La nascita della Repubblica

1945. L’Ansa come cooperativa di tutti i quotidiani. La fine della guerra in Italia e in Europa. La bomba atomica e la capitolazione del Giappone. Le votazioni del 2 giugno 1946. Churchill: comincia la «guerra fredda». Il dibattito sul Patto atlantico. 


 

   L’Ansa dette la notizia alle 14.50: la Repubblica aveva vinto. Era il 5 giugno del 1946, mercoledì, e la domenica precedente 24 milioni 946.942 italiani ave­vano partecipato al referendum sulla forma istituzionale dello Stato, la prima votazione libera dal maggio del 1921, la prima cui fossero ammesse le donne.

  Non si erano avuti incidenti e l’affluenza alle urne era stata alta (1’89.1 per cento), ma per tutta la giornata, e poi il lunedì, il martedì e soprattutto in quella calda mattinata di mercoledì si sentiva in giro una grande tensione; e anche uno strano silenzio, dappertutto.

  L’Ansa aveva continuato a trasmettere via via le cifre parziali, che non facevano prevedere quale sarebbe stato il risultato finale. La repubblica ap­pariva vincente in Lombardia, in Emilia, in Liguria, nel Veneto, in Piemonte; la monarchia nelle regioni meridionali e in Campania e in Puglia andava oltre il 60 per cento. La monarchia prevaleva perfino a Roma, sia pu­re di poco. Anche secondo aree geografiche l’Italia appariva divisa in due, come in due erano divise le coscienze degli elettori: fra chi con la repubblica temeva un pauroso salto nel buio e chi vi vedeva invece il simbolo di un ne­cessario rinnovamento morale.

  Il referendum istituzionale, che era accompagnato dalle elezioni per l’as­semblea costituente, incaricata di dare al paese una nuova costituzione, fu il primo importante appuntamento dell’Ansa a poco più di un anno da quan­do era nata, il 15 gennaio del 1945, con la guerra ancora in corso e le armate angloamericane ferme sulla cosiddetta «linea gotica», fra la Toscana e l’Emi­lia, fra le Marche e la Romagna.

  Quell’inverno di fame e di freddo sembrava non avere mai fine. Tutta 1’Italia  settentrionale era in mano alle truppe naziste e la Repubblica sociale di Mussolini incombeva come una tragica ombra nera: l’ombra di una guerra civile di cui si preferiva non parlare.

  All’Ansa arrivavano ‑ tutte diffuse dall’agenzia delle forze alleate  la  NNU («Notizie Nazioni Unite») ‑ poche notizie dal mondo e pochissime dal nord: i bombardamenti aerei delle città, il processo a Verona e la fucilazione di Galeazzo Ciano, genero del Duce, gli echi di una Resistenza che ancor più di quella che era stata nell’Italia centrale, si esprimeva non solo come lotta armata e, in alcuni casi, come lotta di classe, ma anche e soprattutto come lotta di liberazione, che coinvolgeva ed univa tutte le classi sociali: liberazione dal fascismo e dal nazismo per conquistare libertà e democrazia.

  Era a questo spirito che si richiamava l’Ansa nel suo nascere come cooperativa di quotidiani di ogni colore politico e quindi come strumento unitario di informazione: un’agenzia al di sopra delle parti, chiamata a garantire il pluralismo della stampa in un sistema politico che pluralistico intendeva diventare.

  L’idea di un’agenzia di stampa come cooperativa di tutti i giornali, e quindi non controllata dal governo (come invece era stata dal 1924 l’agenzia Stefani, organo  ufficiale del regime fascista) e neppure da gruppi privati, era nata in tre uomini che rappresentavano quelle che apparivano essere le formazioni politiche più consistenti: Giuseppe Liverani, direttore amministrativo del democristiano Il popolo, Primo Parrini, direttore amministrativo dell’Avanti! socialista, e Amerigo Terenzi, consigliere delegato della comunista Unità.

  L’iniziativa, i cui si discusse a lungo fra gli esponenti delle forze politiche antifasciste, fu vista con favore dalle autorità angloamericane e così – a differenza di quello che sarebbe accaduto nella Germania occidentale, dove le due agenzie americane Ap e Upi, l’inglese Reuter e la francese Afp avrebbero distribuito  direttamente alla stampa i propri notiziari tradotti in tedesco ‑ in Italia il governo militare alleato decise di lasciare agli italiani la gestione dell’informazione primaria.

  All’inizio l’Ansa aveva un’organizzazione molto modesta; le notizie che raccoglieva con le proprie strutture erano in prevalenza notizie romane e riguardavano la dura vita di ogni giorno; come queste: la distribuzione di una candela per famiglia (25 febbraio 1945) e di 150 grammi di carne col 25 per cento di osso ai giovani dai 9 ai 18 anni e di 200 grammi di latte ai bambini di età inferiore ai tre anni, oltre a due decilitri di olio a persona (6 aprile); l’annuncio dell’arrivo nel porto di Napoli di “ingenti quantità” di baccalà (9 maggio) e a Civitavecchia, dalla Sardegna, di 2.600 quintali di formaggio pecorino (6 luglio); la disponibilità di penicillina, ma solo «per i casi gravi in cui sia in pericolo la  vita del paziente» (25 luglio).

  Le notizie dell’agenzia erano copiate col ciclostile e distribuite a Roma per fattorino. A Napoli, a Firenze e nelle altre città dell’Italia liberata dove si stampavano quotidiani ne arrivava una selezione,  trasmessa via radio in alfa­beto Morse. Erano poche notizie, ma sufficienti per i giornali, che, a causa della penuria di carta, uscivano con un solo foglio: due facciate, la prima pa­gina per gli articoli e le notizie nazionali ed estere, la seconda per le notizie locali.

  Il 16 aprile scattò l’offensiva dell’8a armata americana e della 5a armata inglese, di cui faceva parte il Corpo italiano di liberazione, che già si era distin­to sul fronte di Cassino. Con i partigiani e gli operai delle fabbriche insorgeva tutta l’Italia del nord. Bologna fu liberata il 21 aprile, il Po raggiunto il 23. L’esercito tedesco era in rotta. Il 25 i patrioti liberarono Genova e Torino; il 25 Mussolini fu catturato, e giustiziato il 29. Davanti all’avanzata angloame­ricana le armate tedesche si arresero il 2 maggio senza condizioni. Il giorno dopo, alle 17.45, l’Ansa trasmise il messaggio di congratulazioni del primoministro inglese Winston Churchill «per la parte svolta dalle forze italiane regolari e dai patrioti dietro le linee» per la liberazione dell’Italia. La seconda guerra mondiale stava per finire. Dopo la battaglia di Berlino e la morte di Hitler, alle 12.10 dell’8 maggio l’Ansa diramò l’annuncio della vittoria con le dichiarazioni di Winston Churchill, del presidente Truman e del generale De Gaulle. Mosca dette l’annuncio il giorno dopo.

   Rimaneva il Giappone. Per la capitolazione di Tokyo si dovette aspettare il 1° settembre, dopo le esplosioni atomiche di Hiroshima e di Nagasaki. Un mese prima, il 6 agosto alle 20.45, l’Ansa aveva trasmesso: «Il presidente Truman ha annunciato oggi che aerei americani hanno sganciato sulla base giapponese di Hiroshima il più grande tipo di bombe finora usate nella guerra, la ‘bomba atomica’, più potente di ventimila tonnellate di alto esplosivo». Parecchi giorni dopo si seppe che soltanto a Hiroshima erano morte almeno 200 mila persone e che la scoperta dell’energia nucleare si presentava come uno degli eventi più importanti e più terribili nella storia millenaria dell’umanità. Di lì a poco anche l’Urss avrebbe avuto armi atomiche. Stava per cominciare un’era che sarebbe stata intitolata all’«equilibrio del terrore».

  Sulle città ridotte in macerie dai bombardamenti, sulle case che aspetta­vano ancora il ritorno dei prigionieri e dei sopravvissuti ai campi di stermi­nio nazisti, la pace, tuttavia, non arrivò; né sull’Olocausto degli ebrei, né sulle tombe dei milioni di morti nei cinque anni di guerra. Il 5 marzo del 1946­ l’Ansa diffuse una notizia a cui, sul momento, i giornali non dettero peso; in un discorso all’università americana di Fulton, nel Missouri, l’ex primo ministro britannico Winston Churchill denunziò: «Il tempo stringe. Sono calate le ombre sulle scene ancora illuminate dalla vittoria alleata. Da Stetti­no, nel mar Baltico, a Trieste, nell’Adriatico, una cortina di ferro è calata sull’Europa».

   Con l’occupazione di Lettonia, Estonia e Lituania, della Polonia orientale, della Bucovina, della Rutenia e della Bessarabia e con la creazione di governi comunisti in Ungheria, Romania, Bulgaria nel 1946‑1947, e poi in Polonia e in Cecoslovacchia nel 1948, stava nascendo e consolidandosi l’impero sovieti­co. Cominciava quella che fu poi chiamata la «guerra fredda»; sarebbe durata 44 anni, fino al dicembre del 1989, chiusa ufficialmente in un incontro nell’i­sola di Malta ‑ neppure un mese dopo la caduta del muro di Berlino ‑ dai presidenti degli Stati Uniti e dell’Urss, George Bush e Mikhail Gorbaciov.

   L’organizzazione delle Nazioni Unite, creata nel 1945, stava intanto delu­dendo le speranze di chi aveva visto in essa uno strumento di ordine e di progresso. I paesi che, con la fine del colonialismo, avevano conquistato l’in­dipendenza in Africa e in Asia, andavano trasformandosi quasi tutti in stati dittatoriali, che cercavano nell’Urss aiuti militari ed economici, e copertura ideologica; e la Cina diventava, sotto Mao Zedong (Mao Tse‑tung), una grande potenza comunista.

   In un mondo che si stava dividendo in due blocchi contrapposti e in un’Italia tagliata quasi a metà dagli schieramenti pro‑USA e pro‑Urss non era facile per l’Ansa tener fede alla propria struttura sociale e al suo impe­gno statutario di organo di imparziale informazione.

  Gli eventi di quegli anni la misero alla prova: nel 1948 il colpo di stato comunista in Cecoslovacchia, il ponte aereo per salvare Berlino dallo stran­golamento tentato da Mosca, la nascita dello stato di Israele, l’espulsione della Jugoslavia di Tito dalla comunità degli stati sotto controllo sovietico; e in Italia il patto di unità d’azione fra il Pci di Palmiro Togliatti e il Psi di Pietro Nenni, 1946; la scissione del partito socialista e la fondazione del par­tito socialdemocratico (Psli) di Giuseppe Saragat, 1948; le elezioni politiche che dettero la vittoria alla Democrazia cristiana contro le sinistre unite nel Fronte popolare, il 18 aprile 1948; l’attentato a Togliatti e i prodromi di una guerra civile nelle zone rosse del paese, il 14 luglio dello stesso anno.

  L’evento più lacerante fu tuttavia, nel 1949, il dibattito sull’adesione del­l’Italia al Patto atlantico. Il trattato che intendeva riunire tutte le nazioni del­l’Occidente europeo, insieme agli Stati Uniti e al Canadà, contro quello che veniva chiamato 1’«espansionismo sovietico», era, come si sosteneva da una parte, una «scelta di civiltà» (o addirittura, secondo qualcuno, una «scelta della civiltà») oppure, come dicevano i comunisti e i socialisti, un «patto di guerra»?

  Oggi, dopo tanti anni di sicurezza, sia pure armata, e dopo il crollo del comunismo e la richiesta dei paesi ex‑comunisti dell’Europa orientale di en­trare a far parte della Nato, è facilissimo rispondere che il Patto atlantico era un patto difensivo e non offensivo; ma allora ogni spirito critico che non ac­cettasse pregiudizialmente lo schematismo degli schieramenti si poneva un problema di coscienza: il Patto atlantico era davvero un’intesa per garantire la pace o non, invece, una coalizione militare fatalmente aggressiva? Davvero non avrebbe portato a una terza guerra mondiale?

  Dubbi, incertezze, perplessità circolavano nel mondo degli intellettuali, anche fra quelli non iscritti ai due partiti dell’estrema sinistra. Un appello contro il Patto atlantico fu firmato da personalità di rispetto: Arturo Carlo Jemolo, Sinibaldo Tino, Massimo S. Giannini, Sebastiano Timpanaro, Vezio Crisafulli, Ernesto De Martino, Gabriele Pepe. In Parlamento gridavano «Abbasso il Patto atlantico, abbasso la guerra» non solo Palmiro Togliatti, Giancarlo Pajetta, Giorgio Amendola, Mario Alicata, ma, con Pietro Nenni, anche tanti socialisti come Carlo Lombardi, Francesco De Martino, Giancarlo Matteotti, perfino Sandro Pertini.

  L’Ansa imparò molto in quegli anni difficili. Quasi mezzo secolo più tardi, nel 1994, alla vigilia delle elezioni politiche, e poi nel 1995 e nel 1996, il tema di una corretta informazione politica (soprattutto televisiva, la televi­sione essendo nata in Italia nel 1954) sarebbe stato oggetto di scontri e di po­lemiche. Ma già alla fine degli anni Quaranta, senza regole di «par condicio» fissate all’interno o stabilite dall’esterno, l’Ansa aveva risolto il problema: doveva soltanto rispettare la sua carta statutaria e la sua struttura sociale di cooperativa di quotidiani, di informazione e di partito, di destra e di sinistra, filogovernativi e di opposizione.

  Non era necessario un codice di comportamento o, peggio, un decreto governativo come è accaduto, per la Rai, che è un servizio pubblico, nel 1994; e non era necessario affidare l’imparzialità dell’informazione al pallot­toliere e al cronometro: tanti soggetti politici da una parte, tanti dall’altra, tanti minuti e secondi agli uni, tanti minuti e secondi agli altri.

  Per analogia l’Ansa avrebbe dovuto, e dovrebbe, contare le righe delle notizie: tante righe alla destra, tante righe alla sinistra. E’ perfino comico. Il problema è invece così semplice: si tratta di dare informazioni e non com­menti, di raccontare i fatti senza deformazioni o interpretazioni di parte, di dar conto di tutte le opinioni e di dar loro spazio non sulla base di burocratici criteri di «equal time», ma secondo una norma unica e fondamentale: il lo­ro interesse giornalistico; e, quando l’opinione è di una parte, chiedendo e ri­ferendo, se ne vale la pena, anche l’opinione della parte avversa. Tutto qui.

  Il 5 dicembre del 1996, quando la presidenza dell’agenzia ha dato notizia dell’intenzione di dimettersi di Bruno Caselli (direttore responsabile dal gennaio 1990) e della designazione, al suo posto, di Giulio Anselmi, un co­municato di Forza Italia ha reso atto al direttore uscente di «avere mantenu­to l’ANSA a un livello di qualità e di indipendenza dal potere politico che ha davvero pochi riscontri in Italia». E un parallelo comunicato del Pds ha ri­conosciuto la «ineccepibilità» della gestione di Caselli alla testa della «princi­pale testata informativa del paese», «rimasta al riparo degli strilli che hanno progressivamente sommerso telegiornali e quotidiani».

  Il comunicato del Pds nominava anche il predecessore di Caselli, Sergio Lepri, che ‑ ricordava il comunicato ‑ «diceva ai suoi cronisti: `Non mi inte­ressano le tue idee politiche e non voglio scoprirle leggendo i tuoi pezzi». È un discorsetto che fu fatto centinaia di volte, a quasi tutti i nuovi assunti: più di seicento, in 29 anni; sicuramente un «Guinness» mondiale. Infatti il conto è facile: la differenza fra gli ottanta redattori nel 1961 e i 1482 (a Roma, in Ita­lia e in tutti i continenti) nel 1990, più gli andati in pensione, più gli andati ad altri giornali (circa 150), più gli andati (pochi, per fortuna) al cimitero.

  È pensabile che molto dipenda anche da un certo spirito di corpo o, me­glio, dalla consapevolezza che ‑ come è scritto nel preambolo del patto inte­grativo aziendale, e ripetuto ad ogni suo rinnovo ‑ «l’indipendenza dell’Ansa e l’obiettività del suo notiziario… costituiscono il fondamento della sua autorità e del suo prestigio, così come la insostituibile garanzia di quella completezza dell’informazione che è presupposto del pluralismo della stam­pa e della dialettica democratica assicurata dalla costituzione repubblicana».

  Con questo spirito ‑ ritornando a quegli anni lontani ‑ l’Ansa affrontò la guerra in Corea del 1950‑53 (era il Sud che aveva aggredito il Nord, come sostenevano Mosca, Pechino e, allora, il Pci, oppure viceversa?); nel 1951 la condanna a morte dei coniugi Rosenberg negli Stati Uniti (i due scienziati a­tomici erano spie dell’Urss oppure no?); la «legge truffa» ‑ così chiamata dalle opposizioni ‑ per le elezioni politiche del 1953 (un anticipo di sistema maggioritario; ma la legge non scattò); la morte di Stalin («Gloria eterna al­l’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e il progresso dell’umanità» scrisse 1′ Unità, e l’Ansa riportò; tra virgolette, come è ovvio).

  Poi il dramma di Trieste (occupata nel 1945 dalle truppe di Tito, trasfor­mata in Territorio libero nel 1947, tornata all’Italia, ma senza l’Istria, nell’ot­tobre del 1953); poi la prima guerra d’Indocina e la sconfitta dei francesi nel 1954; poi i grandi processi (1949‑53) nei paesi dell’Europa sovietizzata e la fucilazione dei maggiori capi comunisti; il rapporto di Kruscev al 20° con­gresso del partito comunista sovietico nel 1956 con la denunzia dello stalini­smo (e i primi imbarazzi e i primi dubbi fra i comunisti dell’Occidente); la rivolta degli operai e degli studenti in Ungheria e la repressione dei carri ar­mati sovietici (ancora nel 1956) insieme alle dimissioni di tanti intellettuali del Pci; l’ultima guerra coloniale, con l’aggressione anglofrancese all’Egitto nell’ottobre del 1956; la salita al potere in Francia, 1958, del generale De Gaulle e la nascita della quinta repubblica; il primo satellite artificiale ‑ il razzo sovietico «Sputnik», 1958 ‑ lanciato nello spazio in orbita intorno alla Terra.

  Anni difficili per tutti e quindi anche per l’agenzia; ma più difficili ancora sarebbero stati gli anni seguenti, specie dal 1966 in poi. Eppure tutto conti­nuò a andare liscio. Agli inizi degli anni Settanta in un grande quotidiano na­zionale, scosso da grandi bufere proprietarie, il comitato di redazione, cioè l’organo sindacale dei giornalisti, chiese al direttore che, per evitare possibili pressioni e conseguenti manipolazioni, tutte le informazioni che riguardasse­ro il giornale fossero soltanto quelle trasmesse dall’Ansa. Tra la generale meraviglia il direttore accettò la sconcertante imposizione. Come direttore di quel giornale io non avrei accettato, ma come direttore dell’Ansa ne fui felice insieme ai miei redattori: l’Ansa come parametro della verità.