11 giugno
È quasi mezzogiorno. Una ventina di soldati del primo battaglione del reggimento inglese che ha il nome del Duca di Wellington scendono da un mezzo anfibio da sbarco nel porto di Pantelleria. Un porto che non è più un porto. Mezz’ora prima dodici unità della quattordicesima squadra incrociatori della Royal Navy hanno aperto il fuoco simultaneamente contro l’isola e dalle 11.30 alle 11.45 centodue quadrimotori B-17, le così chiamate “fortezze volanti”, hanno scaricato sul porto e sui dintorni del porto sei bombe da mille libbre ciascuno: quasi tre tonnellate di esplosivo in meno di un quarto d’ora. Poi una squadriglia di cacciabombardieri è scesa a bassa quota e ha mitragliato qua e là. A mezzogiorno, dalle navi ferme a sette miglia di distanza l’isola non si vede più; è scomparsa sotto una grande nuvola di fumo, di polvere e di terriccio. Nel porto non c’è più il molo, non ci sono più le banchine; il porto è diventato una larga e lunga spiaggia di sassi, di terra, di macerie.
Pantelleria1 è un’isola di 83 chilometri quadrati, larga otto, lunga un po’ meno di quattordici. Il mare si chiama già Mare d’Africa; il Capo Bon in Tunisia è a 66 chilometri in linea d’aria, più vicino di Capo Granitola in Sicilia, che è a 110. È terra vulcanica2, con poca acqua e qualche pozza salmastra; perciò c’è poca vegetazione, poco bestiame. Dal punto di vista militare è un’isola che è stato facile trasformare in fortezza. Si sono scavate gallerie dentro la roccia; sotto decine di metri di lava ci sono le rimesse degli aerei, i depositi di munizioni, i rifugi per i militari e i civili3.
L’isola ha cominciato ad essere fortificata nel 1936, al tempo della guerra d’Abissinia. Qualcuno l’ha chiamata la “Gibilterra italiana”, in strategico antagonismo con la base inglese di Malta e con quella francese di Biserta in Tunisia. Le artiglierie antinave sono potenti: dodici cannoni Schneider-Ansaldo da 152 millimetri con una gittata di 19 chilometri e tredici da 120, con gittata di 17 chilometri. I cannoni antiaerei, da 76 millimetri, sono 72, e 112 gli altri pezzi. Gli aerei erano 90 fino all’inizio dei bombardamenti, ma poi sono stati trasferiti in Sicilia, a Sciacca. Il personale, meno di 12 mila uomini: 420 ufficiali, 620 sottufficiali, 10.657 uomini di truppa; più una trentina di carabinieri. Ci sono anche 78 tedeschi, specialisti di comunicazioni radio. Fino a un mese fa i tedeschi erano circa seicento, ma sono stati ritirati.
L’Alto Comando angloamericano ha chiamato lo sbarco a Pantelleria operazione “corkscrew”, cioè “cavatappi”. Nel Mediterraneo il canale di Sicilia è una specie di collo di bottiglia e Pantelleria è il tappo. Far saltare il tappo significa avere una via più libera da Gibilterra a Suez; significa difendersi le spalle per l’imminente sbarco in Sicilia. E poi l’attacco e la conquista di una posizione così protetta geologicamente e militarmente può essere anche un buon esperimento, di tattica e di strategia, in vista del grande progetto: l’invasione dell’Europa. Pantelleria è il primo D-day, dodici mesi prima del D-day in Normandia4.
Tutto è cominciato i primi di maggio, mentre stava terminando la campagna d’Africa5. Nella mattinata dell’8 tredici P-38 inglesi hanno bombardato l’aeroporto di Margana e le sue installazioni. Il 13 è la resa a Tunisi delle forze italiane e tedesche, ma già da due giorni quattro incrociatori, otto cacciatorpediniere, una cannoniera e dieci motosiluranti inglesi circondano Pantelleria.
Il 13 sono stati lanciati dei volantini sull’isola: cinque giorni di tregua dai bombardamenti per dar modo ai civili di allontanarsi dalle località di interesse militare. Due giorni dopo, il 15, altri volantini “alla guarnigione e al popolo di Pantelleria da parte del comandante dell’aviazione alleata”. Sono firmati da “Carl Spaatz, liutenant general Usa” e dicono: “Due giorni fa, allo scopo di evitare ulteriori ed inutili perdite di vie, invitai il governatore e comandante delle forze armate italiane ad arrendersi. Contemporaneamente lo avvertii che se l’invito fosse respinto gli attacchi verrebbero ripresi con forza raddoppiata e verrebbero proseguiti fino alla cessazione della resistenza. Poiché questo invito fu respinto, voi avete subìto per altri due giorni i nostri bombardamenti. Oggi ho invitato di nuovo il governatore ad arrendersi. Questo è il mio ULTIMATUM. A meno che egli non l’accetti entro le prossime due ore, darò ordine per la ripresa degli attacchi su una scala sempre più intensa, finché la vostra resistenza sia sopraffatta”.
I manifestini erano scritti anche sul retro: “La decisione di prolungare una resistenza disperata è una decisone presa dai capi fascisti, da quelli stessi che, spinti da un’ambizione personale, hanno mandato alla morte diecine di migliaia di soldati valorosi in Abissinia, in Libia e in Tunisia. Se questa decisione insensata viene mantenuta, le vittime sarete voi e i vostri compagni e le vostre famiglie”.
Le ultime righe dicevano: “Se fra due ore non avremo osservato una croce bianca sul campo di aviazione e una bandiera bianca sul porto, il nostro bombardamento sarà ripreso con potenza maggiore”.
Invece di due ore, ne sono passate sei. Era il tardo pomeriggio. Fino al tramonto il cielo si è riempito di aerei: prima 74 bombardieri, le “fortezze volanti”, poi 101 B-25, poi 52 B-26, poi altri 60 e altri 24 e altri 35: 650 tonnellate di bombe.
L’offensiva aerea è ripresa il 18; solo in quel giorno, fra le 11.40 e le 13.30, trentaquattro bombardieri B-25 e altrettanti B-26 scortati da 91 cacciabombardieri P-38 e P-40 hanno sganciato 97 tonnellate di bombe sulle batterie intorno al porto e sul bacino.
Dal 29, dodici giorni di bombardamento con intensità crescente; a cominciare dal primo giorno: ventiquattro bombardieri B-25 e 19 B-26 insieme a 24 cacciabombardieri P-38 hanno scaricato 79 tonnellate di bombe sul porto e sulla città e una ventina di P-40 hanno colpito le batterie sulla costa meridionale dell’isola. È stata una giornata di fuoco, che è continuata nella notte sul 30; altre 43 tonnellate di esplosivo.
Negli stessi giorni, dal 29 maggio al 3 giugno, si è studiata ad Algeri l’operazione “corkscrew”. Il primo ministro inglese Winston Churchill ha presieduto un gruppo di lavoro di cui facevano parte il capo delle forze alleate nel Mediterraneo Eisenhower e i responsabili delle forze aeree, l’americano generale Tedder, delle forze navali, l’inglese ammiraglio Cunningham, e delle forze terrestri, il generale Alexander, americano (si veda più avanti, nel “Di più”)
Il piano6 è complesso e tiene conto delle difficoltà geologiche dell’isola: le asperità del terreno roccioso, le coste alte e a picco sul mare, l’unico posto di sbarco essendo il porto o quello che resta o resterà del porto. Quindi niente mezzi pesanti di artiglieria; solo una ventina di pezzi leggeri; le ruote non sono adatte per muoversi sulla roccia e sulle macerie. Fanteria, allora; la migliore: la 1a divisione di fanteria inglese; tre brigate, ciascuna con tre battaglioni, ciascuno con tre reggimenti. La “brigata d’assalto” sarà la terza; il primo reparto a toccare terra il 1o battaglione del reggimento “Duke of Wellington”. Artiglieria solo un reggimento, il 2o reggimento reale di artiglieria campale; 24 cannoni su tre batterie. Il giorno fissato per lo sbarco: l’11. Oggi.
Cinque giorni fa tutti i soldati sono stati confinati in accampamenti sparsi in fitti boschi di olivastri nella zona di Tunisi, ma lontano dalla città. Equipaggiamento per lo sbarco: a ciascuno un “mess tin” di 48 ore (cioè una gavetta e il necessario per mangiare per due giorni) e anche una scatola di emergenza per 24 ore; una bottiglia d’acqua, alcune tavolette di sterilizzatore, un tubetto di crema antizanzare, due razioni di rum (una per il consumo in viaggio, una di riserva), un pacchetto di sigarette. Rifornimento sulle navi: riserve generali di cibo e di acqua per quattro pasti giornalieri per una settimana e anche cibo e acqua per 10 mila prigionieri e 15 mila civili.
Ieri la forza di invasione ha cominciato a imbarcarsi nei porti tunisini di Sousse e di Sfax e nel porto maltese della Valletta al comando del maggior generale Clutterbuck. Tre sono le navi trasporto dei mezzi anfibi per la fanteria, quattro le navi specializzate per la difesa contraerea, una nave per il trasporto dei mezzi pesanti, una nave comando, la Tartar, col viceammiraglio McGrigor. Di scorta la 15a squadra incrociatori della Royal Nevy (Aurora, con funzioni di comando, Newfoundland, Penelope, Orion), otto cacciatorpediniere, una cannoniera. Copertura aerea i caccia della Naaf, la Forza aerea dell’Africa nordoccidentale agli ordini del generale Carl Spaatz.
Stamani alle 9.30 la forza da sbarco è arrivata nel posto prefissato, a sette miglia dal porto di Pantelleria. Alle 10.30 la prima ondata dei mezzi anfibi ha cominciato le manovre di avvicinamento, protetti dai mezzi di appoggio e dalle navi di difesa contraerea. Dietro di loro si sta preparando la seconda ondata. Si procede lentamente, in attesa che cessi, alle 11.45, il bombardamento aeronavale. Solo dagli aerei sono state sganciate, in un quarto d’ora, 277 tonnellate di bombe; ieri duemila tonnellate; più di cinquemila tonnellate dall’inizio dei bombardamenti. In media 230 quintali di esplosivo a testa per residente, sia militare (12 mila, circa), sia civile (diecimila).
Per le operazioni di sbarco quello che resta del porto è stato diviso in tre “spiagge”: da destra a sinistra, “green”, “white” e “red”. Sbarcano i primi soldati. Il cielo è coperto, ogni tanto cade una pioggerella leggera sulla nuvola di fumo e di polvere che ancora sale da terra. È mezzogiorno. Tutto intorno c’è un grande silenzio. Poi, per un minuto o due, un fuoco di armi leggere da una grotta un po’ in alto. Poi ancora silenzio. Alle 12.20 è sbarcata anche la 3a brigata di fanteria ed è entrata fra le macerie delle case, mentre sta sbarcando la 2a brigata. Sempre silenzio. Un solo morto, il caporale Sanderson del 2o battaglione del reggimento Sherwood Forresters; ma, sembra, per i calci di un mulo.
Alle 12.45, con lo sbarco ancora in corso, arriva da Malta la spiegazione del silenzio: Pantelleria si è arresa.
Si è arresa quando e come e perché? La storia non è chiara, le informazioni sono diverse e contraddittorie, le fonti imprecise e non tutte affidabili. Secondo alcune fonti la decisione di arrendersi è stata presa dal comandante dell’isola, l’ammiraglio Gino Pavesi, alle 9.30 di stamani, quando le vedette hanno avvistato le navi nemiche all’orizzonte; ma l’ordine di arrendersi non è stato diramato sùbito, in attesa di ricevere istruzioni da Roma. L’autorizzazione di Mussolini è partita alle 10.10 col suggerimento di motivare la fine della resistenza con la mancanza di acqua potabile; Mussolini avrebbe anche elogiato la guarnigione e avrebbe conferito all’ammiraglio Pavesi la croce di cavaliere dell’Ordine militare di Savoia. Il telegramma è tuttavia arrivato all’ammiraglio Pavesi soltanto alle 12.55, perché lo Stato maggiore della marina lo ha letto e riletto e ha tolto dal messaggio l’elogio della guarnigione.
Sembra però che l’ammiraglio Pavesi abbia agito di sua iniziativa. Alle 11 avrebbe trasmesso alle truppe l’ordine di resa e alle 11.25 ne avrebbe dato comunicazione allo Stato maggiore della Marina a Roma, seguita da un altro telegramma alle 12.10. Poco prima di mezzogiorno da una delle navi ancorate al largo si è creduto di vedere una bandiera bianca su un punto elevato dell’isola e dagli aerei è stato segnalato che una croce bianca era apparsa dipinta sulla pista dell’aeroporto.
Alle 12.45 un tenente colonnello americano è incaricato di trattare la resa e scende a riva. Ma sulla riva non c’è nessuno. L’ufficiale si unisce al Comando della 3a brigata e alle 16.50 raggiunge l’aeroporto della Margana. Qui finalmente l’incontro con l’ammiraglio Pavesi. Alle 17.45 la firma dell’atto di resa. Sul cacciatorpediniere Tartar, che si è ancorato nelle acque davanti al porto, il viceammiraglio inglese sir Roderick McGrigor alza la sua bandiera di comando.
Nella relazione del Comando supremo americano7 il generale Arnold, comandante in capo dell’aviazione dell’esercito, scriverà: “Quando sbarcammo ci accorgemmo che una guarnigione animata da un altro spirito avrebbe potuto continuare a combattere. Il numero delle vittime nemiche era stato straordinariamente esiguo. Negli hangars sotterranei, ben poco danneggiato, c’erano degli apparecchi intatti. C’erano ancora acqua e viveri nell’isola. Quello che avevamo distrutto era la volontà di combattere”.
Domani 12 giugno il bollettino 1113 del Quartiere generale delle forze armate, diramato dalla Stefani e pubblicato da tutti i quotidiani italiani, scriverà: “Pantelleria, sottoposta a massicce azioni aere e navali di potenza e frequenza senza precedenti, privata di ogni risorsa idrica per la popolazione civile, è stata ieri costretta a cessare la resistenza”8. Il bollettino non parla dei morti. Dai primi di maggio a ieri sono stati, per fortuna, soltanto 58.
1 Il nome di Pantelleria viene dall’arabo “Bent el-Rhia”, l'”isola del vento”; dall’arabo viene anche il nome degli edifici di pietre con un tetto a volta, i “dammusi”, e così il nome dei cinquanta piccoli crateri vulcanici spenti, le “cuddie”, tra il monte Gibele e la Montagna Grande.
2 Salvo alcune fumarole e qualche sorgente di acqua calda nel mare, l’attività vulcanica nell’isola sembra cessata; l’ultima fu nell’agosto del 1831, quando un’improvvisa eruzione fra Pantelleria e la Sicilia, a 45 chilometri a sudovest di Sciacca, fece emergere un’isola, poco più che un grosso scoglio, subito rivendicata dagli inglesi, che la chiamarono isola di Graham, dai francesi, che la chiamarono isola Julia, e dai Borboni, che le dettero il nome di Ferdinandea, in onore di Ferdinando II, re di Napoli e della Sicilia. Per fortuna l’isola scomparve sott’acqua quattro mesi dopo.
3 Il ricovero scavato accanto all’aeroporto di Margana poteva contenere 60 aerei da caccia Macchi 202 e sei aerosiluranti Savoia Marchetti. Progettista delle fortificazioni più importanti fu l’ingegnere Pier Luigi Nervi, autore, fra l’altro, dello stadio comunale di Firenze (1930-32), del Palazzetto dello sport di Roma (1956-57) e del palazzo dell’Unesco a Parigi.
4 Nel suo libro Crociata in Europa il generale Eisenhower scrive: “Topograficamente Pantelleria presentava ostacoli quasi spaventosi per un assalto. Molti dei nostri comandanti, ufficiali di Stato maggiore ed esperti erano decisamente contrari all’operazione, perché un fallimento avrebbe avuto un effetto scoraggiante sul morale delle truppe da impiegare contro le coste della Sicilia”. Qualcuno sosteneva invece, pensando al progettato sbarco in Normandia, che l’operazione “corkscrew” poteva essere un importante esperimento: quanto un intenso bombardamento aereo e navale può favorire un’invasione di truppe terrestri.
5 Un’ampia descrizione della battaglia di Pantelleria è in un libro che stranamente non si trova nella Biblioteca nazionale di Roma; si trova nella biblioteca dell’Istituto geografico militare di Firenze e in vendita in Internet: Pantelleria 1943. D-day nel Mediterraneo di Marco Belogi.
6 I particolari dell’attacco angloamericano a Pantelleria sono in un documento riservato inglese scritto dal colonnello Liout del 2o reggimento reale di artiglieria e ripreso in un articolo di Orazio Ferrara pubblicato sul sito www.retesicilia.it
7 Ibidem.
8 In un libro uscito nel 1952 (Navi e poltrone, Longanesi) Nicola Trizzino, un ex ufficiale dell’aviazione, ha criticato il comportamento della marina militare italiana durante la guerra e non ha escluso contatti fra gli alti gradi e l’Intelligence britannica. Processato nel 1953 dalla Corte di assise di Milano, fu dichiarato colpevole di vilipendio delle Forze armate dello stato e condannato a otto mesi di reclusione. Un anno più tardi, la Corte di assise di appello lo ha invece assolto perché “il fatto non costituisce reato”, riconoscendogli “né malafede né proposito di vilipendio”, ma solo “un desiderio inappagato di chiarificazione”. Sulla resa di Pantelleria questa è la versione di Trizzino: alle 19 del 10 l’ammiraglio Pavesi radiotelegrafa a Roma per annunziare che non può continuare la resistenza e che è deciso a chiedere la resa; il radiotelegramma viene decifrato dal ministero della marina, con inspiegabile ritardo, alle cinque dell’11; il ministero non sveglia Mussolini e glielo comunica alle 9; quando la risposta arriva a Pantelleria l’ufficiale addetto alla radio neppure lo mostra a Pavesi e di sua iniziativa trasmette a Malta un radiotelegramma per confermare la richiesta di resa che l’ammiraglio ha già avanzato due ore prima. Nel radiotelegramma spedito da Roma si comunicava all’ammiraglio Pavesi il conferimento dell’Ordine militare di Savoia; il provvedimento fu successivamente annullato.
11 giugno – Di più
– Giuseppe Vollono scrive per segnalare che il generale Alexander è indicato come americano; invece no, è inglese. Giustissimo. È una disattenzione dell’autore, che ringrazia e subito qui corregge.
Harold Rupert George Alexander nacque nel 1891 a Tyrone nell’Irlanda del nord. Dopo la conquista della Sicilia ebbe il comando di tutte le forze alleate in Italia fino alla presa di Roma (4 giugno 1944) e oltre; il 13 novembre in una trasmissione della emittente radio “Italia combatte” (la stazione radiofonica attraverso la quale il comando anglo-americano manteneva i contatti con le formazioni del Cln), lanciò l’ordine alle forze partigiane di cessare le operazioni organizzate su vasta scala. Quello che fu chiamato il “proclama Alexander” provocò ampi dissensi tra le formazioni partigiane e sconcerto nei partiti facenti parte del Comitato di liberazione nazionale; molti lo interpretarono infatti come un invito a desistere. Forse per la preoccupazione della prevalenza del partito comunista nella lotta partigiana?
Ecco il testo del proclama ai “patrioti” (gli angloamericani usavano la parola “patriota” al posto di “partigiano”):
“Patrioti! La campagna estiva, iniziata l’11 maggio e condotta senza interruzione fin dopo lo sfondamento della linea gotica, è finita: inizia ora la campagna invernale. In relazione all’avanzata alleata, nel periodo trascorso, era richiesta una concomitante azione dei patrioti: ora le piogge e il fango non possono non rallentare l’avanzata alleata, e i patrioti devono cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l’inverno. Questo sarà molto duro per i patrioti, a causa della difficoltà di rifornimenti di viveri e di indumenti: le notti in cui si potrà volare saranno poche nel prossimo periodo, e ciò limiterà pure la possibilità di lanci; gli alleati però faranno il possibile per effettuare i rifornimenti.
“In considerazione di quanto sopra esposto, il generale Alexander ordina le istruzioni ai patrioti come segue: 1. cessare le operazioni organizzate su larga scala; 2. conservare le munizioni ed i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini; 3. attendere nuove istruzioni che verranno date a mezzo radio “Italia Combatte” o con mezzi speciali o con manifestini. Sarà cosa saggia non esporsi in azioni arrischiate; la parola d’ordine è: stare in guardia, stare in difesa; 4. approfittare però ugualmente delle occasioni favorevoli per attaccare i tedeschi e i fascisti; 5. continuare nella raccolta delle notizie di carattere militare concernenti il nemico; studiarne le intenzioni, gli spostamenti, e comunicare tutto a chi di dovere; 6. le predette disposizioni possono venire annullate da ordini di azioni particolari; 7. poiché nuovi fattori potrebbero intervenire a mutare il corso della campagna invernale (spontanea ritirata tedesca per influenza di altri fronti), i patrioti siano preparati e pronti per la prossima avanzata; 8. il generale Alexander prega i capi delle formazioni di portare ai propri uomini le sue congratulazioni e l’espressione della sua profonda stima per la collaborazione offerta alle truppe da lui comandate durante la scorsa campagna estiva”.
Il generale Alexander fu poi sostituito in Italia dal generale americano Mark Wayne Clark (che instaurò rapporti più duttili di collaborazione con le forze antifasciste del Cln) e fu nominato maresciallo e comandante supremo delle Forze alleate nel Mediterraneo.
Dopo la guerra fu governatore generale del Canada e poi ministro della difesa dal 1952 al 1954. Fu nominato visconte e poi conte col titolo di “Alexander of Tunis”.
– Marco Pavesi, nipote dell’ammiraglio Gino Pavesi, ha inviato la seguente “precisazione” sulla base dei documenti a lui lasciati dal padre Carlo Alberto, anche lui ufficiale della regia marina: “Mussolini e il Comandante di Pantelleria ben conoscevano la reale situazione dell’isola e specialmente che il motivo maggiore di preoccupazione non era la mancanza di acqua bensì il fatto che per distribuirla ai 10.000 abitanti e ai 12.000 soldati della guarnigione non erano disponibili che 4 (quattro!) autobotti che dovevano rifornirsi da 3 pozzi dislocati in parti diverse. Di queste quattro, una era stata danneggiata durante i bombardamenti dei sei giorni precedenti la resa che avevano riversato sull’isola 6.500 tonnellate di bombe (alcuni siti inglesi riportano il fatto definendolo “uno dei più massicci bombardamenti dall’inizio del conflitto”). Sulla base di questo elemento, i consiglieri militari del Duce dedussero che, comunque, la guarnigione avrebbe potuto resistere al massimo per una settimana. L’amm. Pavesi, pensando di evitare perdite inutili nei sette giorni di “sopravvivenza” preventivati, si fece carico del non facile compito di dichiarare la resa.E per questo motivo un onesto ufficiale che aveva difeso la sua nazione in due conflitti mondiali e che due anni prima era stato affondato da un sommergibile inglese, dovette passare il resto della sua vita a difendersi dalle accuse di viltà e tradimento innescate da Antonio Trizzino”.