche già in posto.
Lo spostamento delle bandierine dimostrava che almeno al Comando della quinta armata i piani erano stati cambiati; e, a conferma che i piani erano stati anche applicati dai Comandi dipendenti, un giorno mi passò fra le mani un fonogramma in cui il comandante di un reparto della difesa costiera tirrenica avvertiva che non gli era possibile girare di 180 gradi le sue artiglierie, perché i pezzi si trovavano in postazioni di cemento armato rivolte verso il mare. Tutto questo avveniva negli ultimi giorni di agosto.
La sera dell’8 settembre, appena avuta dal sottotenente Poesio la notizia del comunicato registrato col quale il maresciallo Badoglio annunziava la firma dell’armistizio, il generale Caracciolo cercò di mettersi in contatto col Comando Supremo attraverso una delle sue tre stazioni radio campali, quella collegata in permanenza col Comando Supremo; ma il Comando Supremo non rispondeva. Che cosa fece dopo, non so. Qualcuno disse che si era messo in abiti borghesi ed era andato a Roma per capire i motivi del silenzio; prima, però, aveva dato l’ordine che il Comando dell’armata si trasferisse immediatamente nella sede logistica di Firenze.
Nella notte fra l’8 e il 9 l’ufficiale italiano di collegamento col Comando della terza divisione corazzata tedesca (un maggiore del cui nome ricordo solo che cominciava per P) telefonò con voce emozionata che veniva considerato prigioniero. Al Comando dell’armata, come ufficiale tedesco di collegamento c’era un tenente, di cognome Koch, con una pattuglia radio e otto soldati. “Facciamolo prigioniero” qualcuno disse; ma il tenente era scomparso, senza salutare nessuno. Più tardi arrivò affannato il maggiore P.; la terza divisione tedesca si era messa in marcia verso sud e l’aveva rilasciato a Viterbo. Il maggiore (lo raccontò lui stesso) se l’era cavata unicamente con un paio di schiaffi ricevuti da un sottufficiale.
La mattina del 9, giovedì, sulla via che da Amelia porta a Viterbo, proprio sotto la rocca di Orte, ci fu uno scontro a fuoco – breve, ma violento, con fucili e bombe a mano – tra gli autieri del Comando, aiutati da un plotone di granatieri annidato nelle grotte di tufo, e un reparto tedesco su due autocarri, che si voleva impossessare di una delle auto dell’autoparco del Comando, proprio la Lancia Artena che aveva le insegne del comandante in capo. I tedeschi, che si erano accorti di trovarsi in una posizione svantaggiosa sotto il fuoco che pioveva dall’alto e con ufficiale già gravemente ferito, alla fine decisero di andarsene senza portar via niente.
Il trasferimento a Firenze del Quartier generale del Comando avvenne nella stessa giornata e nella notte. Si scelsero vie secondarie: da Amelia a Todi, di qui a Umbertide, Città di Castello, San Sepolcro, Pieve Santo Stefano, Chiusi della Verna, Bibbiena, Poppi, il passo della Consuma, Pontassieve. Alla fine della mattinata di venerdì 10 a Firenze erano arrivati tutti e tutto; anche gli autocarri con casse di documenti, tavoli da casermaggio e macchine per scrivere.
Per tutto il pomeriggio del 10 e la mattina di sabato 11 nella fiorentina villa Torrigiani c’era una grande confusione. Di ufficiali se ne vedevano pochi e al centralino telefonico i telefonisti non sapevano che cosa rispondere ai comandanti dei reparti che chiedevano ordini e istruzioni. Qualcuno di loro – comandante di reggimento o di battaglione – disse, con calore, che era pronto a respingere le truppe tedesche in movimento, e qualcuno, anzi, lo aveva già fatto (ricordo un caso, al passo della Futa, sulla strada che porta da Firenze a Bologna, e un altro a Piombino).
La mattina dell’11 al centralino ci trovavamo il capitano Pasi (non ricordo il suo primo nome), il sottotenente Edoardo Detti (architetto, poi assessore socialista nella Giunta comunale di Firenze, 1960), l’uno e l’altro operanti all’ufficio cifra, ed io. Un gruppo di abitanti del quartiere (San Frediano, un quartiere molto popolare) era venuto a chiedere di prendere le armi che sapevano essere numerose negli scantinati della villa; ci pensiamo noi – dissero – a difendere Firenze.
Verso le dieci il sottotenente Detti ebbe un’idea, che oggi può apparire folle o comica: prendere il comando dell’armata (noi: un capitano, un sottotenente di complemento e un sergente) e dare ordini ai reparti secondo i piani stabiliti dal Comando dell’armata e in obbedienza del comunicato di Badoglio (reagire “a eventuali attacchi da qualsiasi parte provenienti”, cioè, ovviamente, di provenienza tedesca). Mentre ne discutevamo, qualcuno, di corsa, venne a dirci che il generale Caracciolo era tornato. Erano le dieci e trenta.
Il generale Caracciolo era infatti tornato e aveva dato ordine di riunire i sottufficiali e i soldati del Quartier generale dell’armata nel giardino della villa. Indossava un abito blu a doppio petto, ma evidentemente non aveva trovato delle scarpe civili e in fondo ai pantaloni usciva il nero degli stivali militari. “Figliuoli” ci disse (mai, prima, ci aveva chiamato “figliuoli”); “le circostanze mi obbligano ad allontanarmi, ma a voi lascio ancora l’onore di difendere la patria. Il tenente Floridia vi condurrà alla sede del Comando della Difesa territoriale”.
Il Comando della Difesa territoriale si trovava in piazza San Marco, a cinquecento metri dal Duomo; noi eravamo, come si dice a Firenze, “di là d’Arno”; avremmo quindi dovuto attraversare il fiume sul ponte che si chiama “alla Carraia”. Al comando del tenente Floridia il plotone al completo – eravamo una quarantina – uscì dal cancello della villa, ma dopo un centinaio di metri vedemmo una donna che correva verso di noi. Correva e gridava. “I tedeschi” gridava, “i tedeschi, i carri armati; sul ponte ci sono i carri armati”. Erano le 11 o poco più.
Il tenente Floridia comandò l’alt al plotone. Ci fermammo e rimanemmo immobili, senza dire una parola, in mezzo alla strada piena di sole e di silenzio. La donna che correva era entrata in un palazzo e la via dei Serragli era deserta; non c’era anima viva, né verso Porta Romana né verso il ponte alla Carraia. Sicuramente c’era gente dietro i vetri delle finestre, ma non si vedeva.
Passò un minuto o ne passarono due o cinque, non ricordo bene. Il tenente Floridia si allontanò di qualche metro da noi, ci voltò le spalle e si mise a guardare in alto, come se cercasse qualcosa fra le finestre e sotto il tetto di quelle antiche case di pietra. Di lì a poco, dei sottufficiali, dei graduati e dei soldati del Quartier Generale del Comando della quinta armata non era rimasto più nessuno. Erano tutti scomparsi, senza salutarsi, dentro una decina di porte, subito aperte e subito richiuse.
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Nota
Dopo avere scritto il racconto del mio 8 settembre ho potuto leggere, per un piccolo colpo di fortuna (un mio consuocero, Nicola Ferri, conosce bene la biblioteca del Senato), un vecchio numero della “Rivista militare”, edita in anni lontani dal Ministero della difesa-esercito. E’ il numero 3 del marzo 1952. In 17 pagine il colonnello di fanteria (così si presenta) Mario Torsiello spiega la storia della famosa “Memoria 44 op” (finalmente sappiamo quale era il titolo esatto; 44 op era semplicemente il numero di protocollo), da lui “ricopiata a macchina” (così scrive) nella notte fra il 1° e il 2 settembre.
La memoria era nata la sera del 22 di agosto, quando lo Stato Maggiore dell’esercito incaricò un “apposito organo operativo”, dipendente dal capo del reparto operazioni, di predisporre uno studio “concernente le direttive da inviarsi a tutte le unità stanziate nel territorio nazionale, in Francia e in Balcania, per far fronte all’aggravarsi della situazione e allo scopo di poter tutti indirizzare sul da farsi, nel caso che la minaccia si fosse mutata in atti di guerra”.
Una prima bozza fu discussa a lungo, fu più volte modificata (anche per “la dislocazione ormai variabilissima delle forze germaniche”) e fu finalmente sottoposta, verso la fine di agosto, alla necessaria approvazione del Comando Supremo. La notte sul 2 settembre la Memoria, “ricevuto il crisma del numero (44 op) e della data (2 settembre 1943)”, venne copiata a macchina dal colonnello Torsiello in dodici copie. L’originale fu firmato dal generale Roatta, capo dello Stato Maggiore dell’esercito; le altre undici copie furono inviate, “a conferma e integrazione del precedente ordine 111 C.T. che era stato spedito il 10 agosto”, al Comando del Gruppo armate sud ad Anagni, ai Comandi della seconda armata a Sussak (Sušak, allora porto jugoslavo accanto a Fiume), della quarta a Sospello (Sospel, in Provenza, a una ventina di chilometri da Mentone), della settima a Potenza, dell’ottava a Padova, ai Comandi della difesa territoriale di Bologna e di Milano e ai Comandi delle forze armate in Sardegna e in Corsica.
Per la diramazione della Memoria furono impiegati tre colonnelli di stato maggiore, che lasciarono la sede dello Stato Maggiore dell’esercito a Monterotondo (a una trentina di chilometri da Roma, vicino alla via Salaria) fra le ore 7 e le ore 14 del 2 settembre. Due partirono in aereo dall’aeroporto di Centocelle, uno (quello diretto al comando della settima armata a Potenza) in auto. Il comandante della quinta armata, generale Caracciolo, la lesse personalmente a Monterotondo, dove era stato convocato e dove giunse il mattino del 5 settembre verso le 9.30.
La Memoria (è sempre il colonnello Torsiello che scrive) era suddivisa in quattro punti: premessa, compiti generici per tutti i Comandi, compiti specifici, prescrizioni varie.
I compiti generici prevedevano: “rinforzare la protezione delle comunicazioni e degli impianti; sorvegliare i movimenti germanici; predisporre colpi di mano per impossessarsi dei depositi munizioni, viveri, carburanti, materiali vari e centri di collegamento dei tedeschi, prevedendone l’occupazione o la distruzione; predisporre colpi di mano su obiettivi considerati vulnerabili per le forze germaniche; presidiare edifici pubblici, depositi, Comandi, magazzini e centrali di collegamento italiani”.
Per la quinta armata la Memoria stabiliva in particolare di “tenere saldamente” la Spezia con le divisioni “Alpi Graie” e “Rovigo” e di “puntare”, con la divisione “Ravenna”, sui reparti della terza divisione corazzata germanica, dislocati fra il lago di Bolsena e Siena.
La parte finale della Memoria è – per la ricostruzione della tragica vicenda dell’8 settembre – la più importante. Il colonnello Torsiello scrive infatti che l’applicazione delle disposizioni contenute nel documento si sarebbe dovuta effettuare “a seguito di ordine dello Stato maggiore, che sarebbe stato impartito diramando il fonogramma convenzionale ‘Attuare misure ordine pubblico Memoria 44’”; oppure “di iniziativa dei comandanti in posto in relazione alla situazione contingente”.
Fu diramato quell’ordine? Fino ad oggi sapevamo, e gli interessati avevano detto, che nessun ordine di applicazione della Memoria fu inviato ai Comandi ai quali la Memoria era stata indirizzata. Il colonnello Torsiello dice invece di no; un ordine fu diramato.
Verso le 23 dell’8 settembre – scrive Torsiello – il Capo di Stato Maggiore dell’esercito, il generale Roatta, inviò al Comando Supremo a Roma il generale che era a capo del suo reparto operazioni. Roatta chiedeva di essere autorizzato a diramare l’ordine di applicazione, cioè il fonogramma convenuto. Il Comando Supremo, sentito il Capo del governo (Badoglio), rispose di no. Torsiello fa delle ipotesi per spiegare quel no: forse non si voleva che fossero gli italiani i primi ad aprire le ostilità contro i tedeschi e si aspettava che fossero i tedeschi a fare le prime mosse; o forse – aggiunge – perché “l’attuazione dei provvedimenti previsti dalla Memoria avrebbe potuto verificarsi senza bisogno di ulteriori ordini”.
Nella notte fra l’8 e il 9 – dice Torsiello – il Comando di Monterotondo ricevette decine e decine di telefonate da tutti i Comandi dipendenti (“una vera bufera di richieste telefoniche”); sicché alla fine, il generale Roatta prese l’iniziativa di diramare a tutti i Comandi che avevano ricevuto la Memoria un fonogramma che diceva “Ad atti di forza reagire con atti di forza”. Tra l’una meno dieci e l’una e 35 – scrive ancora Torsiello – l’ordine fu telefonato personalmente, “in telefonia segreta”, da tre ufficiali superiori di stato maggiore ai comandanti o ai capi di stato maggiore degli stessi Comandi destinatari della Memoria. Qualche ora più tardi, alle 6.30, la cartella contenente l’originale della Memoria 44 op firmato da Roatta e le ultime pagine di essa, firmate per ricevuta dai comandanti in indirizzo, furono bruciate – “per ordine superiore”, scrive Torsiello – a palazzo Caprara, in via XX Settembre a Roma, dove aveva sede il ministero della guerra.
A sessant’anni di distanza cominciamo a sapere qualcosa di più sui molti misteri di quell’8 settembre.