10 settembre
La corvetta Baionetta entra nel porto di Brindisi alle quattro del pomeriggio. A bordo c’è il re Vittorio Emanuele e con lui la regina Elena e il principe Umberto. C’è anche il capo del governo, il maresciallo Badoglio, e poi altre 53 persone: qualcuno appartiene al personale di servizio del Quirinale, gli altri sono quasi tutti generali dello Stato maggiore, che a Ortona sono riusciti a imbarcarsi, a spinte e a gomitate.
Tre quarti d’ora prima, la corvetta si è fermata al largo. È una piccola nave da guerra di 728 tonnellate, varata nel 1942 e entrata in servizio a fine luglio, con compiti antisommegibile. Il comandante, il tenente di vascello Piero Pedemonti, chiama per radio il comandante della piazza militare della marina a Brindisi, l’ammiraglio Luigi Rubartelli, e gli chiede se ci sono tedeschi. I tedeschi non ci sono; se ne sono andati via da qualche giorno.
Il porto di Brindisi. La puntina rosa in basso al centro indica il castello svevo, sede dell’ammiragliato; qui vengono ospitati il re e la regina. Evidenziato dal disegno dell’ancora in alto il monumento al marinaio e in basso la puntina rossa indica la colonna romana che segna la fine della via Appia. In alto a destra – disegno della nave – la banchina dove è attraccata il Baionetta, prima del canale, chiamato Pigonati, che unisce il porto esterno ai due seni del porto interno.
La nave si avvicina e attracca un po’ prima del canale Pigonati che collega il porto esterno al porto interno, a qualche centinaio di metri dal monumento al marinaio d’Italia. Due motoscafi portano gli insoliti passeggeri alla Capitaneria di porto sul lungomare che si chiama regina Margherita, vicino alla colonna romana che è considerata il termine dell’antica via Appia. Qui scendono tra una folla incuriosita e si dividono: il re, la regina e il principe Umberto vengono accompagnati dall’imbarazzatissimo ammiraglio Rubartelli nei locali dell’ammiragliato, al primo piano del castello svevo, sùbito sopra il porto; ancora più imbarazzata è la signora Rubartelli, che, svegliata dal suo sonnellino pomeridiano, accoglie in vestaglia gli augusti ospiti1.
Badoglio e Acquarone si sistemano invece nella casermetta dove trova alloggio il personale dei sommergibili. De Courten preferisce rimanere a bordo del Baionetta. Tutti gli altri all’albergo Internazionale sul lungomare. In serata vengono aperti i magazzini della marina militare e alcuni negozi; quasi tutti hanno bisogno di vestiario per la notte e di spazzolini da denti.
Sono in viaggio da un giorno e mezzo. Da Roma sono partiti alle 4.50 di ieri: una Fiat 2800 col re e la regina, la dama di compagnia della regina, contessa Jaccarino, e l’aiutante di campo del re, colonnello De Buzzecarini; poi un’altra 2800 con Badoglio, il duca Acquarone e il maggiore Valenzano, nipote e segretario particolare di Badoglio; poi una terza auto, un’Alfa Romeo, col principe Umberto, un generale e due ufficiali di ordinanza; poi una quarta auto col cameriere del re, Pierino, la cameriera della regina, Rosa, e un po’ di bagaglio; poi una quinta e ultima auto, una Fiat 1500, col generale Puntoni, capo della Reale Casa militare, e due attendenti.
Il convoglio percorre la via Tiburtina, quindi la via Valeria e, a 15 chilometri da Pescara, si dirige a Chieti. Una parte del gruppo si rifugia nel palazzo Mezzanotte e nell’albergo Sole. Il re e i suoi ripartono, su strade secondarie, per Crecchio2.
Il castello ducale di Crecchio a duecento metri di altezza nel retroterra di Ortona.
Perché per Crecchio, che è un piccolo paese nell’interno, di qualche centinaio di abitanti, isolato in cima a un colle? Si va a Crecchio, perché bisogna aspettare che Badoglio decida: partire in aereo dall’aeroporto di Pescara per qualche aeroporto del Sud? ma c’è il rischio che tutti i campi di atterraggio siano occupati dai tedeschi; e poi la regina ha, in aereo, problemi di respiro. Allora, per mare? ma da dove, dal porto di Pescara o da quello di Ortona? In attesa, si va a Crecchio. A Crecchio c’è il castello dei duchi di Bovino, discendenti dai conti palatini e da Roberto d’Altavilla. In casa dovrebbe esserci la duchessa di Bovino, Antonia Caetani d’Aragona; nobiltà amica; i vecchi si danno del tu. A Crecchio il re e i suoi arrivano a mezzogiorno.
In casa c’è anche Bice Cafiero, nipote della duchessa. Ha 15 anni e sarà lei a raccontare3 l’inatteso arrivo di Sua Maestà. “Era un’estate calda, serena. Il bel parco ci accoglieva nei nostri giochi di ragazzi. I grandi seguivano per radio gli avvenimenti della guerra. L’8 settembre ci colse all’improvviso; le notizie finivano con una frase strana: ‘L’esercito reagirà a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza’. La mattina dopo, finito di fare i compiti di tedesco, mi recai nella coffee house del parco per incontrare la burbera fraulein che mi aspettava per la lezione. Ad un tratto vidi una fila di macchine che saliva in direzione di Crecchio. Con mio stupore un’auto si fermò proprio davanti alla coffee house. La persona che ne scese era il principe Umberto. Mi chiese: ‘La Duchessa di Bovino è al castello?’. Ed io ‘Sì, la nonna c’è’. Ed egli prosegui: ‘Per favore, corri ad avvisarla che io sono qui’. La nonna non mi credette e mi disse: ‘Ma ti senti poco bene? Hai preso troppo sole? Dov’è la tua fraulein?’. Solo il nonno mi prese sotto braccio e mi disse: ‘Piccierè, facciamoci una passeggiata io e te’. Scendevo lo scalone a braccetto con il nonno; ecco Umberto all’entrata che si avvicina al nonno e dice: ‘Duca, devo chiederle asilo per me e i miei genitori’.
“La nonna mi incaricò di salire in cucina dal cuoco per ordinargli di ammazzare più polli per la colazione. Il Monsù mi rispose: ‘Ci sono tanti castelli in Italia che proprio a questo dovevano arrivare’.
“Durante il pranzo mamma osò rivolgersi a Badoglio: ‘Eccellenza posso chiederle che sta succedendo?’. Egli rispose che stava portando le loro Maestà in salvo e che in una ventina di giorni le avrebbe riportate a Roma. Osò domandare ancora: ‘E di sua Eccellenza Mussolini che ne succederà?’. La risposta: ‘Forse i suoi lo libereranno’.
“Dopo la partenza dei Reali per Pescara la nonna aveva fatto chiudere il cancello del parco e quando più tardi si sentì un vociare – ‘ritornano!’ – alla nonna quasi venne una crisi di nervi, perché non si trovava il giardiniere per riaprire il cancello. La regina, accolta di nuovo dalla nonna, disse in francese: ‘Moi je ne descend pas. Je ne veut pas deranger’; ma fu aiutata a scendere dalla nonna. La parlata in francese a me ragazzina urtava i nervi; era la regina d’Italia o no?
“La nonna disse a mia madre: ‘Io gli voglio parlare’, riferito a Umberto. Dopo un poco mia nonna usci tutta rossa in viso e rivolta a mia madre ‘Sai che cosa mi ha risposto? Mon père ne veut pas’. Si trattava del fatto che la fuga della famiglia reale a mia nonna non andava giù. Pare che gli avesse detto: ‘Altezza reale, lasci che i suoi genitori partano, ma ella torni a Roma, combatta, si ferisca anche minimamente, poniamo un mignolo, e la monarchia sarà salva’.
“La gente davanti ai cancelli urlava: ‘Mandalo via il re, che ci manda le bombe’. Mia nonna si affacciò e cercò di calmarli.
“Ci fu anche un episodio buffo; mia madre cercava Rosa, cameriera della regina, che non si sapeva dove si fosse cacciata. Apriva le porte delle camere, chiamandola per nome. Aprì anche la camera mia e si trovò davanti Umberto in mutande. ‘Cercavo Rosa, Altezza reale’ disse facendogli l’inchino di pragmatica. Fu l’unica volta che Umberto sorrise e, rivolto a mia madre: ‘Teresa, vedendomi in queste condizioni, mi fai anche l’inchino?'”.
Si chiede Bice Cafiero: “Di quali condizioni parlava? Delle mutande o della fuga?”.
Arrivati a mezzogiorno, partiti alle 16 per andare all’aeroporto di Pescara e tornati alle 18 dopo il cambiamento di programma (non in aereo, ma per mare), i Reali aspettano di sapere che fare da Badoglio che è rimasto all’aeroporto insieme all’ammiraglio De Courten. La duchessa di Bovino avverte: per cena, al massimo una minestrina calda; poi soltanto qualcosa di freddo. Il cuoco Alfonso dice che la cucina non offre altro.
Verso le 21 il generale Puntoni è chiamato dal principe Umberto, che è, solo, nella camera di Bice. È perplesso, racconterà Puntoni4: è in piedi, a braccia conserte. “La mia partenza da Roma” gli dice “è uno sbaglio; sarebbe meglio che io tornassi indietro. La presenza nella capitale di un membro della mia casa è indispensabile in un momento così grave”. Puntoni cerca di dissuaderlo; il Sovrano ha espresso il desiderio di avere con sé il principe ereditario: è Umberto che rappresenta la continuità della dinastia. Puntoni non gli ricorda quello che gli ha detto il re al Quirinale, prima di partire, ma Umberto non lo ha dimenticato; glielo ha detto in piemontese: “S’at più at massu”, se ti pigliano, ti ammazzano. E Umberto rimane.
La serata in casa Bovino continua; silenzio, tristezza, disagio. Finalmente, sono le 23, qualcuno avverte il re. Si parte. Per la seconda volta si salutano e si ringraziano i duchi ospitali5. “Arrivederci presto” dice il principe Umberto. Le auto si dirigono verso Ortona.
In blu il percorso del re e della regina prima dell’imbarco a Ortona sulla corvetta Baionetta: da Roma a Chieti e poi al castello di Crecchio; da Crecchio di nuovo a Chieti e all’aeroporto di Pescara; da qui ancora a Crecchio; finalmente da Crecchio a Ortona.
Che è successo, intanto? Nell’aeroporto di Pescara il maresciallo Badoglio e l’ammiraglio De Courten stanno aspettando un segnale. Da Roma, alle 4.30 della notte, prima della partenza col re, l’ammiraglio e ministro della marina, quando ancora non si sapeva se andare a sud in aereo o per mare, ha ordinato che una nave militare arrivi prima possibile a Pescara; e, per maggior sicurezza, ha dato l’ordine a tre navi: la corvetta Baionetta che era a Pola, la Scimitarra a Brindisi, l’incrociatore leggero Scipione Africano a Taranto. Alle 20 il tenente Caglianone arriva di corsa in auto da Pescara: è arrivato il Baionetta; è ancorato a un paio di miglia dal molo; a lumi spenti, ovviamente. L’ammiraglio De Courten parte subito per Pescara, in avanscoperta; mezz’ora dopo anche il maresciallo Badoglio.
L’incrociatore leggero Scipione Africano nel luglio 1943.
A Chieti il generale Ambrosio riunisce alle 18 nell’albergo Sole una specie di consiglio di guerra; c’è il generale Roatta e alcuni generali o alti ufficiali del Comando supremo; otto in tutto; più tardi si unirà agli altri il generale Armellini. A Chieti, però, sono intanto arrivati da Roma un centinaio e forse più di generali e di alti ufficiali; tutto il Comando supremo. Le loro auto di grande cilindrata, una cinquantina, ingorgano il centro della città, anche perché gli autisti vanno in giro a cercare benzina; a Chieti la benzina manca da qualche giorno. L’albergo Sole straripa di gente.
Intorno alle 23 il generale Ambrosio parte per Ortona e tutti dietro, una lunga fila di macchine, quelle che hanno trovato la benzina, con i fari bassi di città, non sulla strada principale che passa da Pescara, ma sulle strade strette e tortuose che per Ripa Teatina e Migliànico portano alla strada litoranea; una trentina di chilometri.
Il re arriva a Ortona un po’ prima di mezzanotte e qui lo attende la sorpresa. Lo racconta il generale Puntoni6: “Nonostante si sia cercato di fare tutto nella massima segretezza, le banchine del porto sono piene di macchine. Il Sovrano si innervosisce e mi dice di informarmi che cosa sia accaduto. Si tratta delle vetture che hanno trasportato quassù tutti gli ufficiali dello Stato maggiore. Nulla di ciò era previsto. Circondato da generali e da ufficiali superiori, vediamo Roatta in borghese con un fucile mitragliatore a spalla. Il Re lo guarda e scuote la testa”.
Il porto di Ortona come si presenta oggi.
Oltre alle parecchie decine di generali, ufficiali superiori, attendenti, autisti e carabinieri c’è, nel recinto del porto, anche molta gente del posto: portuali, pescatori, donne e ragazzi, alcune centinaia. Li muove la curiosità; mai visti a Ortona tanti personaggi importanti, perfino il re e la regina. Ma qualcuno ha paura che una così illustre presenza faccia arrivare i tedeschi, da terra o dall’aria. Mezz’ora prima sono suonate le sirene dell’allarme aereo e nessuno sa che era un allarme finto, fatto per tenere la gente in casa e liberare le strade. Più passa il tempo e più si sente un certo rumoreggiare della folla.
A mezzanotte e venti la capitaneria avverte che una nave – è il Baionetta – è al largo di Ortona. Non si vede, perché è a lumi spenti. Allora ci si imbarca? Due motopescherecci, il Littorio e la Nicolina, sono stati affittati (ma poi nessuno li pagherà) e sono pronti per il trasbordo. Il re dice però di aspettare; manca Badoglio, il capo del governo. “È mezzanotte e mezzo” scrive il generale Puntoni “e il maresciallo non si vede. Il Sovrano decide allora di imbarcarsi lo stesso, con la Regina, il Principe, con il seguito e le più alte personalità presenti. Quando arriviamo sulla corvetta, troviamo ad aspettarci Badoglio e De Courten, che, all’insaputa di tutti, si erano imbarcati a Pescara fin dal pomeriggio”. Non è proprio esatto; si erano imbarcati non nel pomeriggio, ma la sera, intorno alle nove.
Più che di un trasbordo – diranno poi i due capibarca, Vincenzo Diomedi e Sebastiano Fonzi – si tratta di un arrembaggio, reso più drammatico dal buio della notte, mentre qua e là si agitano le piccole luci di lampadine tascabili. Tutti vogliono salire a bordo del Baionetta, ma sono troppi, anche se si lascia a terra il personale di servizio. Il comandante del Baionetta è inflessibile: chi volete voi, ma non più delle ciambelle di salvataggio disponibili, cinquantasette. “Prima i generali” grida l’ammiraglio De Courten7.
Fatti i conti, il comandante Pedemonti fa togliere il barcarizzo e buonanotte a tutti. Parecchi generali rimangono sui due motopescherecci, il Littorio e la Nicolina; strepitano, implorano, ma alla fine sono costretti a tornare indietro. Tanti di più sono ancora, in agitazione, sulle banchine del porto. Poi, uno dopo l’altro, in silenzio, salgono sulle loro macchine e scompaiono. Per terra rimangono valige, borse e grosse scatole piene di carte8.
Finalmente, all’una e dieci, il Baionetta leva le ancore e si dirige a sud, verso Bari. Ma a Bari c’è il rischio che ci siano i tedeschi. Si prosegue verso Brindisi.
La corvetta Baionetta.
Alle 5 del mattino si avvicina al Baionetta, velocissimo, l’incrociatore leggero Scipione Africano. L’incrociatore, entrato in servizio proprio quest’anno, più di cinquemila tonnellate di stazza, capace di raggiungere i quaranta nodi di velocità, è partito da Taranto alle 10.45 di ieri ed è arrivato a Pescara pochi minuti dopo la mezzanotte. Qui non ha trovato nessuno; gli “alti personaggi” di cui avevano parlato al comandante della nave, stavano imbarcandosi a Ortona sul Baionetta.
Raggiunto il Baionetta, lo Scipione, più potente, diventa la nave di scorta. A bordo c’è un giovane guardiamarina, il ventunenne Franco Aliverti. È lui che racconta9: “La navigazione continuava tranquilla ed i servizi di bordo funzionavano a meraviglia. Avvistammo parecchie imbarcazioni, di dimensioni varie, cariche fino all’inverosimile di militari provenienti dalla costa dalmata, che cercavano di raggiungere la costa italiana. Al nostro avvicinarsi sventolavano la bandiera nazionale. Verso le 16 venimmo sorvolati da un bombardiere tedesco che fece un giro su di noi: lo seguivamo con tutte le armi puntate, così che pensò bene di andarsene10. Risalimmo l’Adriatico fino all’altezza di Pescara, dove arrivammo a mezzanotte; dopo un rapido scambio di segnali a lampi di luce con la Stazione-segnali del porto invertimmo la rotta verso sud fino all’altezza di Ortona: altro scambio di segnali con la locale Stazione e poi di nuovo in rotta verso sud.
“Verso le 5 del 10 settembre avvistammo di prora una corvetta che riconoscemmo per il Baionetta. La superammo rendendo gli onori regolamentari all’insegna di comando che aveva a riva e vedemmo, allibiti e costernati, l’immagine della disfatta.
Il re, la regina e il principe Umberto sulla tolda del Baionetta la mattina del 10.
Nel ridotto spazio poppiero della piccola nave, ingombro di attrezzature e delle grosse tramogge scaricabombe di profondità, erano seduti, su semplici poltroncine in legno e tela, S.M. il Re, il maresciallo Badoglio, l’ammiraglio De Courten ed altri personaggi di altissimo rango. Nella luce livida dell’alba la scena sembrava materializzare la catastrofe: un vero crepuscolo degli Dei.
“Lo Scipione prese posizione di prora, ridusse la velocità fino a quella della corvetta e con tale linea di fila continuammo la navigazione verso sud. Nel primo pomeriggio ci fu uno scambio di segnali tra lo Scipione ed il Baionetta. La stazione radio della Marina di Roma, ancora funzionante, aveva trasmesso un messaggio con il quale il maresciallo d’Italia Caviglia chiedeva al Re una delega per agire come massima autorità militare per la città di Roma; delega che fu subito concessa con altro messaggio”11.
“Alle 16 circa del 10 settembre arrivammo finalmente a Brindisi, dando fondo”.
A sera, il re e la regina si sono accomodati nell’appartamento dell’ammiraglio Rubartelli nel castello svevo. Il re ha 74 anni, la regina ne ha 70 e dopo due notti di poco o niente sonno meritano di riposarsi. Alla cena pensa la signora Rubartelli.
Soltanto domani il re cercherà di togliersi un peso dallo stomaco: spiegare agli italiani perché è scappato da Roma. Così firmerà un proclama, che radio Bari trasmetterà e la Gazzetta del Mezzogiorno di Bari pubblicherà. Non saranno molti ad ascoltarlo (radio Bari ha una potenza di 20 kw) o a leggerlo: “Italiani, per la salvezza della capitale e per poter pienamente assolvere i miei doveri di re, col governo e con le autorità militari, mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale. Italiani! Faccio sicuro affidamento su di voi per ogni evento, come voi potete contare, fino all’estremo sacrificio, sul vostro re”12.
Comincia così il cosiddetto Regno del Sud con Brindisi capitale; territorio: le province di Bari, Brindisi, Lecce e Taranto.
Il castello svevo visto dal porto interno. Di origini normanne, è stato trasformato nel Trecento ed è un impianto a più volumi. Nei locali al primo piano, sede dell’ammiragliato, hanno trovato ospitalità il re Vittorio Emanuele e la regina Elena.
E a Roma? Conviene farcelo raccontare da uno che c’era, il direttore della Stefani Roberto Suster, che questa mattina ha mentito facendo dire alla sua agenzia che il maresciallo Badoglio era fuori Roma “in seguito a ispezioni militari che richiedevano la sua personale presenza”. Speriamo che ora dica il vero: “Tutta la notte alla periferia della città ha echeggiato il fuoco dei cannoni e delle mitragliatrici, e stamani i combattimenti si sono fatti accanitissimi a Porta S. Paolo, a Porta Latina e a Porta S. Giovanni. Una divisione tedesca di paracadutisti voleva, infatti, entrare in città, proveniente da Ostia, e due divisioni corazzate nostre non intendevano farli passare. Numerose ormai le vittime da entrambe le parti e notevoli i danni agli edifici. Verso le 10, dinanzi all’aggravarsi della situazione ed all’assenza di ogni autorità che emanasse ordini o prendesse iniziative, il ministro della Cultura popolare mi ha inviato un comunicato annunciante che il maresciallo Caviglia, l’ufficiale più alto in grado, tratta con i tedeschi per una tregua.
“Un improvviso lugubre silenzio è calato sulla città, nella quale ogni segno di vita è sparito. Negozi chiusi, mezzi di comunicazione sospesi, gente tappata in casa; il tutto dà l’impressione della tragedia che sta maturando. A mezzogiorno, infatti, si è appreso che le trattative erano fallite e il cannoneggiamento è ripreso più intenso. Qualche proiettile è piombato in pieno centro, come in via Frattina, angolo di via del Gambero, asportando un quarto di piano. Le truppe tedesche intanto si spiegavano per l’attacco finale, e i nostri, vinti dal panico, nonostante una grande superiorità di numero e di mezzi, incominciavano a fuggire sbandandosi come le pecore.
“Alle 15 è iniziato un metodico bombardamento della città, fatto per fortuna con i pezzi leggeri, ma con proiettili carichi di potente esplosivo. Le granate sibilavano per le strade e squarciavano le case con inaudita violenza. Attorno alla Stefani, dove eravamo tranquilli e sereni al lavoro, le esplosioni si succedevano, e una granata faceva diroccare una casa in via della Vite a 30 metri dalla nostra; un’altra granata colpiva un palazzo di piazza di Spagna, spaccandone in lungo la facciata, un’altra scoppiava a Trinità dei Monti. La faccenda incominciava veramente a farsi seria, tanto che alle 17.15 ho dovuto dare ordine a tutti di scendere nel rifugio, e di lì, poco dopo, di disperdersi per non essere eventualmente presi e internati dai tedeschi.
“Alle 18 siamo tornati alla Stefani per riprendere il lavoro. Il cannoneggiamento andava ormai affievolendosi, ma i vari redattori, telefonando, segnalavano danni un po’ in tutti i quartieri. Verso le 18.30 ci viene passato un comunicato con il quale si annuncia l’accordo raggiunto con i tedeschi. Accordi che sono una nostra completa capitolazione, dato che quasi tutti i nostri soldati saranno disarmati e che i tedeschi occuperanno l’ambasciata di Germania, la posta e l’EIAR13. Pattuglie tedesche stanno del resto già percorrendo tutte le strade e disarmando i nostri ufficiali e soldati. È uno spettacolo di vergogna incredibile e che dimostra quale sia il grado di spaventosa putrefazione raggiunto dal Paese e dall’esercito. Il conte Calvi di Bergolo, ex ufficiale di collegamento in Africa con il comando tedesco, assume intanto, non si sa in nome e per incarico di chi, il comando della città, e il maresciallo Kesselring il comando delle forze occupanti.
“La battaglia della via Ostiense, dalle prime notizie che giungono, sembra sia stata ben poco gloriosa per i nostri, fra i quali soltanto i granatieri e i carabinieri si sono battuti bene e senza paura. Ma altrettanto poco onorevole è stato per i tedeschi l’ingresso in città, accompagnato da indicibili episodi di grassazione, di saccheggio e di violenza, contro inermi cittadini. E vero che loro cercano di giustificarsi adducendo l’ostilità della popolazione, ma non è rubando automobili, biciclette, orologi, borsette che si combatte.
“Comunque, chi si è comportato meglio in queste giornate spaventose è stato il popolo, che, pur essendo abbandonato a se stesso, senza notizie, senza direttiva, senza capi, senza nessun elemento di giudizio, è rimasto calmo spettatore degli avvenimenti, emozionato solo dalla ridda delle voci pazzesche che corrono”.
Sono popolo, e non sono rimasti a vedere dalla finestra, anche le centinaia di romani che questa mattina intorno a Porta San Paolo e in tutti i quartieri meridionali di Roma si sono uniti ai granatieri di Sardegna, ai lancieri di Montebello, ai fanti e artiglieri della Sassari, ai carristi delle divisioni Ariete e Piave, ai cavalieri del Genova, inquadrati con i loro ufficiali o sbandati; e hanno tentato, insieme a carabinieri e poliziotti, di impedire alle colonne tedesche – uno contro dieci, fucili contro mitragliatrici e artiglierie – di entrare in Roma e di occupare la capitale.
È una lotta che si combatte strada per strada, dai portoni delle case, nascosti dietro un angolo, ora qua e ora là, al Testaccio, a San Saba, alla Passeggiata Archeologica, anche a Porta San Giovanni, dove i tranvieri hanno sbarrato i fornici con le vetture; e poi, indietreggiando poco a poco, anche a Santa Maria Maggiore, a Santa Croce in Gerusalemme, anche in via Cavour, qualche scontro anche in via Gioberti, al fianco della stazione.
Alle 18 il generale Caviglia fa alzare la bandiera bianca; ha firmato la resa. In un momento le strade rimangono vuote, solo qualche sparo ancora, e per terra i morti: 414 militari e 156 civili. Fra i morti ci sono ufficiali e romani di Roma, c’è un tenente colonnello, Vannetti Donnini, e un fruttivendolo, Ricciotti, notissimo nei vicini Mercati Generali. C’è anche un professore di storia dell’arte, sottotenente in congedo dei granatieri, reduce dalla Grecia: Raffaele Persichetti.
Insegnava al liceo Visconti e un suo studente, Luca Canali, scriverà di lui che era “prescelto dalla grazia”. Era corso da casa e, in abiti civili, si era messo al comando di un drappello dei suoi compagni d’arma, i granatieri.
Al Visconti, in piazza del Collegio Romano, una lapide lo ricorda, in latino; le due ultime righe dicono: “libere pugnando occumbere maluit / quam servitute foedari”. Noi diremmo: preferì morire libero piuttosto che vivere schiavo. Al professor Persichetti è stata data, alla memoria, la medaglia d’oro al valor militare. La prima medaglia d’oro della Resistenza.
A Porta San Paolo a Roma militari e civili tentano di impedire alle truppe tedesche di entrare in città. La lotta dura tutta la giornata e si estende anche ad altri quartieri. Muoiono 414 militari e 156 civili, fra cui Raffaele Persichetti, professore di liceo e ex ufficiale dei granatieri; a lui sarà concessa la medaglia d’oro, la prima della Resistenza. Una strada ha il suo nome tra piazzale Ostiense e piazza di porta San Paolo.
1 Questa e altre annotazioni sono nel libro, già citato, del generale Puntoni (Parla Vittorio Emanuele III); sua è anche la composizione del convoglio di auto partito da Roma, dove però il generale commette qualche errore (la regina è nella prima auto e anche nella seconda; forse perché alcuni hanno cambiato posto durante il viaggio).
2 È facile domandarsi: com’è che il convoglio reale ha percorso tutta la via Tiburtina senza essere intercettato dai tedeschi? Peggio ancora se, come qualcuno crede di sapere, il convoglio è stato fermato tre volte da posti di blocco e lasciato proseguire. Alcuni storici sostengono che il “trasferimento” del re è stato concordato da Badoglio col comandante delle truppe tedesche in Italia, il maresciallo Kesselring. In cambio di che cosa? Si possono fare varie ipotesi, tutte verosimili: l’abbandono di Roma da chi la doveva difendere; la consegna di Mussolini, come fa pensare quello che accadrà a Campo Imperatore (si veda la giornata del 12 settembre) e anche (si veda sopra) l’ambigua frase detta da Badoglio alla duchessa di Bovino (“forse i suoi lo libereranno”). L’accordo fra Badoglio e Kesselring, se c’è stato, eliminava anche, per i tedeschi, il grosso problema che avrebbe rappresentato la presenza del re d’Italia nel territorio ormai sotto la loro giurisdizione. Un’altra ipotesi è che la partenza del re fosse in certo modo autorizzata a condizione che partisse anche lo Stato maggiore, lasciando così tutte le Forze armate senza capi e senza guida. Anche se quest’ultima ipotesi non fosse vera, sta di fatto che la partenza da Roma di tutta l’alta dirigenza militare ha causato il disfacimento dell’esercito.
3 Il racconto di Bice Cafiero è nella rivista ABC (Abruzzo beni culturali), numero 4, 1998.
4 Ancora in P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, già citato.
5 Dopo alcuni giorni i duchi di Bovino ebbero il castello incendiato dai tedeschi e furono condotti in un campo di concentramento.
6 P.Puntoni, già citato.
7 Così racconta il colonnello Luigi Marchesi (in Come siamo arrivati a Brindisi, Bompiani, 1969). Marchesi, stretto collaboratore di Ambrosio, è uno dei tre fatti salire a bordo senza essere generali: lui, un altro ufficiale superiore e un sergente.
8 Sul porto c’è una lapide che dice: “Da questo porto la notte del 9 settembre 1943 l’ultimo re d’Italia fuggì con la corte e con Badoglio consegnando la martoriata patria alla tedesca rabbia. Ortona repubblicana, dalle sue macerie, dalle sue ferite grida eterna maledizione alla monarchia dei tradimenti, del fascismo e della nostra Italia”.
9 Il testo è pubblicato da Gli squali raccontano, nuova edizione 2003, senza indicazione della casa editrice.
10 Alcuni hanno raccontato che la navigazione del Baionetta fu seguita per alcune ore da un aereo da ricognizione tedesco. Questo avvalorerebbe la tesi di un “trasferimento” del re concordato con i tedeschi (vedi nota 2). Interpellato (marzo 2007), il guardiamarina Franco Aliverti, oggi in pensione col grado di ammiraglio, dice che quello che vide gli sembrò un aereo da combattimento, un Junker 88. Gli Junker 88 erano però usati anche come aerei da ricognizione e può darsi quindi che quell’aereo, avvistato nel pomeriggio del 9, fosse lo stesso che altri avvistarono la mattina del 10.
11 Il messaggio, cifrato, diceva: “Prego Vostra Maestà, data situazione determinatasi nella capitale, volermi concedere temporaneamente poteri che mi possano permettere far funzionare il governo durante l’assenza del presidente del consiglio. Firmato Caviglia. 10.06, 10 settembre”. La risposta, egualmente cifrata: “Vostra Eccellenza è da me investito potere mantenere funzionamento governo durante temporanea assenza presidente consiglio che si trova con ministri militari. Vittorio Emanuele. 14.10, 10 settembre”. Il generale Puntoni scrive (opera citata): “De Courten assicura Sua Maestà che il dispaccio è stato trasmesso e regolarmente ricevuto dall’interessato”. Il generale Caviglia, invece, non ricevette mai il messaggio. Il generale Puntoni scrive anche: “La richiesta di Caviglia non giunge gradita a Badoglio, che palesa chiaramente il suo disappunto”.
12 Quella che è passata alla cronaca, se non alla storia, come la “fuga del re” da Roma ha avuto in tempi recenti un’interpretazione più benevola (la fuga del re, non del capo del governo e del Comando supremo). Il trasferimento del Capo dello stato in territorio ancora italiano e non occupato da forze straniere ha garantito infatti una continuità istituzionale, ha assicurato un interlocutore ai governi inglese e americano, e così ha permesso sia la nascita di un nuovo governo italiano con un minimo di autorità, sia la dichiarazione di guerra alla Germania e quindi una specie di cobelligeranza, sia l’istituzione di un Corpo italiano di liberazione al fianco degli eserciti alleati, e perfino la legittimazione dei reparti partigiani come strutture dipendenti, in certo modo, dal governo italiano. Se così stanno le cose, si pone però un’altra domanda: il re ha abbandonato Roma ed è riparato al Sud con la coscienza di sostenere questi principii e questi valori oppure semplicemente per salvare la vita e la monarchia? Purtroppo la sua decisione di farsi accompagnare dal capo del governo e ancor più di non costringere il Comando supremo a restare a Roma confermano questa seconda interpretazione.
13 L’EIAR (“Ente italiano audizioni radiofoniche”), in via del Babuino, dove oggi è l’hotel de Russie; era quello che ora è la Rai.
10 settembre – Di più
– In un’intervista a Corrado Ruggeri sul Corriere della sera del 6 settembre 1993 (vedere l’archivio storico del “Corriere della sera”) Bice (Beatrice) Cafiero, sposata Scassellati, 65 anni, ha confermato il racconto fatto nel 1998 (vedi nota 3) e anche la risposta di Badoglio alla domanda sulla sorte di Mussolini: “Lo libereranno i suoi”. Ruggeri chiede anche a Bice: “Che cosa la colpì di quel pranzo?”. Risposta: “Le stupidaggini che dicevano quelle persone importanti in quei momenti terribili”.
– In un libro uscito di recente (Settembre 1943 – I giorni della vergogna, Editori Laterza, 2009) Marco Patricelli scrive (ma non dice come l’ha saputo) che per il pranzo improvvisato nel castello di Crecchio il cuoco, “monsù” Achille Beneduce, 60 anni, un quarto di secolo trascorso nelle cucine di Casa Savoia a Napoli, riuscì a preparare un ricco menù e anche a dare un nome in francese, come allora usava, alle varie pietanze: “Consommé Sevigné, truite saumonée à la diplomatique, poitrine de dinde aux primeurs, mousse de jambon à la gelée”. Un pranzo degno di un re, forse non di un re in fuga.
– Marco Patricelli (si veda la nota precedente) scrive all’autore che “fu lo stesso chef Aquilino Beneduce a scrivere il nome delle portate, e di quel menu esiste tuttora il documento. Sull’argomento è stato pubblicato un libriccino di Mario Setta, opportunamente e correttamente citato in bibliografia”.
– Sul “Corriere della sera” del 6 settembre 1993 Stefano Folli ha pubblicato un’intervista col generale Luigi Marchesi, ufficiale degli alpini, “addetto alla persona”, nel 1943, del generale Ambrosio: “I volti dell’8 settembre? Quello impenetrabile e immoto del re. Quello smarrito, disfatto di Badoglio. E Carboni che parla con voce tagliente, risentita, criticando l’esito delle trattative con gli alleati. Li rivedo uno ad uno il pomeriggio di quel giorno al Quirinale, nella sala del Consiglio della Corona, seduti intorno a un tavolo ovale. ministri e capi delle tre armi. Nel complesso un gruppo di uomini che si sentivano inferiori al compito terribile che il destino aveva riservato loro. Il dado è tratto, ma c’è chi si rifiuta di accettare la realtà. Si vorrebbe rinviare, rinegoziare. Quando sento Carboni che dice assurdità, che si preoccupa solo della reazione tedesca, mi ritrovo in piedi a parlare, a controbattere. Io che ero di gran lunga il più giovane e che ovviamente non facevo parte del Consiglio. Ambrosio aveva chiesto al re di farmi partecipare perché avevo seguito da vicino tutta la fase delle trattative”.
“Lei in quel momento ha di fronte la monarchia, lo Stato…”.
“Il silenzio è totale, cupo. C’è chi si passa una mano sul viso, chi guarda fisso nel vuoto. Guariglia, De Courten, Sorice, Acquarone, gli altri. Sembravano ipnotizzati tutti da Carboni, che avrebbe voluto sconfessare il governo, buttare a mare l’armistizio già firmato a Cassibile cinque giorni prima. Io sostengo invece che quella sarebbe la via definitiva del disonore. Parlo, mi accaloro, non me ne rendo neanche conto… Quando finisco è ancora il silenzio. Ora tace anche Carboni. Poi Guariglia, il ministro degli esteri, dice che non abbiamo alternative, dobbiamo andare avanti. Il re si alza, il Consiglio è finito”.
“Altri volti, generale Marchesi…”.
“Quello gioviale, franco, di Maxwell Taylor, il vicecomandante della 82a divisione aviotrasportata americana, che arriva a Roma il giorno 7 con indosso un impermeabile borghese a coprire l’uniforme. Viene a mettere a punto il programma per il lancio su Roma dei paracadutisti e l’atterraggio della divisione. Si trova invece di fronte al rifiuto opposto da Badoglio e Carboni. Un errore mostruoso, la rovina dell’Italia. Con i soldati americani a Roma, il corso della guerra sarebbe cambiato. Non avremmo perso la città, avremmo risparmiato migliaia di vite. Questa era anche l’idea degli alleati e dopo la guerra Taylor me lo confermò: ‘Abbiamo tenuto la divisione in preallarme per ore'”.
“Perché quel rifiuto?”.
“Paura. Una paura forsennata dei tedeschi. Badoglio era in preda al panico”.
“Nel mondo militare la paura confina con la viltà”.
“Preferisco parlare di paura. Se vuole, anche di incomprensione della realtà, di incredibile disorganizzazione”.
“C’è chi dice che comunque Roma non sarebbe stata difendibile”.
“Lo so. Lo dice anche uno storico che stimo come De Felice. Ma io non sono d’accordo. Se fosse arrivata l’82a divisione, la storia sarebbe stata un’altra. Invece abbiamo avuto il collasso. Il generale Carboni avrebbe dovuto essere fucilato per quello che ha fatto. Il suo comando è mancato completamente”.
“Invece Carboni, nel dopoguerra, ha trovato molti difensori…”.
“Sì , perché era un opportunista. Nei giorni della catastrofe aveva fatto distribuire un centinaio di fucili alla popolazione e poi ha saputo spendere bene questa carta”.
“E Ambrosio?”.
“Lo ricordo come un uomo integerrimo, severo. Un vecchio ufficiale piemontese d’artiglieria. Con una sola debolezza: la soggezione nei confronti di Badoglio. Si sentiva alle sue dipendenze e dimenticava che Badoglio in quel frangente era il capo del governo, non un comandante militare. Nei giorni precedenti l’armistizio avevo preparato per Ambrosio un appartamento clandestino a Roma. Di lì avrebbe potuto dirigere le operazioni. Questa era anche la sua intenzione. Invece…”.
“Invece finì anche lui nella gran ressa sulla via Tiburtina: tutti, il re in testa, di corsa verso Pescara”.
“Guardi, Ambrosio non voleva partire. Era contrario alle disposizioni di Badoglio perché gli Stati Maggiori lasciassero Roma. Si piegò a un ordine diretto del re, all’alba del 9 settembre. Quando me lo disse piangeva”.
“Ci fu una qualche forma di intesa coi tedeschi per favorire il transito del corteo reale?”.
“Assolutamente no. Kesselring non avrebbe potuto assumersi una responsabilità di questo genere”.
“Scavi ancora nella memoria, generale. Che cosa ricorda di Castellano, un nome che dopo la guerra fu divorato dalle polemiche?”.
“Che ingiustizia… E pensare che l’Italia deve molto a questo ufficiale siciliano aperto e preparato, pieno di energia. Ci rendiamo conto di quello che ottenne Castellano dagli alleati? Eravamo un paese vinto, costretto alla resa. Castellano riuscì a strappare l’impegno a impiegare su Roma la divisione aviotrasportata. E a porla addirittura sotto comando italiano, cioè agli ordini di Carboni. Un miracolo. Non fu certo responsabile Castellano se poi il piano fu colpevolmente vanificato. Mi rivedo con lui a Cassibile, davanti alla tenda che ci ospita. Da Roma non arriva la delega alla firma dell’armistizio. Incertezze, ripensamenti… Può essere tutto. Noi siamo in piedi, sull’attenti. Davanti a noi, infuriato per il ritardo, è il generale inglese Alexander. Il suo frustino freme, tradisce una furia appena repressa. Dice: dai campi dell’Africa del nord è in procinto di decollare la più grande formazione da bombardamento della storia. Ci fa capire che l’obiettivo sarà Roma. Ma poi la delega arriva”.
“Che cosa l’ha amareggiata di più?”.
“L’insinuazione, riecheggiata fino a oggi, che noi fossimo a conoscenza che l’armistizio doveva essere proclamato l’8 settembre. O che sapessimo in anticipo dello sbarco di Salerno. Niente di più falso. Nessuno ci disse nulla. E il perché è chiaro: sospettavano di noi, non si fidavano. Per parte nostra, avevamo ipotizzato che l’armistizio sarebbe stato annunciato intorno al 12. L’anticipo, che ci venne annunciato da Taylor, fu una delle cause della disfatta”.
A cinquant’anni di distanza il generale Marchesi non viene meno alla lealtà verso i suoi comandanti di allora. Eppure non è difficile cogliere nelle sue parole una differenza di toni. La sua difesa di Castellano è più ferma e calorosa di quella di Ambrosio. Nega che il re sia fuggito. In realtà, dice, il trasferimento nella zona non occupata dai tedeschi era indispensabile, previsto nelle clausole d’armistizio. Ma tutto il resto di cui fu testimone – il collasso, la dissoluzione dell’Italia – ha lasciato in lui una traccia profonda. Il senso delle parole di Marchesi è: non ci fu tradimento, nei giorni tra l’8 e il 10 settembre, ma ci fu il fallimento, l’epilogo di un’epoca.
“Se mi chiede un’immagine emblematica del dramma le offro questa: noi tutti sul molo di Ortona nella notte sul 10. Non solo il re, con la regina e Umberto. Ma decine di generali e alti ufficiali che affollavano la banchina buia, ansiosi e smarriti, nell’attesa vana che arrivassero le navi a imbarcarli. Gli Stati Maggiori delle tre armi al gran completo”.
Per l’intervista completa vedere l’archivio storico del “Corriere della sera”
Sul “Quotidiano di Brindisi” del 12 settembre 2013 è stato pubblicato questo divertente articolo firmato Antonio Camuso.
“È importante per una città come Brindisi, che si fregia dell’esser stata per cento giorni la Capitale del “regno del Sud”, che molti dei luoghi comuni sull’8 settembre, la fuga del Re da Roma e il suo arrivo a Brindisi siano messi da parte e che si faccia chiarezza anche sugli aspetti più nascosti di quelle vicende, contribuendo a restituire alla città la sua corretta memoria storica. Una memoria che solo oggi è confortata non solo dalle pur poche testimonianze orali ma anche dai documenti ufficiali che ultimamente, dopo decenni, sono stati resi accessibili dagli Alleati ed in particolare dagli inglesi sul ruolo che ebbero le diplomazie, i servizi segreti ed i condizionamenti che la Monarchia e la classe politica che in seguito governò l’Italia dovettero subire, in nome della spartizione dell’Europa tra i vincitori del Secondo Conflitto mondiale. Nei due giorni successivi all’armistizio molte cose accadono nell’Italia del Sud; gli americani con un ampio dispiegamento di forze aeronavali sbarcano a Salerno, fiduciosi di raggiungere Roma in pochi giorni, subito smentiti dalla accanita resistenza delle truppe tedesche che contenderanno ad essi, sino al 25 aprile del 1945, ogni palmo del territorio italiano. Gli inglesi, a cui le sorti della monarchia italiana stanno più a cuore, sbarcano senza colpo ferire a Taranto, onde rendere sicuro una parte del territorio italiano che possa accogliere Vittorio Emanuele, la sua corte e barattare la continuità della monarchia sabauda con l’acquiescenza della futura Italia alle mire imperiali inglesi.
“Sono navi americane quelle che, scortando i parà della 1a divisione aerotrasportata inglese, attraccano l’8 settembre a Taranto. Da una di esse, l’incrociatore “Boise”, reduce dalle battaglie aeronavali contro i giapponesi nel Pacifico, sui moli della città dei due mari vengono calate delle strane automobili, irte di mitragliatrici e senza insegne, salvo uno stemma simile ad uno astrolabio apposto sul radiatore. Gli stessi uomini che le prendono in consegna hanno un aspetto poco militare, più simili a dei predoni del deserto che ad appartenenti all’Esercito imperiale di Sua Maestà Britannica. Su quella specie di uniforme che portano indosso non hanno gradi, non si salutano militarescamente ed è impossibile ad un primo colpo d’occhio comprendere chi li comanda. Sono poco meno di 100 e si definiscono “l’Armata Privata di Pospki”, dal soprannome dato al loro comandante ed ideatore di questa particolare unità delle SAS, il belga di origini russe Vladimir Peniakoff. Questi uomini per anni sono stati la bestia nera dei soldati italiani e dei tedeschi dell’Afrika Korps in Libia. Con le loro jeep willis “taroccate” hanno attaccato le retrovie dell’Asse colpendo depositi di munizioni e carburante di Rommel, distruggendo aerei, seminando il terrore lungo le vie di rifornimento e guadagnandosi insieme ai loro colleghi delle SAS l’appellativo di “Topi del deserto”.
“La mattina del 10 settembre1943, agli uomini di Popski è dato un compito ben diverso ma forse ancor più importante: accettare formalmente la resa dai comandanti militari dell’Esercito e della Regia Marina della piazzaforte di Brindisi e comunicare ciò al Comando inglese a Taranto, in maniera tale che la corvetta “Baionetta” con il Re a bordo possa entrare in sicurezza in città.
“È una corsa contro il tempo che solo un uomo come Popski può vincere e ancora una volta la sua fama sarà confermata. Nel loro tragitto da Taranto a Brindisi le jeep dei Topi del deserto si fermano solo a Francavilla Fontana per accettare la resa del distretto militare del Salento da un generale dell’Esercito, poi l’ingresso a Brindisi dove, nel Castello, sede della Marina, è un ammiraglio a firmare l’accettazione delle clausole dell’armistizio ed ordinare che per le strade di una città semideserta si dispieghino bandiere inglesi affiancati al tricolore.
“Tocca ora ai servizi segreti gestire l’operazione “sbarco del Re”, che formalmente naviga su una nave italiana ed è scortato dall’incrociatore “Scipione” e non accetterebbe ordini che da un comando italiano. Il via libera dato dalle radio delle jeeps di Popski, giunto alla sezione di ascolto del Comando inglese a Taranto è ritrasmesso alla “Baionetta”, in codice, dai radiotelegrafisti inglesi del servizio segreto SOE, presenti in città e sbarcati insieme alle truppe inglesi .
“Al seguito del re, c’è un giovane silenzioso, che, pur non indossando nessuna divis, ha accesso alla cabina radio della nave. Chi è questo ragazzo dai lineamenti delicati che parla l’italiano con un forte accento toscano e a cui piace bere del buon Chianti? È Richard “Dick” Mallaby, il primo agente segreto inglese del SOE lanciato sul territorio italiano nell’agosto del 1943 per organizzare la Resistenza, catturato sul lago di Como dal SIM , il servizio Segreto Militare (l’alter ego monarchico della famigerata OVRA) e divenuto in pochi giorni l’anello fondamentale, grazie alla sua radio e ai suoi cifrari, dei contatti tra monarchia ed Alleati per i colloqui e la conseguente firma dell’armistizio reso pubblico l’8 settembre . Quest’uomo, che avrebbe dovuto in altri tempi esser fucilato all’istante, viene accolto come la manna caduta dal cielo da un Badoglio in difficoltà dopo la caduta della Sicilia. “Dick” dalla cella dei servizi segreti è direttamente condotto al Ministero della Guerra a Roma, da dove, con la sua radio contatta gli alleati, accompagna il generale Castellano a Cassibile, assiste alla firma dell’armistizio, ritorna a Roma e l’8 settembre insieme a 53 dignitari sale con il Re sulla “Baionetta”, riceve via radio da Taranto in codice l’ok per l’attracco in sicurezza della “Baionetta” a Brindisi, ponendo fine alla rocambolesca, se non grottesca, fuga del Re. Un giovane agente che, appena sbarcato con la sua radio ed i cifrari, è condotto in una torre del Castello Svevo, da dove immediatamente si mette in contatto con la base algerina del SOE : “Missione compiuta! Il Re è sotto la custodia degli inglesi!”.
“Poche ore dopo, ad affiancarsi a lui giungeranno da Taranto e via mare altri agenti segreti e Brindisi, per la durata dell’intero conflitto, diverrà parte integrante di una, sin ora poco conosciuta, guerra segreta ai nazisti in tutta l’Europa occupata, al fianco dei movimenti di Resistenza compresa quella italiana. Una storia di cui come ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) di Brindisi vorremmo far rendere partecipi le giovani generazioni, la cittadinanza e le istituzioni in un cammino ideale che ci porti da oggi sino al 25 aprile del 2015 a festeggiare il 70esimo della liberazione dell’Italia dal Nazifascismo”.
– Il radiotelegrafista che assicurò lo scambio di tutti i messaggi ufficiali fra il governo Badoglio a Roma e il Comando supremo alleato ad Algeri negli ultimi giorni dell’agosto 1943 e nei primi drammatici giorni di settembre e che poi, il 10, accompagnò il re e Badoglio a Brindisi per continuare il suo compito era una agente segreto inglese, paracadutato, il 14 agosto, nel lago di Como e incaricato di una ben diversa missione. Di questa interessante e anche divertente vicenda parla qualche storico inglese e poco o niente qualche storico italiano (1). Qualche cenno è nell’articolo che si può leggere più sopra in questa giornata, pubblicato dal “Giornale di Brindisi” del 12 settembre 2013 con la firma di Antonio Caruso.
Sulla vicenda non uno storico ma un avvocato, Gianluca Barneschi, appassionato di ricerche storiografiche, ha scritto un libro di 280 pagine: “L’inglese che viaggiò con il re e Badoglio. Le missioni dell’agente speciale Dick Mallaby”, edito nel 2013 dalle Edizioni LEG. E’ un libro documentatissimo ed è una esemplare lezione di come si deve fare storiografia contemporanea: non solo documenti in archivi pubblici e privati, ma anche memorie e testimonianze, rintracciando con pazienza chi può fornire personali e dirette informazioni. Un libro che merita di essere segnalato e, con l’assenso dell’autore, di essere riassunto da chi scrive questo “1943” digitale. Sicuramente ne verrà fuori un bel racconto.
“Alle ore 17 di oggi come da autorizzazione ricevuta con procura dal maresciallo Badoglio ho firmato alla presenza del generale Eisenhower le condizioni di armistizio corrispondenti al testo conosciuto. Castellano”.
E’ il 3 settembre e questo storico messaggio arriva alle 17,15 da Algeri alla sede del Comando supremo italiano a palazzo Vidoni a Roma. Il radiotelegrafista che lo riceve non è un militare italiano, ma un agente speciale inglese del Soe, lo “Special operations executive”. Si chiama Cecil Richard Dallimore-Mallaby, detto Dick, ma chiamato Dicche ad Asciano in Toscana (il “signorino Dicche”), dove è arrivato da Ceylon (Sri Lanka) a tre anni, è cresciuto bambino ed è andato a scuola alle elementari del paese; poi al Convitto nazionale Tolomei di Siena e poi al Collegio San Carlo di Modena. Parla perfettamente l’italiano, ma – si dice – con accento senese.
Com’è che è capitato a palazzo Vidoni? Dick è figlio di un esportatore inglese di tè che, rimasto vedovo, si è trasferito da Ceylon in Toscana, dove ha ereditato una notevole impresa agricola e si è sposato nel 1925 con l’amministratrice dell’impresa, la contessina Maria Luisa Bargagli-Stoffi. Nel 1939, a venti anni, Dick va in Inghilterra e subito – la guerra è appena cominciata – si arruola nell’esercito, dove lo assegnano a una sezione telegrafisti. Nel 1940 e nel 1941 è in Africa, tra il Cairo e Tobruch, e nel gennaio 1942 entra nel Soe.
Lo Special operations executive era un corpo creato nel 1940 da Winston Churchill con compiti che giustificavano quell’aggettivo “special”; compiti non propriamente militari e non propriamente spionistici, intesi a far danno al nemico senza dover tener conto, se necessario, delle convenzioni internazionali e dei codici penali. Non c’erano particolari regole e molto veniva affidato all’inventiva caso per caso. Si dice che fossero del Soe l’esplosivo e il detonatore temporizzato utilizzati nel fallito tentativo ad Hitler del 20 luglio del 1944 e che fossero una produzione o almeno un’idea del Soe le pillole al cianuro da nascondere fra i denti come mezzo di opportuni suicidi e anche di suicidi disperati come quello con cui il 15 ottobre 1946 si tolse la vita Hermann Göring prima dell’impiccagione sentenziata dal tribunale di Norimberga.
La prima missione di Dick Mallaby, diventato l’agente Olaf, cominciò nella notte fra il 13 e il 14 agosto 1943. Alle 2.48 un aereo Halifax, partito alle 22.30 dall’aeroporto algerino di Blida, 45 chilometri a sud di Algeri, e di cui era l’unico passeggero, lo paracadutò sul lago di Como all’altezza di Carate Urio, sei chilometri a nord di Cernobbio. Vestito con un abito da operaio sotto tuta di lancio e giubbotto impermeabile, aveva un canottino da gonfiare, una borsa con pezzi di ricambio per ricetrasmittente e un libro: “Italia mia” di Giovanni Papini”, dove erano nascosti alcuni negativi di codici crittografici. Olaf doveva raggiungere Como e presentarsi in via Borgovico da un certo Cavadini, già in possesso di una ministazione radiotelegrafica giuntagli dalla Svizzera. Obbiettivo: mettersi in contatto con membri della Resistenza italiana e stabilire un collegamento fisso via etere con Algeri.
Era un notte di luna piena e il cielo senza nubi. Infelice era la scelta del momento. Dick fu avvistato da più persone e in breve circondato da parecchie barche. Di lì a poco era in mano dei carabinieri; il giorno dopo, il 16, a Milano era in mano del Controspionaggio italiano; il giorno dopo era in cella a San Vittore. Il 18 il quotidiano milanese “La sera” pubblicava la notizia della cattura dell’agente inglese: “L’uomo caduto dal cielo, tradito da un raggio di luna”.
Nello stesso giorno, a Lisbona, il generale Giuseppe Castellano aspettava di essere ricevuto nell’ambasciata inglese. Era partito il 12 da Roma ed era arrivato il 16 nella capitale portoghese, incaricato dal maresciallo Badoglio di stabilire un primo contatto con le autorità alleate. Il 19 si incontrerà (2) col Capo di stato maggiore delle forze alleate nel Mediterraneo, generale Walter Bedell Smith, e col Capo dell’Intelligence, il brigadiere generale inglese William Kenneth Strong. Sono giunti da Algeri proprio per incontrarsi con questo inatteso inviato da Roma.
Dopo una nottata di discussioni, la mattina del 20 alle 7 il generale Castellano esce dall’ambasciata. Gli hanno consegnato, da portare a Roma, il testo delle condizioni di armistizio, quello che impropriamente sarà chiamato ”armistizio breve” o (come traduzione dell’inglese letterario “curt”) “armistizio corto”; in realtà è uno stralcio, limitato alle clausole militari, del documento completo e non ancora terminato che sarà perciò chiamato ”armistizio lungo”.
Insieme al documento il generale Castellano riceve anche una valigetta che contiene una speciale piccola stazione radiotelegrafica ricetrasmittente. Chiede: come usarla? Semplice: in Italia c’è un agente inglese capace di farla funzionare in arrivo e in partenza. Dov’è? A Milano, nel carcere di San Vittore. E’ Dick Mallaby, l’agente Olaf.
Il generale lascia Lisbona col primo treno possibile, il 24. Sarà a Roma il 27. Il giorno dopo, Olaf è a Roma nel carcere di Regina Coeli; il giorno dopo, il 28, è nel palazzo Vidoni, in corso Vittorio, sede del Comando supremo; sta all’ultimo piano; che nessuno lo veda. Da sergente i suoi l’hanno promosso addirittura tenente. Il suo nome in codice è Monkey (scimmia). A Massingham, il nome in codice della stazione radio alleata vicino ad a Algeri, il suo interlocutore è Drizzle (pioggerella). Il 30 agosto Monkey trasmette a Drizzle un messaggio: il generale Castellano partirà domani mattina per Termini Imerese. Significa che gli italiani accettano le condizioni di resa e che Castellano è incaricato di firmare l’armistizio.
Giorno dopo giorno fino all’8 settembre è Mallaby, aiutato da due radiotelegrafisti italiani, che assicura il dialogo fra Roma e Algeri, fra Badoglio e Eisenhower. Anche i messaggi più drammatici (3): la progettazione, il 3 e il 4 settembre, e poi la rinunzia italiana, il 7, dello sbarco di una divisione aerotrasportata americana sugli aeroporti intorno a Roma; la richiesta di Badoglio, il 7, di posticipare l’annunzio dell’armistizio e lo sprezzante diniego di Eisenhower. E’ il messaggio numero 45.
Nella notte fra l’8 e il 9 il re e Badoglio fuggono da Roma. Nelle prime ore del 9 Mallaby viene incluso fra i partenti. Dall’aeroporto di Centocelle in aereo all’aeroporto di Pescara; poi in auto al porto di Ortona. Sul cacciatorpediniere Baionetta il comandante ha detto che i posti sono solo 57. (4) Sulle banchine del porto decine e decine di alti ufficiali si spingono per salire a bordo. Col re, la regina, il principe Umberto e Badoglio ne salgono 52; così sono 56; il cinquantasettesimo viene respinto indietro. Il cinquantasettesimo posto è per Dick Mallaby.
A Brindisi Dick Mallaby sistema le sue attrezzature nella camera più alta di un torrione del Castello Svevo, sede dell’ammiragliato. Più sotto vivono il re e la regina. Vorrebbe un abito decente per sostituire la tuta da operaio che ha da quando è stato paracadutato e soprattutto vorrebbe fare un bagno. Deve aspettare l’arrivo della Commissione alleata, il 13. Finalmente una tinozza nell’albergo Internazionale e un’uniforme da ufficiale inglese; però senza berretto.
E’ nato il Regno del Sud, quello che gli angloamericani chiamano “King’s Italy”, l’Italia del re (5). La Commissione alleata, che non per niente si chiama “di controllo” (e lo rimarrà fino al 10 ottobre), è presieduta da un generale inglese, Noel Mason MacFarlane, e ha due membri, l’inglese Harold MacMillan e l’americano Robert Murphy, consigliere personale di Eisenhower. Si è insediata del palazzo della Provincia, nelle stanze accanto a quelle di Badoglio e dei suoi collaboratori.
Per qualche giorno Dick Mallaby continua il suo lavoro; ma il dialogo con Algeri non ha più ragione; e poi ha addestrato tre o quattro radiotelegrafisti italiani. Perciò saluta e se ne va. Il Soe gli ha affidato un’altra missione.
Dopo la fine della guerra Dick Mallaby ha vari incarichi politico-.militari; anche alla Nato a Napoli. Si è sposato, ha quattro figli e spesso torna nella sua Toscana. Dopo tre infarti muore nel 1981. E’ sepolto nel piccolo cimitero di Poggio Pinci, nel comune di Asciano.
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(1) Tre brevi cenni sono in “1943: 25 luglio – 8 settembre” di Ruggero Zangrandi, dove Mallaby è un “tenente paracadutista dell’Oss americano”; poche righe in “8 settembre” di Paolo Sorcinelli. Testimonianze nei libri di memoria degli alti ufficiali protagonisti di quelle vicende (“Come siamo arrivati a Brindisi” di Luigi Marchesi; “Come firmai l’armistizio di Cassibile” di Giuseppe Castellano).
(2) Si veda la giornata del 19 agosto.
(3) Si veda la giornata dell’8 settembre.
(4) Si veda in questa giornata del 10 settembre.
(5) Si veda la giornata del 21 settembre.
L’ammiraglio Franco Aliverti ci ha mandato un racconto più ampio di quello pubblicato più sopra sui suoi giorni di guardiamarina dall’8 settembre in poi a bordo dell’incrociatore “Scipione Africano”.
“La sera dell’8 settembre scoppiò l’armistizio. Mentre a terra ci fu una specie di Piedigrotta con spari in aria, a bordo delle navi la cosa si svolse in modo più serio e dignitoso; anche se i marinai, nella loro ingenuità,pensarono che i guai fossero finiti. Venne chiamata subito un’assemblea generale. Nel corso di essa il comandante in seconda Rondina tenne un breve asciutto discorso, facendo meditare sulla sconfitta, sui sacrifici fatti durante la guerra e ricordando i compagni caduti. Allo scioglimento silenzioso dell’assemblea una voce anonima dell’equipaggio gridò “Viva il Re”.
“La vita di bordo riprese subito secondo i ritmi normali: mensa, guardia, etc., ma con una sorta di agitazione e incertezza. Notammo anche che su qualcuna delle unità alla fonda aveva luogo lo spettacolo cinematografico. Verso le undici venimmo chiamati nell’alloggio del Comandante per una riunione ufficiali. Il Comandante Pellegrini ci disse che si presentava la necessità di affondare la nave e che dovevamo prepararci a tale eventualità. In attuazione di questo intendimento incominciammo a sbarcare su alcune bettoline, nel frattempo giunte sottobordo, viveri, vestiario, medicinali e quanto altro necessario per un breve periodo. Passarono così altre due, tre ore di frenetica attività: eravamo tutti stanchissimi.
“Alle due di notte altra riunione ufficiali nell’alloggio del Comandante. Il Comandante ci informò che a seguito di comunicazione pervenuta dall’Autorità centrale (De Courten) sulla situazione in atto, la Marina avrebbe eseguito fedelmente l’ordine del Re di attenersi scrupolosamente alle condizioni dell’armistizio. Cominciò quindi un’altra sarabanda per reimbarcare quello che avevamo sbarcato: attività che terminò quando già albeggiava.
“Alle 4 di mattina (9 settembre) montai di guardia in coperta. Alle 6 il Comandante in 2a m’informò che l’unità doveva prepararsi alla partenza. Vennero dei rimorchiatori che provvidero a toglierci di torno i recinti retali e arrivarono bettoline varie per completare i rifornimenti. Verso le 8 circa il Comandante montò in motoscafo e andò al Comando in Capo, mentre a bordo fervevano i preparativi per la partenza. Verso le 9 e mezza (9 settembre ’43) ritornò il Comandante, che andò subito in plancia e sentimmo battere “posto di manovra”. In pochi minuti avevamo lasciato la boa e dirigevamo per l’uscita dal Mar Grande: non perdemmo nemmeno il tempo per reimbarcare il motoscafo, che fu preso in consegna da un rimorchiatore. Passammo le ostruzioni e dirigemmo lungo la costa salentina: era una splendida giornata di settembre con un mare calmissimo.
“Verso le 13 doppiammo Santa Maria di Leuca e puntammo decisamente verso il nord. Avevamo tutte le quattro caldaie accese e tenevamo i 32-34 nodi. La giornata continuava a mantenersi splendida.
Verso le 15 avvistammo verso levante due motosiluranti tedesche, che scortavano una motozattera; al nostro avvicinarsi fecero saltare in aria la motozattera e si allontanarono verso la linea delle isole. Intanto era arrivata la notizia dell’affondamento della “Roma” e di altri scontri.
“La navigazione continuava tranquilla e i servizi di bordo funzionavano perfettamente. Avvistammo parecchi imbarcazioni, più o meno piccole, provenienti da levante e dirette verso la costa italiana; erano cariche all’inverosimile di personale militare proveniente dalla regione dalmata e cercavano fortunosamente di raggiungere la costa italiana. Al nostro avvicinarsi sventolavano la bandiera nazionale. Verso le 16 venimmo sorvolati da un bombardiere tedesco, che fece un giro attorno a noi: lo seguivamo con tutte le armi puntate e lui pensò bene di andarsene.
“Continuammo a navigare velocemente verso l’Alto Adriatico, verso mezzanotte arrivammo davanti a Pescara. Ci fu un rapido scambio di comunicazioni a lampi con la stazione Segnali del porto.
Rimettemmo in moto verso sud e circa mezz’ora dopo giungemmo davanti a Ortona: altro breve scambio di messaggi con la locale stazione segnali e riprendemmo il moto definitivamente sempre con rotta sud. Verso le cinque del mattino avvistammo di prora una corvetta, che poi riconoscemmo per il “Baionetta”. La superammo rendendo gli onori regolamentari e vedemmo allibiti l’immagine della disfatta. Nel breve spazio poppiero di quella piccola unità, ingombro di attrezzature varie e quasi del tutto occupato dal grosso scaricabombe di profondità, si trovavano seduti su semplici poltroncine in legno e tela Sua Maestà il re, la regina, Badoglio, De Courten e altre persone di altissimo rango.
Lo “Scipione” si dispose di prora, ridusse la velocità per adeguarsi alle possibilità della corvetta e così in linea di fila continuammo la navigazione verso sud.
“Nel primo pomeriggio ci fu uno scambio di messaggi a lampi tra lo “Scipione” e la corvetta. La centrale della Marina, ancora perfettamente funzionante in Roma, passò un messaggio con il quale il maresciallo d’Italia Caviglia chiedeva al re una delega come massima autorità militare per la città di Roma; delega che fu immediatamente concessa con un altro messaggio. Le comunicazioni dovevano essere cifrate con un cifrario segretissimo che solo lo “Scipione” aveva; il traffico doveva quindi passare attraverso di noi.
“Verso le 15 arrivammo davanti a Brindisi; entrammo in quella rada dopo la corvetta; ci mettemmo ambedue all’ancora nell’avamporto nella zona antistante l’aeroporto; noi verso sud e la corvetta vicino ai capannoni. Vedemmo subito avvicinarsi alla Corvetta numerosi motoscafi e osservammo lo sbarco degli Alti Personaggi. Sullo “Scipione” eravamo a posto di combattimento e avevamo cominciato a rifornirci di combustibile da una bettolina, che si era subito affiancata. Naturalmente il governo appena installato a terra, aveva bisogno di tutto e lo “Scipione” cedette una macchina da scrivere, attrezzature varie d’ufficio e anche generi di cambusa.
“Nei giorni successivi vedemmo arrivare il transatlantico “Saturnia” con tutta l’Accademia navale e poi il “Vespucci”, il “Colombo” e altre unità. Il Re venne a visitare la nave; anzi proprio a bordo incise il proclama alla nazione, che poi fu trasmesso da Radio Bari. Ricevemmo anche una visita di Umberto di Savoia.
“Alla fine di settembre lasciammo Brindisi per una sosta di 12 ore a Malta, dove portammo il maresciallo Badoglio per firmare il cosiddetto “lungo armistizio”. Rientrammo poi a Taranto”.