1° gennaio
Il 1943 comincia di venerdì e qualcuno dice di aver visto nella notte, verso le due o le tre, il cielo scuro attraversato da una striscia luminosa che si è persa all’orizzonte. Una stella cadente? Strano, in questa stagione.
Pochi hanno fatto festa, questa notte, e pochi hanno brindato. E poi, con che? e per che cosa? I più importanti generi alimentari (pane, pasta, riso, olio, burro, zucchero) sono tutti razionati; dall’ottobre scorso anche il sale; la razione giornaliera del pane è scesa da 200 a 150 grammi e la farina di frumento è mischiata a farina di granturco e a fecola di patate e chi sa a quante altre cose ancora. Una statistica dell’Istituto della previdenza sociale, tenuta segreta, ha calcolato che la tessera annonaria garantisce soltanto 952 calorie giornaliere.
Donne e uomini in coda davanti a una panetteria. Il pane è razionato, fatto di farine miste; si ottiene con un tagliando della tessera annonaria, ma spesso non si trova.
Bisogna arrangiarsi. In città quelli che hanno soldi ricorrono – chi più, chi meno – al mercato clandestino e illegale dei beni sottoposti a razionamento, la cosiddetta “borsa nera”. Contro la borsa nera le autorità minacciano punizioni gravi, perfino la pena di morte in casi gravi; ma in realtà, salvo qualche rara volta, si fa finta di non vedere. Senza borsa nera si morirebbe di fame. Ma chi soldi ne ha pochi o non ne ha? Un litro d’olio, venduto di nascosto, può costare anche cento lire1.
Si fa a meno di tutto il resto, specie i vestiti, le scarpe; e poi quali stoffe per i vestiti, quale cuoio per le scarpe. Dal latte in esubero, perché non si esportano più formaggi, e quindi dalla caseina si ricava il “lanital”, che viene presentato come un tipo di lana, ma è una lana che non riscalda. Dalla ginestra e dai fiocchi di canapa si ottiene una specie di cotone, il “cafioc”; serve per i sacchi, meno bene per i lenzuoli. Peggio per le scarpe: al posto del cuoio si usa una composto di cartone compresso e nel migliore di casi (anche per gli scarponi dei soldati nella neve della Russia) il “cuoital”, una miscela di cascami di cuoio sfibrati e vulcanizzati, o il “sapsa” della Pirelli, cascami di cuoio macinati e lattice di gomma.
Alcuni dei manifesti che cercano di promuovere i “surrogati”, cioè i prodotti che dovrebbero sostituire quelli che nel mercato non si trovano più, come il caffè e i tessuti di lana.
Ogni cosa costa cara. Dall’inizio della guerra, il 10 giugno del 1940, l’inflazione è salita del 162 per cento. Non si ha neppure il conforto di una tazzina di caffè. Il caffè è prodotto di importazione e non c’è più. Per illudersi si chiama caffè il caffè d’orzo o di miscele fantasiose come la cicoria tostata con erbe e verdure miste; per esempio, il “caffeol”. Quello che con nostalgia viene chiamato “caffè-caffè” non si trova neppure alla borsa nera.
Le aiuole delle piazze sono state trasformate nei cosiddetti “orti di guerra” e i cittadini sono stati invitati a coltivarvi gli ortaggi più facili a crescere, ma pochi se ne occupano e poco ci nasce; ci vuole esperienza e tempo. Qualcosa cresce nei giardini privati e nei parchi pubblici, dove zappetta qualche volenteroso pensionato. I parchi non hanno più cancellate di ferro, che sono state ammassate per mandarle (ma davvero?) nelle fabbriche di armi, insieme a vecchie pentole di cucina, bucate e arrugginite, raccolte casa per casa da qualche giovane della Gil, la così chiamata “Gioventù italiana del littorio”.
In campagna, dove, per difficoltà di trasporto, gran parte dei prodotti rimane sul posto, si sta meglio e ci si aiuta col baratto: olio e vino contro farina, verdure e patate contro legna o carbone e così via, secondo se si sta in pianura e se si sta in collina. In città carbone e legna si trovano appena per accendere il fuoco e far cucina. In casa si gela e si sta vestiti con roba pesante, sciarpe e calze e berretti di lana; ma ogni tanto sui giornali, che escono con poche pagine per mancanza di carta, appare qualche articolo che illustra gli effetti benefici del freddo: rinnovamento dei processi vitali e, sotto le coperte, aumento della fecondità.
Così in campagna si trasferiscono molti (sono gli “sfollati”), ma soprattutto quelli che abbandonano le città o per paura dei bombardamenti o perché i bombardamenti hanno distrutto le loro case.
Uno dei cosiddetti “orti di guerra” in piazza del Duomo a Milano.
In città si vive male anche per questo. Le sirene dell’allarme aereo suonano più volte nella giornata e sempre si scende nelle cantine, che hanno il nome, che vorrebbe essere rassicurante, di “rifugi antiaerei”; anche di notte, nel buio e nel freddo umido del sottosuolo. In ogni palazzo uno degli inquilini o dei condomini è stato nominato “capofabbricato” col compito di controllare che tutte le finestre abbiano strisce di carta incollate sui vetri e che non ci siano luci accese la notte; e poi, dopo i sei allarmi della sirena, uno ogni 15 secondi, di chiudere il rubinetto centrale del gas, di disciplinare l’afflusso nel rifugio, di lasciare aperto il portone perché si riparino i possibili passanti. Come insegna di comando gli hanno dato una maschera antigas, da portare obbligatoriamente a tracolla; ma pochi lo fanno, per paura di apparire ridicoli. C’è pericolo anche d “gas asfissianti”? Non bastano le bombe?
Fino ad oggi sono quasi ventimila i morti sotto le bombe e le macerie delle case colpite, specie nelle città industriali e nei grandi porti. Non ancora a Roma, a Firenze, a Venezia. Questa notte, la notte di Capodanno, Palermo è stata bombardata da decine di aerei; tanti danni e tante vittime. Ieri sulla Stampa un necrologio annunziava la morte, a Torino, di sette persone della stessa famiglia, Barbero Porta, “vittime di un’incursione nemica”; fra loro due “piccoli”, Enrico e Felicina.
In città e nella campagne c’è una prevalenza di donne, di bambini e di anziani. Sotto le armi ci sono tre milioni e mezzo di uomini; sono in Italia, ma anche in Russia, in Slovenia e Croazia, nel Montenegro, in Albania, in Grecia, nelle isole dell’Egeo, in Francia e in Corsica; centoventimila sono in Africa.
In Africa, sconfitti dagli inglesi in Egitto a el-Alamein2, gli italiani e i tedeschi hanno cominciato a ritirarsi verso Tripoli. Diecimila italiani sono morti nel deserto, quindicimila i feriti, trentamila i prigionieri. Le forze angloamericane, sbarcate a novembre in Marocco e in Algeria, stanno raggiungendo la Tunisia. Italiani e tedeschi sono così fra due fuochi.
Non sono migliori le notizie dagli altri fronti. In Russia sei armate russe stanno premendo sulla quarta tedesca e circondano la sesta a Stalingrado. E le divisioni italiane dell'”Armata italiana in Russia”, l’Armir, stanno lasciando le prime linee, indietreggiando nella neve e nel gelo. Nell’Oceano Pacifico i giapponesi abbandonano Guadalcanal e le isole Salomone. Gli americani hanno riconquistato la supremazia navale ed aerea nel teatro di guerra dell’Estremo
Il bollettino di oggi, numero 951, del Quartiere generale della Forze armate è di una tristezza desolante: “Nella Sirtica e in Tunisia riusciti colpi di mano di pattuglie dell’Asse3 che facevano prigionieri e catturavano materiali. Puntate di elementi motorizzati nemici nel Sahara libico sono state stroncate dalla pronta reazione del nostro presidio di Gatrum, mentre nel Fezzan vivace attività svolgevano nostre unità esploranti”. Sulla tragedia che si è aperta in Russia neppure una parola.
I giornali di stamani pubblicano, integrali, i messaggi di Hitler al popolo tedesco e ai soldati; quattro colonne di testo, quasi metà della prima pagina, con un grosso titolo. Come ha fatto altre volte, Hitler comincia dalla guerra del 1915-18, poi parla delle richieste vitali del popolo tedesco, delle scorie di un ordine sociale decrepito, delle responsabilità dell’Internazionale giudaica, dell’aggressione angloamericana in Africa; il Reich non si piegherà, dice, e poi una frase con cui il Corriere della sera fa, giustamente, un grosso sottotitolo: “Verrà l’ora in cui riprenderemo la marcia”. Perfino Hitler ha capito che la guerra ha preso per ora un’altra strada.
Anche il radiomessaggio di papa Pio XII, la vigilia di Natale, era lunghissimo: col saluto di augurio al Sacro Collegio dei cardinali due pagine intere dell’Osservatore romano; ma i giornali gli hanno dato poco spazio: in media, un sunto di 500 parole sulle seimilacinquecento del testo integrale: il Corriere della sera con un semplice titolo (“Il radiomessaggio di Papa Pio XII”) su una sola colonna in ultima pagina, cioè la quarta (i quotidiani escono a quattro pagine), e lo stesso ha fatto la Stampa di Torino (“Il radiomessaggio di Pio XII all’Orbe cattolico”); così il Messaggero, che pure esce a Roma, la sede del papato: 550 parole e un titolo su una colonna in terza pagina (“Il messaggio natalizio di Pio XII al mondo”).
Dall’inizio alla fine, invece, lo ha ascoltato Mussolini a palazzo Venezia, trasmesso dalla Radio Vaticana. Lo racconta Galeazzo Ciano, che era con lui; e racconta anche il commento del Duce: “Il Vicario di Dio non dovrebbe mai parlare; dovrebbe restarsene fra le nuvole. Questo è un discorso di luoghi comuni che potrebbe agevolmente essere fatto anche dal parroco di Predappio”4.
Il messaggio è però apparso importante a chi lo ha letto sull’Osservatore; specie quando esorta a lavorare per la costruzione di un nuovo ordine sociale e si pronunzia in difesa dei diritti della persona e della libertà. E poi c’è una frase, che non verrà capita subito, e che i giornali italiani non hanno riportato. Ci sono state le leggi razziali, le discriminazioni degli ebrei; ma ancora non ci sono stati, in Italia, imprigionamenti o sequestri o deportazioni; e la gente non sa niente dei campi di sterminio che i tedeschi hanno aperto in Germania e in Polonia, non conosce nomi come Auschwitz, Mauthausen, Dachau, Treblinka, Buchenwald. Eppure la frase dice: “Questo voto di pace in un ordine nuovo l’umanità lo deve alle centinaia di migliaia di persone le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità e di stirpe, sono destinate alla morte e a un progressivo deperimento”. Il papa sa dei lager e dei forni a gas, sa dell’iniziato Olocausto?5
Ieri, a Milano, il cardinale arcivescovo ha celebrato la messa di Capodanno alle quattro del pomeriggio, un’ora insolita. La messa – ha detto – è fatta per i combattenti, i feriti, i prigionieri.
Una delle carte annonarie individuali per l’acquisto di generi alimentari razionati.
Da un paese in provincia di Torino oggi primo gennaio una ragazza scrive al fratello, militare in grigioverde chi sa dove6: “Noi queste feste la abbiamo passate in salute e senza bombardamenti, però queste grandi feste non si distinguono più, non sono più le feste degli anni passati. La guerra tutto ha cambiato e poi manca il più, il morale, vedi le cose che invece di migliorare vanno peggiorando, vedi che il denaro non vale nessuna valuta, e la roba è cara, alle stelle, ma il bello è che non ne guadagni, e così si vive sempre con la speranza che le cose possano migliorare da un momento all’altro, ma è un sogno di noi poveri. Ma quello che mi interessa di più è quello di trovarci tutti sani e salvi dopo questa maledetta guerra. Speriamo che il destino ci assista fino alla fine, fino alla vittoria, come la chiamano i nostri padroni. Ora nostra madre sta facendo i gnocchi e si pensa anche a te che sei tanto lontano e chi sa a te invece cosa ti fanno mangiare, sono per credere che ci terresti ad un bel piatto di gnocchi, ma vedrai che non tarderai a toglierti la voglia a modo tuo”7.
Segno buono se qualcuno, in campagna, fa gli gnocchi. A Roma, la lettura del Messaggero di ieri era desolante: nella rubrica “taccuino del consumatore” il prelevamento dei generi razionati prevedeva per il mese di gennaio carne bovina due volte la settimana, frattaglie ogni 15 giorni; niente uova, patate e legumi.
Strani i titoli dei pochi spettacoli: al teatro Argentina, alle 15.30, “Prestami cento lire”, un atto di Peppino De Filippo. Al cinema Quattro Fontane “Stasera niente di nuovo” con Alida Valli e Carlo Ninchi. Imminente: “Il romanzo di un giovane povero” con Ermete Zacconi, Amedeo Nazzari e Paolo Stoppa. Al cinema solo brutti film italiani; quelli americani sono proibiti.
In evidenza il giornale pubblicava un comunicato del ministero degli interni: “La fessura per l’oscuramento dei fanali da bicicletta potrà avere, da oggi 1o gennaio, le dimensioni di cm. 3 nel senso della larghezza e di cm. 2 in quello dell’altezza. La fessura dovrà praticarsi al di sotto della lampadina, non mai in corrispondenza di essa, in modo che la sorgente luminosa rimanga mascherata e soffocata”. Con questi aerei nemici che bombardano le città, la burocrazia ministeriale pensa che la prudenza non sia mai troppa.
1 Cento lire del 1943 corrispondono a 30 euro del 2008 (58 mila delle vecchie lire).
2 Ad el-Alamein, in territorio egiziano, 80 chilometri ad ovest di Alessandria, sono state combattute due battaglie: nella prima (luglio del 1942) gli inglesi, comandati dal generale Montgomery, hanno arrestato l’avanzata delle truppe tedesco-italiane, comandate dal generale Rommel; nella seconda (dal 23 ottobre al 4 novembre) Montgomery ha conquistato una vittoria che ha messo fine alla campagna d’Africa. È stata una battaglia terribile nelle sabbie del deserto: da parte inglese 195 mila soldati (con unità australiane, indiane, sudafricane, neozelandesi, greche e della Francia libera), 1348 carri armati, 3527 pezzi di artiglieria, 750 aerei; da parte tedesca e italiana 104 mila soldati (di cui 54 mila italiani), 497 carri armati, 1743 pezzi di artiglieria, 675 aerei.
3 “Asse” è l’espressione con cui si indicava, a partire dall’ottobre 1936, l’alleanza fra il governo fascista italiano e il governo nazista tedesco (l'”asse Roma-Berlino”). Nel 1939 l’alleanza militare e politica fra Italia e Germania fu chiamata “patto d’acciaio” e, dopo l’adesione del Giappone, “patto tripartito”.
4 Galeazzo Ciano, Diario 1937-1943, Rizzoli, 1990,
5 Quand’è che i vertici politici o militari o religiosi vengono a conoscenza della fine che fanno gli ebrei rastrellati (non ancora in Italia) dai nazisti? Pierre Milza scrive (Mussolini, Carocci, 2000) che il 4 novembre 1942 Mussolini ha ricevuto questa nota del gabinetto del ministero degli esteri (il ministro è Galeazzo Ciano): “Il generale Pièche riferisce risultargli che gli ebrei croati delle zone di occupazione tedesca deportati nei territori orientali, sono stati ‘eliminati’ mediante l’impiego di gas tossico nel treno in cui erano rinchiusi”. Milza riporta anche una frase attribuita a Mussolini dall’industriale Alberto Pirelli nei suoi Taccuini 1922-1943 (Il Mulino, 1984): “(Gli ebrei) li fanno emigrare all’altro mondo”.
Il radiomessaggio papale del Natale 1942 è stato ricordato in un saggio dello storico gesuita padre Giovanni Sale in un articolo di Civiltà Cattolica del dicembre 2002, ripreso dal quotidiano Avvenire del 20 dicembre dello stesso mese. Secondo Sale il messaggio fu accolto a Berlino con “aperta ostilità” e ne fu proibita la diffusione, ma scontentò anche gli Alleati, che da tempo premevano sulla Santa Sede perché intervenisse contro il nazismo: il Papa – fu detto – ha citato il peccato ma non il peccatore. Il quotidiano cattolico scrive anche: “Per molti storici, con un giudizio a posteriori“, le parole del Papa “furono parole tiepide, non ‘profetiche’. Altri si spingono a parlare di deliberato e complice silenzio. Sale risponde alle accuse invocando sul piano fattuale le ‘reali difficoltà del momento storico’. E sul piano della personalità di Pacelli ribadisce che egli pensava di avere agito in modo da dire i ‘fatti’ senza esporre cristiani e ebrei a ulteriori rappresaglie”.
6 Ogni reparto aveva un numero di P.M. (Posta militare) e la posta in arrivo e in partenza doveva indicare soltanto quel numero, in maniera da non identificare la sede geografica, in Italia o all’estero, dove si trovava la persona alle armi.
7 La lettera è nel libro L’occhio del duce. Gli italiani e la censura di guerra 1940-1943 di Aurelio Lepre, Mondadori, 1992. Il libro raccoglie una serie di lettere intercettate dagli uffici di censura operanti nelle prefetture e inviate al ministero degli interni a Roma perché considerate “pericolose”. Queste lettere sono ora nell’Archivio centrale dello stato.
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1° gennaio – Di più
– Aggiunta alla nota 5. Nei Diari di Papa Giovanni XXIII, pubblicati a Roma a metà dicembre del 2008, il cardinale Roncalli scrive di essersi incontrato il 10 ottobre 1941 con Pio XII, che gli chiese (Roncalli era allora delegato pontificio a Istanbul) se “il suo silenzio circa il contegno del nazismo” non era “giudicato male”. Nell’anticipare l’uscita dei Diari il 9 dicembre la Stampa di Torino ha intervistato l’arcivescovo Loris Capovilla, già segretario personale di Giovanni XXIII: “A che cosa si riferiva Pio XII quando chiese consiglio a Roncalli sul silenzio circa il contegno del nazismo?”. Risposta: “Alla persecuzione degli ebrei. In Vaticano arrivavano gravi informazioni, soprattutto dalla Polonia occupata dai tedeschi. Pio XII aveva il dubbio che, parlandone, avrebbe aggravato la situazione”. Questo nel 1941.
– Nel giudicare le reazioni dell’opinione pubblica agli eventi degli anni della guerra (e quindi anche alle vicende che colpirono gli ebrei) è necessario ricordarsi che la diffusione delle informazioni attraverso gli organi di stampa non era soltanto condizionata dalla censura politica (parzialmente esistente – durante il periodo bellico – anche nei paesi democratici), ma anche limitata dalle difficoltà tecniche di comunicazione. Telefoni e telegrafi funzionavano male, a parte le linee spesso interrotte dai bombardamenti aerei, e soprattutto mancava quella rete efficiente con la quale le agenzie di stampa hanno assicurato dagli anni Settanta in poi, ancor prima della rivoluzione elettronica, la copertura completa e rapida di ogni evento in ogni parte della Terra. Della rivolta nel ghetto di Varsavia (aprile-maggio 1943) gli italiani non seppero niente in quell’anno; e anche della tragedia dell’Olocausto, dei lager e dei forni a gas si venne a piena conoscenza soltanto dopo la fine della guerra.
– Di una cometa nella notte di Capodanno scrive anche Miriam Mafai nel suo PANE NERO – Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale. Ecco come racconta il 1o gennaio del 1943: “La gente non prega più per la vittoria dell’Italia, prega per la pace. Soprattutto in città la piccola gente è allo stremo. Nessuno controlla più i prezzi: il costo della vita aumenta giorno per giorno. Impiegati e professionisti che prima della guerra e fino al 1941 hanno investito in Buoni del tesoro si rendono conto, terrorizzati, di avere in mano soltanto pezzi di carta. Per sopravvivere occorre mettere mano ai risparmi e, quando questi sono finiti, cominciare a vendere le argenterie, la biancheria, gli ori di famiglia”.