12 settembre
– Aggiornamento del 05.11.13 –
Stamani presto il Gran Sasso era coperto da un ammasso di nuvole, poi il sole le ha cacciate e tutto il cielo – scriverà Mussolini1 – è apparso “luminoso nella chiarità settembrina”. Fa freddo, però. Campo Imperatore è a 2126 metri d’altezza. Nella camera 201 (oggi 220) al secondo piano dell’albergo che ha lo stesso nome, Campo Imperatore, Benito Mussolini crede di sentire, intorno a mezzogiorno, il rumore di un aereo; come ieri; ieri l’aereo è sceso in picchiata fino a bassa quota e poi se ne è andato.
Mussolini ha i polsi fasciati. Stamani alle 3 si è ferito con una lametta di rasoio. Voleva suicidarsi? Chissà. Il maresciallo Osvaldo Antichi, uno degli addetti alla sua sicurezza, si accorge di qualcosa e entra nella stanza: “Lo trovai seduto sulla sponda del letto con le braccia abbandonate” racconterà anni dopo2. “Dai polsi gli scendeva un rigagnolo di sangue. Sul comodino una lametta da barba. Con dello spago gli legai strettissimi gli avambracci per bloccare l’emorragia. Faiola3 corse con la cassetta di pronto soccorso; poi con una garza gli medicammo le ferite”.
L’appartamento dove è tenuto Mussolini è fatto di un salottino e di una camera da letto, un bagno e un’anticamera. Nel salottino Mussolini prende i pasti (riso in bianco, uova poca carne, molta frutta); la mattina e nel pomeriggio scende nella sala da pranzo dell’albergo e a volte esce per una breve passeggiata accompagnato dal maresciallo Antichi. La sera dopo cena (alle 19) scende ancora nella sala da pranzo e gioca a scopone con l’ispettore generale Gueli, il tenente Faiola e il maresciallo Antichi4.
L’albergo di Campo Imperatore dove Mussolini è rimasto prigioniero dal 2 al 12 settembre.
L’albergo è una grande e tetra costruzione in cemento armato, finita nel 1934 in quello stile che viene chiamato littorio; ha una pianta rettangolare, a tre piani, con un avancorpo semicircolare che guarda verso la valle; le pareti sono di colore rosso mattone; è su un pianoro al termine della vasta conca che sale con leggero pendio per una quindicina di chilometri ed è larga cinque sotto il massiccio del Gran Sasso. A nord e a ovest si affaccia su un dirupo che guarda l’Aquila e, sotto, Assergi (in futuro, Assergi sarà uno svincolo, dopo l’Aquila, dell’autostrada A24 Roma-Teramo). Da Assergi parte una strada che arriva a Campo Imperatore dopo una ventina di chilometri. Sopra Assergi, a Fonte Cerreto, c’è la stazione di partenza di una teleferica per passeggeri (il termine “funivia” non è ancora in uso) che porta all’albergo, unito alla stazione d’arrivo da una galleria sotterranea.
A Campo Imperatore Mussolini è arrivato dieci giorni fa, il 2. Dalla Maddalena è partito il 28 agosto con un idrovolante che lo aspettava da due o tre giorni nella baia di Palau e che lo ha portato sul lago di Bracciano, a Vigna di Valle, dove c’è da anni un idroscalo, sulla sponda meridionale. Da qui, nascosto in una autoambulanza militare, è stato trasportato a Fonte Cerreto, un trentina di chilometri dopo l’Aquila sulla strada che porta al passo delle Capannelle; è accompagnato dall’ispettore generale di polizia Giuseppe Gueli5, che ha preso il posto dell’ispettore generale Saverio Pòlito, rimasto gravemente ferito il 16 agosto in un incidente automobilistico, e dal tenente dei carabinieri Alberto Faiola. A Fonte Cerreto, in attesa di salire a Campo Imperatore, è rimasto per cinque notti in una villa di proprietà della contessa Rosa Mascitelli. La villa, che in futuro sarà ampliata e trasformata in albergo, è in quest’anno 1943 l’unica costruzione vicino alla stazione di partenza della teleferica-funivia6.
Per Mussolini la mattinata è stata inquieta. Non ha voluto giocare a carte, come ieri, col maresciallo Antichi. Non ha detto una parola alla bionda Lisetta, Elisa Moscardi, trent’anni, che è la guardarobiera dell’albergo ed è stata incaricata di mettersi al servizio dell’ospite. A mezzogiorno e mezzo è sceso in sala da pranzo e non ha toccato cibo, nonostante le attenzioni di Domenico Antonelli, che, istruttore di sci di Campo Imperatore, ha assunto in questi giorni, in assenza del titolare, le funzioni di direttore dell’albergo.
Sono quei rumori di aerei che turbano Mussolini. Sono aerei tedeschi o inglesi? Ne ha parlato col tenente Faiola, che comanda i reparti di sicurezza e col quale è nata una certa confidenza. Non sopporta la possibilità – racconterà Faiola – di essere fatto prigioniero dagli inglesi7. Meglio la morte, piuttosto di questa che considera una “grave onta”. Faiola dirà anche che Mussolini gli ha chiesto una pistola; al posto, forse, della lametta di rasoio della notte scorsa, con la quale si è fatto soltanto due ferite superficiali. Faiola lo rassicura: caso mai – dice – fuggiremo insieme attraverso le montagne. E se invece arrivassero i tedeschi a liberarlo?
La storia della liberazione di Mussolini è cominciata il giorno dopo il suo arresto, il 26 luglio. Nel Quartier generale di Rastenburg (oggi Ketrzyn), la cosiddetta “tana del lupo” nella foresta di Goerlitz nella Prussia orientale, Hitler ha dato ordine di avviare lo studio e la preparazione di quattro operazioni: la prima, chiamata “Schwarz” (“nero”, in tedesco), deve assicurare l’occupazione dell’Italia e il disarmo delle forze armate italiane. La seconda, chiamata “Achse” (“asse”), per catturare o distruggere la flotta italiana. La terza, chiamata “Alarich” (“Alarico”), per l’occupazione militare di Roma. La quarta, chiamata “Eiche” (“quercia”), è la liberazione di Mussolini.
In attesa della prevedibile richiesta di armistizio da parte del governo italiano agli angolamericani, la quarta operazione ha la precedenza. Il 29 luglio Hitler ha chiamato a Rastenburg il comandante di una speciale unità delle SS, il capitano Otto Skorzeny8, e gli ha affidato il compito di scoprire dove è tenuto prigioniero Mussolini. Il generale Kurt Student, comandante dei reparti paracadutisti della zona di Roma, avrà la responsabilità generale dell’operazione. È Skorzeny che scopre la presenza di Mussolini nell’isola della Maddalena (lo abbiamo visto il giorno 25 agosto prima su un dragamine davanti alla villa Webber, poi su un aereo, poi in acqua) ed è Skorzeny che riesce a sapere che dalla Maddalena Mussolini è stato trasferito sul Gran Sasso.
Sulla liberazione di Mussolini verranno scritte decine di cronache più o meno fantasiose; la più fantasiosa è proprio quella di Skorzeny, che sarà smentito addirittura dal suo capo, il generale Student9. Perciò la cosa più seria è limitarsi alla cronaca dei pochi fatti certi, documentati o documentabili; tutto il resto sarà messo in nota, insieme a qualche riflessione sui fatti. Cominciamo dalla notte.
Ore 03.00. Da Mondragone, a sud di Gaeta, si muove un reparto motorizzato tedesco, diretto a Fonte Cerreto, dove è la stazione di partenza della funivia del Gran Sasso. È comandato dal maggiore Harald Mors, un ufficiale di origine svizzera.
Ore 06.00. L’ispettore generale di polizia Fernando Soleti10 è prelevato al ministero degli interni a Roma, ormai in mano tedesca, e portato all’aeroporto di Pratica di Mare, tra Pomezia e Tor Vaianica. Il generale Student gli chiede, a nome di Hitler, di partecipare alla liberazione di Mussolini, per evitare – dice – inutili spargimenti di sangue.
Ore 10.00. All’aeroporto di Pratica di Mare si apprestano al decollo dodici biplani Henschel 230 e dodici alianti DFS 250. Gli alianti sono leggerissimi: uno scheletro di tubi di acciaio e una copertura di tela pesante; sono biposto.
Ore 11.00. Il prefetto dell’Aquila, Rodolfo Biancorosso, telefona a Campo Imperatore all’ispettore generale Gueli (che veste in borghese e qualcuno lo chiama commendatore; ma è l’ufficiale più alto di grado ed è lui il responsabile della “custodia” di Mussolini); deve vederlo per una comunicazione importante.
Ore 11.30. Alla stazione di partenza della funivia, a Fonte Cerreto, il prefetto Biancorosso avverte Gueli che è probabile un attacco tedesco all’albergo; forse sarebbe bene portare altrove Mussolini. Gueli risponde che non è necessario. La scorta – dice – è sufficiente. Come dirà un rapporto del Comando generale dei carabinieri redatto nel 1945, la scorta è composta da 43 carabinieri e 30 guardie di pubblica sicurezza con due mitragliatrici e due fucili mitragliatori oltre a un gruppo cinofilo con sei cani lupo.
Ore 12.10. L’aeroporto di Pratica di Mare è bombardato da aerei alleati. Danni a una pista di decollo, ma non agli aerei.
Ore 13.00. Decollo dei dodici alianti, al comando del tenente Eilmar Meyer-Wener, trascinati dai dodici aerei Henschel 230 al comando del tenente Johannes Heidenreich. Su uno degli alianti dove sono Meyer e Skorzeny, è costretto con la forza a salire, riluttante, il generale Soleti. Tre alianti si staccano subito dopo il decollo e riatterrano. Sono nove i biplani Henschel che partono e nove gli alianti.
Ore 13.30. Il prefetto dell’Aquila telefona al generale Gueli e gli legge un telegramma che ha ricevuto dal capo della polizia Carmine Senise: “Raccomandare ispettore generale Gueli massima prudenza”. Gueli chiama il tenente Faiola e il maresciallo Antichi: “Il telegramma significa che bisogna evitare ogni spargimento di sangue”11. Poi Gueli si ritira a riposare nella sua camera. L’attacco – dice – sarà domani mattina.
Ore 13.45. Il reparto motorizzato al comando del maggiore Mors arriva a Fonte Cerreto e occupa la stazione di partenza della funivia. Nell’attacco muore un carabiniere, Giovanni Natali, ed è ferito Pasqualino di Tocco, una guardia forestale; morirà all’ospedale civile dell’Aquila.
Ore 14.00 Il maresciallo Antichi riconduce Mussolini nel suo appartamento e insieme si affacciano alla finestra. Si è di nuovo sentito un rumore di aerei. I nove Henschel hanno sganciato gli alianti, che scendono sul pianoro. Un aliante perde direzione e si schianta su una roccia a trecento metri di distanza. Gli altri otto alianti si fermano davanti all’albergo. Mussolini scriverà12: “Un aliante si posò a cento metri di distanza dall’edificio. Ne uscirono quattro o cinque uomini in kaki13, i quali postarono rapidamente due mitragliatrici e poi avanzarono. Dopo pochi secondi altri alianti atterrarono nelle immediate vicinanze e gli uomini ripeterono la stessa manovra”.
Il pianoro di Campo Imperatore, davanti all’albergo, dove sono scesi gli alianti tedeschi
Ore 14.05. Da un aliante è sceso Skorzeny che sospinge avanti l’ostaggio, il generale Soleti. “Non sparate, non sparate” grida il generale. Dalla finestra della sua camera si affaccia il generale Gueli (in mutande, secondo qualcuno). Al tenente Faiola, che sta sotto, ordina: “Cedete senz’altro”. Il tenente Faiola ordina ai carabinieri di non sparare.
Ore 14.10. Skorzeny è il primo a entrare nell’albergo e il primo a entrare nella camera di Mussolini. Lo conferma Domenico Antonelli14, l’istruttore di sci e facente funzione di direttore dell’albergo. Antonelli segue di corsa Skorzeny fino in camera e sente Skorzeny che dice qualcosa in tedesco a Mussolini, ma non capisce; lui il tedesco non lo sa15.
Ore 14.15. La camera di Mussolini si riempie di gente. Saranno molti a raccontare quello che succede; ma è impossibile capire chi dice il vero e chi no: che Mussolini rimane seduto sul letto; che ha la barba lunga di tre giorni e un’espressione stralunata; che dice qualche parola in italiano e qualche parola in tedesco; che tutti si agitano senza far niente; che girano anche bicchieri di vino; e che fuori i militari italiani battono manate sulle spalle dei tedeschi e alcuni gettano allegramente i fucili nel dirupo. L’unica cosa certa è che dentro e fuori c’è una generale aria di distensione, di rilassamento, forse di contentezza, come se tutti – quali che siano le loro idee – si siano liberati di un grosso peso sullo stomaco.
Campo Imperatore. Mussolini verso l’aereo “Cicogna” che lo porterà via dal Gran Sasso
Ore 14.17. Da Fonte Cerreto il maggiore Mors chiama Campo Imperatore: “Il prigioniero è vivo o morto?”. “Vivo”. “Resistenza?”. “Nessuna”. “Perdite?”. “Un aliante distrutto. Due feriti”. Il maggiore Mors prende la funivia per salire a Campo Imperatore.
Ore 14.20. Un aereo Fieseler 156 (questi aerei sono indicati come Storch; in tedesco “storch” significa “cicogna”; e così vengono chiamati in Italia) sta atterrando sul pianoro davanti all’albergo di Campo Imperatore. Le Cicogne sono stati progettati come aerei di salvataggio e collegamento per l’esercito; sono fatti per decollare in spazi ristretti: possono sollevarsi in volo in soli 60 metri e atterrare in 20. L’aereo è pilotato dal capitano Heidrich Gerlach .
Ore 14.30. Il maggiore Mors sale in funivia a Campo Imperatore, entra nell’albergo e si presenta a Mussolini come – racconterà lui stesso – “il comandante responsabile delle truppe impegnate nell’azione”.
Ore 15.00. Mussolini esce dall’albergo, mentre parecchi militari tedeschi e italiani tolgono i molti massi che si trovano sul prato davanti alla “Cicogna” del capitano Gerlach. Mussolini ha un lungo cappotto nero col bavero alzato (se l’era dimenticato in camera e Lisetta glielo ha portato rincorrendolo per le scale) e un cappello di feltro anch’esso nero con la falda calata sugli occhi. Il maggiore Mors gli presenta il capitano Gerlach che con la sua Cicogna lo porterà a Pratica di Mare. Mussolini – dirà poi Gerlach – non sembra entusiasta dell’idea; preferirebbe scendere in funivia. E poi vorrebbe andare a casa, alla Rocca delle Caminate (è sempre Gerlach che lo racconta).
Ore 15.15. Tenuto sottobraccio, Mussolini è condotto all’aereo, issato a bordo quasi di peso. Skorzeny chiede con forza di salire anche lui. Gerlach si rifiuta; i posti sull’aereo sono soltanto due e il decollaggio da una pista che non c’è è già molto difficile anche con un carico normale; e poi Skorzeny è grande e grosso (pesa quasi cento chili, sostiene qualcuno). Skorzeny insiste con durezza e tira fuori il nome di Hitler. Gerlach subisce. Skorzeny si arrampica dietro Mussolini quasi a cavalcioni, con tutto il busto fuori della carlinga.
Ore 15.20. Gerlach accende il motore. Una decina di militari trattengono la Cicogna per la coda e per le ali. Gerlach accelera il motore al massimo e poi fa un gesto. I militari mollano la presa e l’aereo parte rullando e saltando sulle piccole rocce del prato; dopo una ventina di metri il prato finisce e c’è il dirupo verso la valle. L’aereo vola orizzontale per un poco e poi precipita nel vuoto. Tutti corrono a vedere sull’orlo del dirupo: in basso, l’aereo riprende quota e si dirige a est in direzione del mare.
Ore 15.30. Il maggiore Mors si mette in contatto col generale Student e Student col Quartier generale di Hitler: “Ordine eseguito”. Sicuramente l’ordine è stato eseguito nel migliore dei modi: da una parte c’erano un’ottantina fra carabinieri e poliziotti; dall’altra parte (errore dell’autore; si veda più sotto) 15 paracadutisti tedeschi (otto alianti biposto; sedici a bordo, compreso Skorzeny, meno l’ispettore generale italiano Soleti); poi, ma a cose fatte, sono arrivati il maggiore Mors e i suoi. “Ordine eseguito” in 85 minuti e senza un colpo di fucile.
Ore 17.00. La Cicogna di Gerlach scende sull’aeroporto di Pratica di Mare. Nel decollo da Campo Imperatore il carrello è rimasto danneggiato e l’aereo prende contatto con la terra saltellando e appoggiandosi alternativamente sulla ruota sinistra e sullo sperone di coda. Finalmente si ferma. Heidrich Gerlach non è, come qualcuno sostiene, il pilota personale di Hitler; ma è egualmente un eccellente pilota.
Ore 21.00. La Stefani trasmette, con l’avvertimento “urgente”, un “comunicato straordinario” del Deutsches Nachrichten Bureau. È domenica e da stamani l’agenzia non ha avuto molte notizie da dare ai giornali: in Vaticano c’è “calma e serenità” e la basilica è stata riaperta al culto (ma ai posti di guardia “prestano servizio gendarmi con moschetto”); il solito bollettino di guerra tedesco parla di “forti resistenze presso Taranto contro le forze nemiche sbarcate” (ma il porto di Taranto è stato già occupato e la Stefani ne ha dato notizia già ieri, riprendendola da radio Algeri). Il comunicato del Dnb dice: “Dal Quartier generale del Führer. Reparti di paracadutisti e di truppe di sicurezza germanici, unitamente a elementi di SS, hanno oggi condotto a termine una operazione per liberare il Duce, che era tenuto prigioniero dalla cricca dei traditori. L’impresa è riuscita. Il Duce si trova in libertà. In tal modo è sventata la sua progettata consegna agli angloamericani da parte del governo Badoglio”.
L’assalto all’albergo di Campo Imperatore (a sinistra, col ritratto di Skorzeny) e il decollo dall’altopiano del Gran Sasso dell’aereo con Mussolini in due disegni del settimanale tedesco “Signal”, che le autorità tedesche stampano in versione italiana.
1 In Storia di un anno, già citata.
2 La testimonianza è in Arrigo Petacco e Sergio Zavoli, Dal Gran Consiglio al Gran Sasso, Rizzoli, 1973
3 Sembra che il tenente Faiola fosse il comandante della stazione dei carabinieri di Bracciano.
4 Queste informazioni sono della segretaria dell’albergo, Flavia Mignalelli, in un appunto consegnato al Comando generale dei carabinieri e da questo riportate in un rapporto inviato nel gennaio del 1945 all’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo. Ne parla ampiamente Renzo De Felice nel suo Mussolini l’alleato; la guerra civile. Flavia Mignanelli è uno strano personaggio; parla correntemente tedesco e in tedesco telefona spesso dall’albergo senza che nessuno intervenga; più di una volta è scesa all’Aquila e l’11 è partita con due valige, senza farsi più vedere.
5 Le benemerenze di Giuseppe Gueli cominciano nel 1932 in Sicilia, dove dal Tribunale speciale era incaricato delle indagini politiche. Dopo la costituzione della Repubblica Sociale fu messo a capo, a Trieste, dell’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia col compito di repressione delle attività partigiane e di controllo degli operai nelle fabbriche. La sede era in via Bellosguardo in una della tante “ville tristi” nate in quei tempi.
6 Mussolini è stato portato via dalla Maddalena, il 28, perché si temeva, giustamente, un blitz dei tedeschi inteso a liberarlo. Si è pensato di trasferirlo a Campo Imperatore sul Gran Sasso perché lì (un “nido d’aquila”, è stato chiamato) sembra più facile difendersi da possibili interventi via terra (la funivia può essere bloccata; la strada è lunga 21 chilometri e gli ultimi dieci sono in terreno aperto e quindi, dall’alto, ben visibili a distanza; a piedi – 1200 metri di dislivello – non bastano due ore e mezzo di ripida salita). A Campo Imperatore Mussolini è arrivato il 2 (Pierre Milza dice il 6); Maria Giacobbe, 80 anni, abitante ad Assergi, interpellata dall’autore di questo libro il 29 novembre 2006, ricorda “quattro o cinque giorni”. Di queste cinque notti passate a Fonte Cerreto, dal 28 agosto al 2 settembre, nessuno storico ha parlato, salvo qualche accenno (una “sosta”). Come si spiega questa lunga permanenza in una casa privata, in uso ma disabitata (la contessa Mascitelli vive a Roma), così facilmente raggiungibile dall’Aquila e così poco facilmente difendibile? È una delle molte cose strane di questa storia del Gran Sasso.
La villa Mascitelli a Fonte Cerreto ai piedi del Gran Sasso, dove Mussolini è rimasto cinque giorni prima di essere portato in funivia a Campo Imperatore. Perché questa sosta?
7 Mussolini era venuto a conoscenza o no del testo del cosiddetto “armistizio lungo”? Faiola dice di sì, la sera del 10, ascoltando la radio. L’articolo 29 del documento stabiliva: “Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospettate di avere commesso delitti di guerra… saranno immediatamente arrestati e consegnati alle forze delle Nazioni Unite”.
8 Otto Skorzeny è nato a Vienna nel 1908 e si è subito distinto per una quindicina di duelli alla sciabola in campo universitario, tutti originati da motivi politici. Ha aderito nel 1930 al partito nazista austriaco ed ha favorito l’unione dell’Austria alla Germania (l’Anschluss, del 1938). Nell’esercito ha combattuto su vari fronti e nel 1943 è stato incaricato di organizzare una unità speciale (“Friedenthaler Jagdverbände”) sul modello dei commandos inglesi. Catturato nel 1945 dagli americani, fu successivamente assolto per crimini di guerra. Nel 1948 si è trasferito in Spagna alla corte di Francisco Franco. È morto a Madrid nel 1975.
9 Il 15 settembre la Stefani trasmetterà una lunga nota dell’agenzia tedesca Dnb in cui, anche con particolari inventati, tutto il merito dell’impresa viene attribuito all’hauptsturmführer Skorzeny e nessun accenno è fatto agli altri protagonisti. Un esempio: “Alle ore 14 l’hauptsturmführer raggiungeva per primo il massiccio con un gruppo di soli nove uomini dopo che il suo aeroplano ebbe realizzato un volo in picchiata da un’altezza di 4500 metri fino ad appena alcune centinaia di metri al di sopra del punto designato”. Di questa storia il generale Student si rammarica a tal punto che andrà a Berlino a protestare con Göring, che è il comandante dell’aviazione tedesca. Göring gli risponderà che non c’è niente da fare: la nota ufficiale su come si è svolta la liberazione di Mussolini è stata approvata da Hitler; questa è la “verità” e come tale passerà alla storia per parecchi anni. Anche il maggiore Mors protesta; secondo lui, Skorzeny era un uomo di Heinrich Himmler, il capo delle “Schutz-Staffeln” (letteralmente “pattuglie di protezione”), cioè le SS, il corpo paramilitare che era diventato una specie di stato dentro lo stato. L’episodio rientra, secondo alcuni, nel conflitto che esisteva da tempo tra la Wehrmacht, cioè l’esercito della Germania nazista, e le SS. Il capitano Skorzeny fu comunque promosso maggiore (“SS-Sturmbannführer”) e decorato con la croce di cavaliere.
La foto ufficiale fatta a Campo Imperatore e distribuita dalle autorità militari tedesche mostra Benito Mussolini insieme a quello che viene indicato come il suo “liberatore”, cioè il capitano delle “SS” Otto Skorzeny.
10 Del generale di polizia Soleti si sa solo che aderì poi alla Repubblica Sociale.
11 Secondo quello che il capo della polizia Senise scriverà nel suo libro di memorie (Quando ero capo della polizia, 1940-43, Ruffolo, 1946), Badoglio aveva deciso di sopprimere Mussolini piuttosto che farlo cadere nelle mani dei tedeschi; a Campo Imperatore sarebbe stato l’ispettore Gueli, “con un semplice cenno del capo”, a ordinarne l’esecuzione. Qualcosa di nuovo è evidentemente accaduto l’8 settembre o subito dopo l’8 settembre. Nel suo rapporto presentato il 4 giugno del 1945 all’ufficio inchieste del Comando generale dei carabinieri il tenente Faiola scriverà di avere chiesto a Gueli, dopo la liberazione di Mussolini, il senso del telegramma lettogli dal prefetto dell’Aquila; Gueli gli rispose che “agire con molta prudenza” significava che, “per convenzione concordata precedentemente con il Capo della polizia”, “gli ordini erano stati cambiati e Mussolini doveva essere consegnato”. Quello che si può supporre ma non si sa è il motivo del cambiamento degli ordini. Una spiegazione può essere suggerita dalla risposta di Badoglio alla duchessa di Bovino nel castello di Crecchio (si veda la giornata del 10 settembre). La duchessa: “E di Sua Eccellenza Mussolini che ne succederà?”. E Badoglio: “Forse i suoi lo libereranno”. Così è nata la supposizione che la consegna di Mussolini ai tedeschi sia stata la moneta di scambio o una delle monete di scambio per ottenere il via libera al trasferimento del re nel sud dell’Italia, da Ortona a Brindisi.
12 In Storia di un anno, già citata.
13 Mussolini conferma così che i cosiddetti testi oculari sono spesso inattendibili, anche se in buona fede. Gli alianti DFS 250 avevano solo due posti (in genere un aliante ha un solo posto) e quindi è impossibile che da uno di quegli alianti scendessero quattro o cinque uomini (errore dell’autore; si veda più sotto).
14 Domenico Antonelli, che era reduce dal fronte greco e decorato e poi congedato per ferite in combattimento, lo ha raccontato in un convegno patrocinato dall’Azienda di soggiorno dell’Aquila e svoltosi a Campo Imperatore il 12 settembre 1993; relatori Sergio Zavoli, Arrigo Petacco, Antonio Spinosa.
15 Skorzeny racconta di aver detto: “Il Führer mi ha inviato per liberarvi. Voi siete sotto la mia protezione. Spero che tutto sia riuscito”. E Mussolini risponde: “Io avevo ben presentito e mai dubitato che il Führer avrebbe fatto di tutto per liberarmi”. Ancora meno credibile è il racconto di Mussolini: Skorzeny: “Il Fuhrer, che dopo la vostra cattura ha pensato per notti e notti al modo di liberarvi, mi ha dato questo incarico. Io ho seguito con infinite difficoltà, giorno per giorno, le vostre vicende e le vostre peregrinazioni. Oggi ho la grande gioia, liberandovi, di avere assolto nel modo migliore il compito che mi fu assegnato”. E lui: “Sapevo che il mio amico Adolfo Hitler non mi avrebbe abbandonato”.
12 settembre – Di più
– (riferimento alla nota 5) Giuseppe Gueli, l’ispettore generale di polizia cui fu affidata la responsabilità della detenzione di Mussolini sul Gran Sasso e che decise, per l’ordine venutogli da Roma (“agire con prudenza”), di non contrastare la sua liberazione da parte dei tedeschi, è un personaggio rimasto a lungo misterioso. Solo Ruggero Zangrandi (in 1943: 25 luglio – 8 settembre) dice che le sue benemerenze erano cominciate nel 1932 quando svolse una delicata indagine in Sicilia che si concluse con la denunzia di alcune centinaia di antifascisti e con lo strangolamento nel carcere di Trapani di due comunisti (uno dei due si chiamava Spina). Zangrandi scrive anche che nel 1942-1943 il Gueli istituì a Trieste un ufficio per la repressione dell’attività partigiana jugoslava in Venezia Giulia che continuò la sua attività anche dopo il 25 luglio.
Da Trieste il generale Gueli fu evidentemente richiamato a Roma e il 28 agosto all’idroscalo di Vigna di Valle si unì al tenente dei carabinieri Alberto Faiola per accompagnare Mussolini prima a Fonte Cerreto e poi a Campo Imperatore. Prese il posto – è stato detto – del generale Saverio Polito, rimasto ferito due settimane prima in un incidente automobilistico. La scelta fu ispirata soltanto da considerazioni di carattere tecnico? I precedenti professionali del generale non erano conosciuti oppure valevano come titoli di merito?
Sull’impiego del Gueli prima e dopo la vicenda del Gran Sasso si trovano molte informazioni in Lager italiani – Pulizia etnica e campo di concentramento fascisti per civili italiani 1941-1943 di Alessandra Kersevan (Nutrimenti editore, 2008).
All’inizio del 1943 Giuseppe Gueli era stato messo a capo dell’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia e già il 10 maggio poteva vantarsi dei risultati del suo lavoro inviando al Capo della polizia un promemoria in cui si diceva: “Le uccisioni in conflitto, il numero dei ribelli catturati, il numero dei ribelli costituitisi alle nostre Autorità, il numero degli individui denunziati al Tribunale speciale per la sicurezza dello stato sono l’indice esatto della situazione profondamente mutata” (il documento è nell’Archivio centrale dello stato di Roma).
Dopo la liberazione di Mussolini sul Gran Sasso il generale Gueli ritornò a Trieste (a Campo Imperatore era chiamato “commendatore; a Trieste “grande ufficiale”; era stato promosso?) e riprese il suo posto a capo dell’Ispettorato, che il 1o ottobre passò alle dipendenze delle SS nell’ambito dell'”Adriatische Küstenland” (“Litorale adriatico”; si veda la giornata del 16 settembre), cioè delle zone (Venezia Giulia e Dalmazia) annesse alla Germania. Alle sue dipendenze, come comandante della sezione operativa, era il commissario Gaetano Collotti. La “banda Collotti” diventò famosa a Trieste e nella Venezia Giulia non solo per la repressione antipartigiana ma anche per la cattura degli ebrei.
– (ancora su Giuseppe Gueli e sulla decisione di non contrastare l’operazione tedesca per liberare Mussolini sul Gran Sasso; si veda la nota 11). Fino a tutto il giorno 11 l’ordine era di uccidere Mussolini piuttosto che lasciarlo libero in mano tedesca. La mattina del 12 Giuseppe Gueli interpretò come un cambiamento dell’ordine l’invito alla “massima prudenza” datogli dal capo della polizia Carmine Senise attraverso un telegramma del prefetto dell’Aquila. È giusto riportare anche quello che ha scritto Senise nel suo Quando ero capo della polizia (Roma, 1944): “Se Mussolini fosse stato soppresso, era prevedibile lo scatenarsi della terribile ira teutonica… Camuffando, come al solito, la vendetta per giustizia, i tedeschi avrebbero prima massacrato guardie e carabinieri sul posto del dovere e si sarebbero poi abbandonati a distruzioni e saccheggi. E forse la morte di Mussolini avrebbe impedito la risurrezione di un governo fascista? Né va dimenticato che erano assai vive in quel momento le ostilità contro il governo pel modo come aveva condotto l’armistizio…, sicché di Mussolini ucciso i malcontenti avrebbero fatto una vittima del governo e della polizia… Se invece Mussolini fosse stato consegnato vivo, i tedeschi lo avrebbero indubbiamente rimesso al potere con la forza delle armi. Ma quale distruzione morale per lui! Quale castigo pel suo folle orgoglio diventare schiavo di un alleato… al quale avrebbe dovuto fare olocausto della sua ultima dignità!”.
A parte la debolezza delle argomentazioni, è difficile supporre che il capo della polizia abbia preso una decisione di tanta gravità senza consultarsi col capo del governo.
– Un lettore ha segnalato che sul sitodigilander.libero/historiatris si racconta che quattro associazioni (“Reeactors WW2”, “Reenactors Italia 1943-1945”, “Soldat 1939” e “Blitzkrieg”) hanno rievocato, sabato 13 e domenica 14 settembre 2008, la liberazione di Mussolini del 12 settembre di 65 anni prima. I figuranti erano quaranta, protagonisti principali Mussolini, Otto Skorzeny, Herald Mors e, naturalmente, Giuseppe Gueli. Tutto come prima, salvo gli alianti, la Cicogna e il tempo che era nebbioso; contributo organizzativo dell’albergo. La storica rievocazione ha visto, sabato sera, una cena di gala con musiche degli anni Quaranta; tutti in divisa, l’interprete di Mussolini col cappotto nero.
– L’avvocato Fabrizio Girolami scrive dicendosi sorpreso di apprendere che Mussolini fu trasferito all’albergo del Gran Sasso il 2 settembre. La fotografia da lui stesso scattata (e riprodotta qui sotto) mostra la targa che oggi si può vedere nella camera che viene indicata come quella in cui dormiva Benito Mussolini, e nella targa è scritto che la sua permanenza cominciò il 28 agosto. È un falso, che ha la sua importanza, se non dipende soltanto da cattiva informazione. Una delle cose non ancora chiarite è infatti la ragione per cui Mussolini fu tenuto per cinque giorni nella villa Mascitelli, alla base del Gran Sasso, prima di salire in funivia e poi a Campo Imperatore.
Un falso innocuo è invece quello della camera (qui sotto), allora 201, oggi 220. Alla parete un quadro conserva una dichiarazione di Elisa Moscardi: “Io sottoscritta Elisa Moscardi, nata a Camarda il 18/2)1909, cameriera addetta alla persona di Benito Mussolini nel periodo della sua permanenza a Campo Imperatore, dichiaro che i mobili dell’appartamento occupato da Benito Mussolini e restaurato a cura del Centro turistico Gran Sasso, sono veri, autentici e dislocati come lo furono durante la prigionia del Duce”.
– “La bionda Lisetta, Elisa Moscardi, trent’anni”. Ne aveva invece 34, essendo nata nel 1909, come lei stessa ha dichiarato (si veda la nota qui sopra). Ma bionda era e con gli occhi azzurri; insomma una bella ragazza, che ha dato spunto a qualche giornalista di immaginare un improbabile qualcosa fra lei e lui. “La corte? Ma poteva fare la corte a me? Non mi faccia ridere” ha risposto in una delle tante interviste fatte a quotidiani italiani e stranieri, perfino al New York Times.
Qualche estratto di queste interviste: “Un giorno mi disse ‘Figliola, se devo andare in mano agli alleati, non mi faccio trovare vivo'”. “Voleva la pistola del tenente Faiola. Diceva: datemi la pistola che mi sparo, non voglio andare con gli inglesi”. E alla domanda “si dice che Mussolini abbia tentato il suicidio tagliandosi le vene” una risposta interessante: “Mussolini si ferì accidentalmente una volta”.
Interviste tante, ma soldi pochi. È vissuta sempre a Camarda, quattro case, tre chilometri a sud di Assergi, sulla vecchia statale che porta all’Aquila (una sola avventura a Roma: al “Maurizio Costanzo show”); e a Camarda è morta il 16 ottobre del 2001, a 92 anni.
Con Elisa sono morti tutti i quattro testimoni aquilani che vissero la prigionia di Mussolini a campo Imperatore: Ugo Marinucci, allora vicepodestà dell’Aquila e commissario del Centro turistico del Gran Sasso (fu lui che ebbe l’ordine di sistemare l’albergo per la detenzione di un “personaggio importante”, senza sapere chi); Domenico Antonelli, il maestro di sci diventato direttore dell’albergo; Remo Lalli, capotecnico della funivia; e lei, Elisa Moscardi (non le piaceva di essere chiamata Lisetta; ma “bambina” e “figliola”, sì, da Mussolini); lei, la guardarobiera dell’albergo, che nelle ultime interviste, già in là con gli anni, ci teneva a dire che non era stata la cameriera di Mussolini ma la sua dama di compagnia.
I testi delle interviste si possono leggere in: www.angelodenicola.it/comunali-2007/datragnone/2001.htm
– Nel testo si dice che la direttrice dell’albergo, Flavia Mignanelli, partì da Campo Imperatore l’11. Sembra invece, dalle interviste di cui sopra si è parlato, che Marinucci l’avesse esonerata dall’incarico già alla fine di agosto e sostituita col maestro di sci Domenico Antonelli. Cadono così i sospetti sulla presenza, durante la detenzione di Mussolini, di una persona che parlava tedesco e faceva telefonate in tedesco. Forse, allora, fu mandata via da Marinucci proprio perché conosceva il tedesco.
I perché dell’intera vicenda sono stati dunque chiariti, più o meno, salvo due: il tentato suicidio di Mussolini (davvero tentato suicidio, come ha raccontato il maresciallo Antichi? o una ferita accidentale, come ha detto Elisa Moscardi?) e soprattutto la non spiegata e dai più ignorata permanenza di Mussolini – cinque notti, dalla sera del 28 agosto alla mattina del 2 settembre – nella villa Mascitelli, ai piedi del Gran Sasso, senza scorte e senza protezioni, prima di salire a Campo Imperatore.
È un perché legato alla decisione che deve prendere Badoglio sulla sorte di Mussolini (ucciderlo piuttosto che darlo ai tedeschi o lasciare che i tedeschi lo liberino). Perché si attesero cinque giorni ad Assergi e dieci a Campo Imperatore per passare dalla prima alla seconda opzione? Ci fu, dopo quindici giorni di discussioni o di trattativa, un accordo con i tedeschi, e in cambio di che cosa? la non contrastata fuga del re a Brindisi o altro?
Qualcuno non ha escluso del tutto che la liberazione di Mussolini – secondo molti una brillante ed eroica operazione militare – sia stata invece quella che qualcuno ha definito una avventurosa ma ben riuscita scampagnata domenicale sui prati del Gran Sasso. Una conferma potrebbe essere suggerita dalla generale allegria della foto qui sotto, anche questa inviata dall’avvocato Fabrizio Girolami.
– Della vicenda esiste un’eccezionale documentazione fotografica e cinematografica. Sul pianoro di Campo Imperatore la mattina del 12 c’erano infatti fotografi e cineoperatori militari (evidentemente arrivati in funivia da Assergi) e anche, secondo testimonianze fatte a Arrigo Petacco e Sergio Zavoli (in Dal Gran Consiglio al Gran Sasso, Milano, 1973), un cineoperatore dell’impresa cinematografica statale tedesca Ufa (Universal Film Gesellschaft). Foto sono state scattate anche da qualcuno a bordo di uno degli alianti. Moltissime immagini sono in Google Immagini (Mussolini Gran Sasso).
– L’uscita (febbraio 2009) di un libro di Marco Patricelli (Settembre 1943 – I giorni della vergogna, Editori Laterza) ha suggerito all’autore di questo libro di riconsiderare la liberazione di Mussolini sul Gran Sasso, almeno per quel che riguarda il numero dei paracadutisti tedeschi e delle SS scesi con gli alianti sul pianoro di Campo Imperatore. Nel testo è stato detto che gli alianti (DFS 230, non 250) erano nove; uno si sfracellò contro una roccia e quindi erano otto gli alianti da cui scesero i paracadutisti. L’autore ha scritto anche (errore!) che gli alianti erano biposto e che quindi gli occupanti erano sedici; uno era il generale Soleti, e perciò i paracadutisti (e le SS) erano quindici (quattordici, se si esclude Skorzeny). Patricelli dice invece che gli alianti arrivati sul Gran Sasso erano dieci, “ognuno dei quali con nove tra paracadutisti e SS e un pilota, per un totale di cento uomini”; aggiunge che sedici erano le SS, oltre a Otto Skorzeny, il suo vice (il tenente Karl Radl) e il generale Soleti.
Sulla vicenda si trovano tantissime testimonianze con clamorose differenze e contradizioni. Renzo De Felice (Mussolini l’alleato – La guerra civile, Einaudi, 1997) scrive che gli alianti arrivati a Campo Imperatore erano nove (otto, invece, per Frederick W. Deakin, in Storia della repubblica di Salò, Einaudi 1963; di cui uno distrutto nell’atterraggio con tutto l’equipaggio, e tre atterrati lontano). De Felice accredita poi il racconto del maresciallo Antichi (pubblicato dalla Settimana Incom del 22 marzo 1958); secondo lui i paracadutisti scesi dagli alianti erano un “centinaio”. In genere molte fonti italiane tendono ad accrescere la consistenza degli attaccanti tedeschi per giustificare la mancata reazione della scorta italiana di carabinieri e agenti. Il maggiore dei carabinieri Giulio Cesare Curcio, comandante del Gruppo carabinieri dell’Aquila, parla addirittura di “duecento militari tedeschi” e il capo della polizia Carmine Senise non esita a inventare il sorvolo sul Gran Sasso di un aereo da bombardamento.
L’autore di questo libro ha cercato con pazienza in Internet una scheda tecnica dell’aliante DFS 230 e l’ha trovata su Wikipedia: lunghezza 11,24 metri, apertura alare 21,98 metri, carico utile dieci soldati con equipaggiamento; inoltre su Wikimedia Commons se ne trovano diverse immagini.
Ha poi cercato una foto in cui si vedesse un aliante DFS 230 da vicino. Eccola (da www.cmpr.it):
Infine l’autore ha scelto, fra le tante immagini disponibili, una che mostrasse bene uno degli alianti atterrati a Campo Imperatore e lo inquadrasse insieme a un particolare noto; eccola (ancora da Wikipedia Commons):
L’impressione è che l’aliante difficilmente potesse portare dieci soldati, ma se si vuol dare credito alla scheda tecnica, si può supporre che dieci fosse il massimo e che questa volta le persone a bordo siano state meno, data la difficoltà dell’atterraggio (a causa dell’altezza e dello spazio di discesa) e l’opportunità che gli aerei non fossero a pieno carico e quindi troppo pesanti.
Conclusione: l’autore ammette di dover correggere, almeno in parte, il proprio testo; quindi: primo, gli alianti (DFS 230, non 250) non erano biposto; secondo, sul pianoro di Campo Imperatore ne atterrarono nove (questa è la versione più accreditata); uno si spezzò contro una roccia e gli occupanti rimasero feriti, non morti, ma indisponibili per l’attacco; otto, perciò, gli alianti utili; terzo, se fossero stati al completo di equipaggi sugli otto alianti (8 per 10 fa ottanta), i soldati (paracadutisti e SS) sarebbero stati (meno Soleti) 79, compresi Skorzeny e Radl e gli otto piloti; quarto, Mussolini ha scritto di aver veduto scendere dal primo aliante “quattro o cinque” paracadutisti; se gli si vuol far credito (contrariamente a quanto scritto nella nota 13), i militari attaccanti sarebbero stati una quarantina. Insomma: non duecento, né un centinaio, ma da un minimo di 40-50 a un massimo di 79.
– A molti storici e osservatori il possibile accordo fra italiani e tedeschi per lo scambio fra la salvezza del re e la liberazione di Mussolini è suggerito da molti fatti: da una parte la ricerca (dopo la detenzione nell’isola della Maddalena) di una villa in campagna per Mussolini (vedi nota precedente), l’inspiegabile permanenza di cinque giorni nella villa di Assergi alle falde del Gran Sasso prima di salire a Campo Imperatore; dall’altra, il non disturbato viaggio del re e di Badoglio Roma-Chieti-Crecchio-Pescara- Crecchio-Ortona, il tranquillo viaggio del “Baionetta” da Ortona a Brindisi (con l’aereo tedesco, un Junker 88, che volteggia sulla corvetta e se ne va), il fatto che Brindisi non venga mai bombardata. Sono però tutti fatti validi anche nell’ipotesi di un accordo virtuale (vedi precedente nota 3).
– Marco Patricelli, autore del bel “Settembre 1943 – I giorni della vergogna” (editori Laterza), ricorda che già alla fine di luglio Hitler aveva espresso a Göbbels e a Göring la sua convinzione che si dovesse procedere (De Felice ne parla a pagina 47 del suo “Mussolini l’alleato“) a un colpo di mano su Roma e alla cattura del re e di Badoglio (l’operazione fu chiamata “Schwarz”). De Felice scrive anche che nel giro di una decina di giorni l’OKW, cioè l’Alto Comando militare, e Kesselring riuscirono a tenere a freno l’impazienza del Fuhrer, adducendo una serie di argomenti tecnici (pericoli per l’afflusso delle forze tedesche in Italia) e di considerazioni politiche (la perdita delle ultime simpatie della Germania fra gli italiani). Il 5 agosto – scrive sempre De Felice – Hitler convenne che l’operazione non aveva più senso e che era meglio indirizzare tutti gli sforzi alla preparazione delle contromisure da adottare al momento del “tradimento” italiano e all’operazione “Eiche” per liberare Mussolini.
– Ancora su Giuseppe Gueli. Grazie a una cortese informazione di Sergio Romano l’autore ha ricevuto dal nipote di Giuseppe Gueli – l’avvocato Giuseppe Gueli, di Roma – una memoria scritta dal nonno nel 1945 e consegnatagli dalla nonna alla sua morte, avvenuta nel 1950. La memoria è fatta di 167 pagine dattiloscritte ed è inedita. L’avvocato Gueli ha deciso di lasciarla così, ma ha autorizzato l’autore di questo libro ad utilizzarne le informazioni storicamente interessanti.
La memoria parla sommariamente dell’attività svolta nell’Ispettorato antimafia in Sicilia (1933-1939) e nell’Ispettorato Alta Italia (1939-1940) e poi di una missione in Albania (1940-1942), affidatagli dal capo della polizia Arturo Bocchini per la costituzione di un corpo di polizia; e qui c’è un accenno a una sua possibile nomina a capo della polizia al posto di Bocchini (Bocchini morì nel novembre del 1940 e fu sostituito da Carmine Senise).
Nel 1942 Gueli è a Trieste per costituire l’Ispettorato generale di polizia contro i movimenti slavi antitaliani, ma il 16 agosto del 1943, mentre è a Roma a colloquio col capo della polizia Senise, arriva la notizia di un incidente d’auto nel quale è rimasto ferito gravemente l’ispettore generale di polizia Saverio Pòlito (di ritorno dall’Umbria, dove, in cerca di una sede adatta per la custodia di Mussolini, aveva ritenuto di trovarla – così scrive Renzo De Felice – nella “villa della marchesa Gonzaga, a quattordici chilometri da Perugia”)(*). “L’Eccellenza Senise” scrive Gueli “mi destinò a sostituirlo”.
Gueli racconta i dieci giorni (dal 2 al 12 settembre) passati sul Gran Sasso (ne parleremo tra poco), poi, il 14, del suo incontro a Vienna con Mussolini, che gli chiede del “libretto di memorie” che gli ha consegnato a Campo Imperatore (sono i “Pensieri del Gran Sasso d’Italia” e i “Pensieri pontini e sardi”, che Skorzeny sequestrò a Gueli e che i tedeschi restituiranno a Mussolini nel gennaio del 1945). Poi di nuovo un incontro con Mussolini a Gargnano sul lago di Garda e quindi il rientro a Trieste, con l’intenzione – dice – di chiedere di essere collocato a riposo e di proporre lo scioglimento dell’Ispettorato, tanto più che la Venezia Giulia e le regioni contigue sono ormai entrate a far parte della Germania col nome di “Adriatische Künstenland”.
Da Trieste Gueli è chiamato a Roma dal ministro dell’interno, che è Buffarini Guidi, che lo invita a cercare il tenente Faiola (**), che viveva nascosto nella campagna del lago di Bracciano, e ad andare insieme da Mussolini a Gargnano. Mussolini gli chiede ancora del suo “libretto di memorie” e poi riceve Faiola, ma solo per qualche minuto.
Gueli torna a Trieste e riprende in mano l’Ispettorato; stabilisce strategie, impartisce istruzioni, cerca di assumere personale e di ricreare strutture operative. Ai primi di gennaio del 1944 è però di nuovo a Gragnano da Mussolini, che gli chiede (così dice Gueli): “È vero che se io tentavo di scappare dal Gran Sasso, voi, secondo gli ordini ricevuti, dovevate farmi ammazzare?”; e Gueli: “Vi ho già detto in altra circostanza che voi eravate un detenuto uguale a tutti gli altri. Il compito degli uomini di guardia ai detenuti è quello di usare tutti i mezzi, armi comprese, per non lasciarli scappare”.
Da Gragnano Gueli rientra a Trieste all’Ispettorato, ma, di fronte alle resistenze poste dalle autorità tedesche e all’acuirsi dell’attività partigiana degli slavi, torna a Roma e chiede – è sempre lui che scrive – di essere messo a riposo. In attesa, decide di non tornare a Trieste e va a Luino, dove la famiglia si era riunita nella casa di un figlio sposato. Qui e nei dintorni – siamo nell’aprile del 1944 – comincia quella che Gueli chiama la sua latitanza. Una latitanza piena però di contatti ufficiali, anche col nuovo capo della polizia, che ora è il generale Renzo Montagna; ed è a lui e al suo vice che di nuovo propone lo scioglimento dell’Ispettorato di Trieste. Poi torna a Luino e dintorni, fino al 25 aprile del 1945.
Dopo la liberazione Gueli si rifugia, per sicurezza, in un paesino di una vallata alpina non precisata e qui, in una “pensione per convalescenti”, comincia a scrivere la sua memoria e rimane fino al 30 maggio. Poi non si sa.(***)
Torniamo ora a Campo Imperatore. Dei dieci giorni della detenzione di Mussolini Gueli racconta molto meno di quello che ormai è noto e anche meno di quello che egli stesso scrisse da Vienna in un rapporto inviato a Mussolini (quasi integralmente pubblicato da Renzo De Felice in “Mussolini l’alleato. La guerra civile 1943-1945“, pagine 22-23 e 29-30).
Trascriviamo le cose più importanti: “Proprio quel giorno (è il 27 agosto) dal lago di Brecciano, dove ammarò l’aereo che aveva potato Mussolini (dalla Maddalena), ho assunto la direzione del servizio. Ordini datimi dal capo della polizia: il detenuto non doveva scappare né doveva permettersi che venisse liberato dai tedeschi o dai fascisti”.
“La mattina del 9 – scrive ancora Gueli – mi chiama la telefono il Capo della polizia e mi dice: ‘Il re e il governo sono andati via; qui siamo circondati dai tedeschi; si spara per le vie di Roma; occorrerà molta prudenza riguardo agli ordini che vi sono stati dati'”. (***) Poi: “Alle ore 12 (del giorno 12) mi chiama al telefono il questore dell’Aquila e mi comunica il seguente telegramma ricevuto da Roma: ‘Raccomandate ispettore generale Gueli massima prudenza. Capo della polizia Senise’. Messo in relazione il testo del telegramma con la telefonata del giorno 9 dello stesso capo della polizia è chiaro che da parte del governo viene revocato l’ordine della resistenza ad ogni tentativo di liberazione di Mussolini”. Alle 14.20 arrivano gli aerei e gli alianti. Ancora Gueli: “Ordino che nessuno spari senza il mio ordine”.
Nella memoria di Gueli si parla anche di quello che è passato come un tentativo di Mussolini di suicidarsi alle 3 del mattino del 12 settembre. Nel suo “Mussolini l’alleato” Renzo De Felice riporta varie testimonianze sull’episodio, non le fa sue, ma in certo modo le accredita. Il maresciallo Antichi (“la testimonianza più attendibile”, scrive De Felice): “Nelle prime ore del mattino il carabiniere di sentinella alla porta di Mussolini mi fece chiamare urgentemente… Mussolini aveva tentato di tagliasi i polsi con una lametta gillette dopo avergli consegnato una lettera… Trovai Mussolini con la meni insanguinate e con una ferita ad ambo i polsi. Provvidi immediatamente a stringergli i polsi con una benda onde fermare l’emorragia. Le lesioni non erano gravi (scalfitture) e si poté evitare il peggio”. Il vicebrigadiere Accetta: “Mussolini tentò di suicidarsi, prima con la pistola del carabiniere addetto al suo piantonamento e poi – non riuscitoci perché il carabiniere, accortosene, glielo aveva impedito – tentò di tagliarsi le vene dei polsi facendo uso di una lametta da barba, tentativo che venne impedito dallo stesso carabiniere”. Flavia Magnanelli (la segretaria dell’albergo): “Sembra che Mussolini, secondo quanto disse poi il tenente Faiola, abbia tentato di tagliarsi le vene del polso con una lametta, che egli avrebbe fatto a tempo a togliergli”.
Tutte testimonianze un po’ fantasiose e poco coincidenti fra loro. Già Elisa Moscardi, la “cameriera addetta alla persona”, disse in un’intervista (si veda sopra nella cronaca della giornata) che Mussolini si era ferito accidentalmente. E che cosa dice Gueli nella sua memoria? Ecco: “Alle ore tre della notte dall’11 al 12 settembre mi venne a svegliare il tenente Faiola per raccontarmi che un’ora prima lo aveva fatto chiamare Mussolini. Era andato e lo aveva trovato mentre provava una lama di rasoio Gillette sul dorso di un mano, per accertarsi che fosse affilata. Gli aveva detto: ‘Non riesco a dormire perché penso che mi consegnerete agli inglesi. Prima di cadere nelle loro mani mi taglierò le vene. E continuava a provare se la lama era affilata. ‘Per calmarlo – continua Faiola – gli ho detto che non avevamo nessun ordine in proposito e che, ad ogni modo, se tale ordine fosse pervenuto lo avrei avvertito. Intanto gli ho tolto il rasoio e le lamette’. ‘Avete fatto bene – gli ho risposto – per quanto non vedo un pericolo di suicidio. È troppo vigliacco per attuare un simile proposito”.
Forse questa del Gueli è la testimonianza più credibile.(****)
Note:
* Una “villa della marchesa Gonzaga a 14 chilometri da Perugia”; così scrive De Felice. C’è qualche lettore che può darci un’informazione su questa “villa” di cui nessuno a Perugia sa qualcosa? De Felice scrive che il 16 di agosto Badoglio incaricò il capo della polizia Senise e l’ispettore generale Pòlito di trovare per Mussolini una sede di detenzione più sicura dell’isola della Maddalena. Scartati Castel dell’Uovo e Sant’Elmo a Napoli, Senise e Pòlito si orientarono per “una villa di campagna lontana dai centri abitati ma facilmente raggiungibile da Roma”. Pòlito (questo scriverà Senise nelle sue memorie) “vi si sarebbe trasferito con la famiglia e avrebbe fatto passare il prigioniero per un parente malato e bisognoso di solitudine”. Lo stesso 16 di agosto Pòlito partì per l’Umbria e in poche ore ritenne di aver trovato la villa adatta (poi, al ritorno, ebbe l’incidente di cui abbiamo parlato).
Le nostre ricerche non hanno portato a risultati. Vicino a Perugia c’è una “villa del marchese” a Gualdo Cattaneo (a oltre quaranta chilometri di distanza) e una “villa della contessa” (a sei chilometri, vicino a San Lorenzo di Raballa). Col nome Gonzaga c’è solo la Caserma “Generale Ferrante Gonzaga del Vodice”, che nel 1943 era la sede del 1o reggimento di artiglieria da campagna “Cacciatori delle Alpi” e oggi del Centro di selezione e reclutamento nazionale dell’esercito; ma è nel centro di Foligno, quindi non in campagna e a più di trenta chilometri da Perugia. La cosa non sembra importante, ma sarebbe divertente sapere dove Pòlito pensava di tenere prigioniero Mussolini “come un parente malato e bisognoso di solitudine”.
** Il tenente Alberto Faiola era il comandante del distaccamento di carabinieri che faceva parte del reparto incaricato della custodia di Mussolini agli ordini dell’ispettore generale Giuseppe Gueli.
*** La telefonata di Senise – dice Gueli – avviene la mattina del 9, e – non ci sono dubbi – non può essere che la mattina del 9, perché il capo della polizia parla della fuga del re (in corso di svolgimento) e degli spari per le vie di Roma. Nel rapporto inviato da Vienna a Mussolini il 14 settembre e riportato da De Felice nel libro citato, Gueli scrive: “La mattina dell’8 mi ha telefonato l’Ecc. Senise per richiedermi le novità e mi ha confermato che – al caso – bisognava agire con molta prudenza“. C’è stata quindi una telefonata di Senise a Gueli anche la mattina dell’8. La parola “prudenza” (nel significato che abbiamo visto) è stata quindi usata (anzi “confermata”) quando ancora non si sapeva dell’armistizio, di cui si verrà a conoscenza soltanto nel pomeriggio e in serata.
È difficile perciò sostenere – come molti fanno – l’esistenza di un accordo, sia pure verbale, fra tedeschi e italiani: la liberazione di Mussolini contro la libertà del re di lasciare Roma e di rifugiarsi a Brindisi. È più facile pensare ad una serie parallela di interessi: i tedeschi non avevano interesse ad arrestare il re d’Italia (un ingombrante peso ai piedi) e il re e Badoglio non avevano interesse ad ammazzare Mussolini (quali le reazioni di Hitler? Si veda sopra, nel “Di più”, che cosa scrisse il capo della polizia Senise, proprio l’autorità che raccomandò a Gueli “prudenza”).
**** Dopo la fine della guerra Giuseppe Gueli fu sottoposto a processo, in contumacia, e in appello venne condannato a otto anni e undici mesi di reclusione. Le imputazioni riguardavano il suo operato di capo dell’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza della Venezia Giulia, soprattutto prima dell’8 settembre. Molte notizie su Gueli sono nel libro di Alessandra Kersevan (“Lager italiani”), ma niente su quei processi. L’autore ha chiesto informazioni dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione di Trieste. C’è qualcun altro che può aiutarmi?
– Il professor Roberto Spazzali, presidente del triestino Istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione del Friuli Venezia Giulia (www.irsml.eu), cortesemente ci ha inviato, su nostra richiesta (si veda la nota **** del precedente capitoletto), alcune carte relative ai processi a carico di Giuseppe Gueli. Sono documenti non completi, dattiloscritti in anni lontani, un po’ sbiaditi e quindi leggibili con difficoltà, ma pieni di informazioni inedite.
Il primo processo si svolse tra la fine del 1946 e l’inizio del 1947 alla “Corte d’assise straordinaria di Trieste”; imputati il Gueli ed altri sei, tutti latitanti meno due. Le imputazioni erano di avere, dal 15 febbraio del 1942 alla fine dell’aprile 1945, (a) “diffuso il terrore nella popolazione” della Regione Giulia; di avere (b) “favorito i disegni politici del tedesco invasore, … col procedere all’arresto di cittadini antinazisti ed antifascisti, partigiani od altrimenti avversi al nazifascismo”; di avere (c) “maltrattato e seviziato, con mezzi iniqui e vietati dalla legge, i detenuti sottoposti alla loro autorità, cagionando ad alcuni di questi lesioni gravissime, … nonché commesso violenze carnali ed atti di libidine violenta contro le donne”. Al Gueli si contestava il concorso in questi reati, “per avere, quale capo dell’Ispettorato generale di ps, sebbene a perfetta conoscenza di quanto stava accadendo e nonostante avesse l’obbligo giuridico di impedirlo, tollerato la consumazione dei delitti, minacciando di confino le persone che lo resero attento sull’attività criminosa dei suoi dipendenti”.
Al Gueli veniva anche imputato (d) il “delitto di cui all’art.II n.3, del Proclama 5 del Governo militare alleato, per avere, addì 12/9/43, in qualità di comandante del Corpo di guardia per la custodia del prigioniero Benito Mussolini al Gran Sasso d’Italia, reso possibile la fuga di quest’ultimo, collaborando coi militi della SS tedesca venuti a liberarlo, contribuendo così, con atti rilevanti, a mantenere in vigore il regime fascista”.
Ecco una foto di Giuseppe Gueli; è accanto a Mussolini, all’uscita dall’albergo di Campo Imperatore; dietro, il generale Soleti. La foto, insieme a moltissime altre sulla vicenda del Gran Sasso, ci è stata inviata da Fabrizio Girolami.
La sentenza, emessa il 25 febbraio del 19437, diceva del Gueli: “Tenuto conto del posto preminente tenuto nell’Ispettorato e dei fatti accertati a suo carico (art. 33 del codice penale) la Corte ritiene di dover partire da 15 anni di reclusione, diminuendo però tale pena di un terzo in base all’art.62 del C.p., data la sua età e la condotta incensurata e le condizioni di famiglia. Operata poi una nuova diminuzione sulla pena così ridotta a 10 anni di reclusione, la Corte ritiene di fissare la pena detentiva in 8 anni di reclusione in base all’art.62 n.6 C.p., risultando che l’imputato aveva svolto opera in vantaggio di non pochi partigiani”. Il Gueli veniva assolto dai reati a) e b) e anche da quello (d) di non avere impedito la liberazione di Mussolini, per “avere agito nelle condizioni di cui all’articolo 51 del Codice penale”, cioè per avere eseguito un ordine proveniente da un’autorità superiore.
Il secondo processo si svolse nel 1947, su ricorso degli imputati e del Pm, alla Corte d’appello di Trieste “in funzione di Corte di cassazione”. Con sentenza del 4 giugno 1947 la Corte dichiarò inammissibile il ricorso di Giuseppe Gueli per la sua ripetuta latitanza e accolse in parte il ricorso del Pubblico ministero, che chiedeva l’annullamento della prima sentenza limitatamente all’assoluzione dall’imputazione di concorso nei reati di cui al punto c) (maltrattamenti e sevizie) e alla concessione delle attenuanti.
La causa fu rinviata per un nuovo esame, ma nessun documento siamo riusciti a trovare, almeno per il momento, sul terzo processo, che, secondo qualche informazione pescata qua e là, si svolse nel 1948, aggravando la condanna del Gueli da otto anni a otto anni e undici mesi.
Dei processi (come abbiamo visto in uno dei capitoletti più sopra) Giuseppe Gueli non parla nelle sue memorie.
– L’avvocato Fabrizio Girolami ci scrive questa documentatissima lettera:
“Sulla fatidica giornata del 12 settembre 1943 esiste una ricchissima documentazione fotografica di fonte tedesca, disponibile sul prezioso sito del Bundes Archiv, che conserva i documenti degli organismi centrali della Repubblica Federale di Germania (dal 1949), della Repubblica Democratica Tedesca (1949-1990), del Deutsches Reich (1867/71-1945) e del Deutscher Bund (1815-1866). Con pazienza certosina ho appurato che la maggioranza delle foto relative a quella giornata domenicale è stata scattata dal giovane ventitreenne cineoperatore tedesco Toni Schneiders (Urbar bei Koblenz, 13 maggio 1920; Lindau, 4 agosto 2006), il cui nome è riportato in calce alla fotografia, assieme alla data (12 settembre 1943). Esistono, in numero minore, foto scattate anche da Bruno von Kayser, corrispondente di guerra dell'”Illustrierte Beobachter. Dall’analisi di alcune di queste foto si possono ben vedere gli alianti atterrati sul Pianoro di Campo Imperatore, i Lastensegler DFS 230, alcuni dei quali sono stati poi bruciati.
“Quanto al numero preciso degli alianti atterrati, ho notato anch’io che le fonti forniscono dati assai divergenti tra di loro. L’unico dato su cui sono uniformi su questa circostanza è che il piano di assalto aviotrasportato prevedeva la partecipazione di 12 alianti (Lastensegler) DFS 230, che sarebbero stati trainati dall’aeroporto di Pratica di Mare da 12 aerei rimorchiatori Henschel 123. Più problematico risulta, invece, determinare il numero effettivo degli alianti che effettivamente atterrarono integri sul pianoro di Campo Imperatore. Su questo specifico dato, le fonti sono molto discordanti tra di loro. Secondo una prima versione (da Lei stesso riportata nel suo saggio), da Pratica di Mare partirono soltanto 9 dei 12 Henschel, a causa del distacco di tre alianti durante la fase di decollo. Sono quindi nove i biplani Henschel che partono e nove gli alianti”.
“Se si aderisce a questa tesi, si deve ritenere che dei nove alianti sganciati dagli Henschel sullo spazio aereo di Campo Imperatore, otto atterrarono integri, mentre il nono si sfracellò sulla parete rocciosa. Lo stesso Otto Skorzeny (con affermazioni riportate in G. ANNUSEK, “Liberate Mussolini. La più incredibile operazione di commando della seconda guerra mondiale”, Torino, 2007) sostiene che gli alianti atterrati integri sul pianoro di Campo Imperatore furono otto (lo stesso Skorzeny afferma che gli altri alianti ‘non erano partiti da Pratica di Mare o erano precipitati durante il volo’).
“Secondo lo storico Marco Patricelli, invece, furono 10 gli alianti “arrivati” sul Gran Sasso. Dunque: da Pratica di Mare era previsto il decollo di 12 Henschel (con i relativi alianti); di questi 12, soltanto 10 sarebbero giunti sullo spazio aereo di Campo Imperatore, mentre gli altri due sarebbero rimasti bloccati a Pratica di Mare. Una volta sganciati dagli Henschel, di questi 10, nove alianti sarebbero riusciti ad atterrare effettivamente integri, mentre il decimo si sarebbe sfracellato.
“Sul sito The JollyRogerXXX si legge: ‘A Campo Imperatore era già cominciato il sommario bilancio: di dodici alianti otto erano riusciti ad atterrare, sia pure riportando danni, uno si era irrimediabilmente fracassato, due di questi erano rimasti bloccati addirittura all’aeroporto. Un quarto, dato dapprima per scomparso, aveva poi ritrovato la via del pianoro. Sullo stesso sito è presente una mappa che riporta nove alianti atterrati nelle prospicienze dell’hotel Campo Imperatore ed uno più defilato; quindi, 10 alianti totali.
“Attraverso ricerche condotte su siti Internet di lingua tedesca ho trovato i seguenti nomi dei piloti dei Lastensegler DFS 230; sono 10, e questo confermerebbe che gli alianti arrivati a Campo Imperatore erano dieci: 1) Leutnant Elimar Meyer-Wehner; 2) Feldwebel Heiner Lohrmann; 3) Oberfeldwebel Hans Neelmeyer; 4) Oberfeldwebel Beerenboldt; 5) Unteroffizier Maier; 6) Unteroffizier Jenniches; 7) Unteroffizier Gustav Thielmann; 8) Unteroffizier Ronsdorf; 9) Unteroffizier Gedenk; 10) Unteroffizier Stark.
Nota di Sergio Lepri: sulla base di quest’ultima informazione si può supporre che erano dodici gli alianti previsti in partenza dall’aeroporto di Pratica di mare, dieci effettivamente partiti e dieci arrivati nel cielo del Gran Sasso; otto atterrati più o meno in buone condizioni, uno sfracellato, un altro dapprima disperso e atterrato successivamente.
Rimane il problema del numero di militari tedeschi scesi dagli alianti, ma rimane confermato il calcolo già fatto: otto gli alianti atterrati contemporaneamente sul pianoro (sfracellato il nono, disperso e atterrato successivamente il decimo); al massimo, quindi, dieci militari a bordo di ciascun aliante, quindi ottanta meno uno (il generale Soleti), 79.
È tuttavia probabile che per motivi di prudenza, considerato l’area limitata del pianoro e i 2000 metri di altezza, gli alianti non fossero a pieno carico. Qui sotto c’è una foto – fornitaci anche questa dall’avvocato Girolami -che può dirci qualcosa.
Si vede un furgone e, sdraiati sul piano, i militari feriti nell’aliante che si è sfracellato; sono quattro o cinque. Anche Mussolini nella sua “Storia di un anno” scrisse di avere visto scendere dal primo aliante “quattro o cinque” tedeschi”. Facciamo allora anche questa supposizione: cinque militari a bordo di ciascun aliante; cinque per otto quaranta, meno uno (il generale Soleti) trentanove; oltre ai cinque (o dieci) dell’aliante prima disperso e poi arrivato più tardi, quando tutti erano intorno a Mussolini, dentro e fuori dall’albergo. A parte, a cose fatte, le truppe motorizzate arrivate ad Assergi e salite in funivia a Campo Imperatore.
– La documentazione fotografica sulla liberazione di Mussolini a Campo Imperatore sul Gran Sasso che ci ha inviato l’avvocato Fabrizio Girolami è eccezionale. Ecco qui altre foto.
La foto è stata scattata da Bruno Kayser da bordo di uno degli alianti. Si vede dall’alto il pianoro di Campo Imperatore con l’albergo e la stazione di arrivo della funivia. A sinistra lo strapiombo verso Assergi
La funivia che da Assergi sale a Campo Imperatore.
Mussolini appena salito a bordo della “Cicogna”
Il fotografo Toni Schneiders, autore della maggior parte delle fotografie.
Mussolini si avvia verso il Cicogna; alla sua destra Skorzeny, alla sua sinistra l’ispettore generale Gueli.
Il generale Soleti parla col maggiore Mors.
Militari tedeschi, col braccio alzato, e militari italiani alla partenza della “Cicogna”.
La “Cicogna” in partenza.
L’aliante sfracellato.
La stretta di mano del maggiore Mors (la riproduzione ha cancellato la sua figura e di lui si vede soltanto la mano) a una parte dei militari, forse i piloti; in questa foto, sullo sfondo, altri numerosissimi militari, ma sono quelli saliti a Campo Imperatore in funivia da Assergi nel primo pomeriggio.
– L’avvocato Fabrizio Girolami, sempre simpaticamente curioso della vicenda della liberazione di Mussolini sul Gran Sasso, mi ha inviato un libretto di 64 pagine, intitolato “Rescuing Mussolini”, pubblicato da Osprey Publishing Midland House, West Way, Botley, Oxford, Gran Bretagna (ma stampato in Cina). L’autore si chiama Robert Forczyc e dal modo in cui scrive fa pensare che sia un militare, come militare si dichiara la casa editrice (“Ospray military and aviation”).
Il lungo saggio descrive l’operazione che portò alla liberazione di Mussolini sul Gran Sasso. È una lunga descrizione un po’ strana: interessante in molti punti per la precisione e l’ampiezza di molte informazioni (accanto ad alcune informazioni improbabili), sconcertante in altri, come quando attribuisce all’ispettore generale Gueli la piena responsabilità della decisione di lasciare che Mussolini fosse liberato senza sparare un colpo. Per il resto conferma quello che sappiamo e che abbiamo scritto.
La parte per noi più importante riguarda il reparto motorizzato comandato dal maggiore Mors, partito alle 3 della notte da Frascati (non da Mondragone) e diretto ad Assergi, per poi salire a Campo Imperatore. Secondo Forczyc, il reparto era numeroso e bene equipaggiato, con una sezione di mitraglieri, una sezione di mortai (38) e anche una sezione sanitaria; insomma un reparto bene organizzato e ben dotato per un assalto e un conflitto a fuoco. Questo fa supporre che il maggiore Mors e prima di lui il generale Student prevedevano un attacco da affrontare con artiglierie sia pure leggere e con la possibilità di feriti. È quindi da supporre che ignoravano la decisione di Senise (e di Badoglio) di lasciare che Mussolini fosse liberato senza combattimenti. Una ragione di più per confermare l’inesistenza di un accordo Badoglio-Kesselring per uno scambio Mussolini ai tedeschi e Vittorio Emanuele libero di fuggire a Brindisi. La presenza di due fotografi (uno a bordo di un aliante) e di un cineoperatore nel reparto di Mors (di questo Forczyc non parla, ma le riprese cinematografiche ci sono) dimostrerebbero non l’idea di una grande sceneggiata ma soltanto la buona organizzazione dell’alto comando tedesco anche in funzione propagandistica.
Gli alianti. Forczyc scrive che gli alianti arrivati a Pratica di mare da Grosseto (non da Viterbo) erano dieci (non dodici); che gli alianti arrivati a Campo Imperatore erano dieci (uno sfracellato, uno in ritardo e un po’ distante); che a bordo c’erano nove militari oltre al pilota; che all’operazione parteciparono quindi 99 militari (cento, meno il generale Soleri); ma al cosiddetto assalto all’albergo i tedeschi erano solo 79; dieci erano nell’aliante sfracellato, dieci atterrati più tardi.
Inverosimile il racconto dell’assalto: cento dei carabinieri e degli agenti italiani – dice Forczyk, che ritiene fossero 113 0 123 – non si erano accorti di niente e stavano dentro l’albergo, compreso Gueli che dormiva nudo nella sua camera; finalmente Gueli se ne accorge, si affaccia alla finestra in mutande e grida “non sparate”, preso dal panico (“panicked”); e si capirebbe il suo panico, se fosse vero che, secondo Forczyk, Gueli ha ricevuto alle 13.30 un messaggio del capo della polizia Senise che gli dice che, in caso di attacco, decida lui come crede (“to use his own judgment”). Gueli – è sempre Forczyk che lo scrive – si consulta col tenente Faiola se non sia il caso di portar via Mussolini e nasconderlo i in qualche anfratto della montagna; dopodiché si ritira nella sua stanza per fare un sonnellino (“for a siesta”).
Il messaggio del capo della polizia trasmessogli dal prefetto dell’Aquila Biancorosso è delle 13,30; quando Gueli si ritira nella sua camera dopo essersi consultato con Faiola si può supporre che siano le 13.40 o le 13.45. Il primo aliante – dice sempre Forczyk – atterra alle 14,05. L’aereo che lo trasporta deve essere arrivato sul cielo di Campo Imperatore almeno alcuni minuti prima. Gli alianti sono silenziosi, gli aerei che li trasportano no.
Inverosimile ma divertente un particolare: Skorzeny, che era nell’aliante atterrato un po’ a valle dell’albergo, corse verso quello che riteneva fosse l’ingresso (l’ingresso era invece dall’altra parte, a monte) e, aperta la porta, trovò solo un telefonista davanti alla tavoletta con prese e spinotti. Anche lui non si era accorto di niente.
– L’avvocato Fabrizio Girolami mi scrive per segnalarmi l’uscita della seconda edizione, riveduta e corretta, del bel libro “Liberate il Duce” di Marco Patricelli.
All’avvocato Girolami e a me sembra ormai che sulla liberazione di Mussolini a Campo Imperatore sul Gran Sasso, il 12 settembre del 1943, non ci siano più punti oscuri. Ecco i principali.
1 – I tedeschi erano convinti che la liberazione di Mussolini si presentava come una missione molto seria e che era da prevedere anche un duro conflitto a fuoco. Lo dimostrano l’attrezzatura del reparto motorizzato comandato dal maggiore Mors in marcia verso la base della funivia a Fonte Cerreto (armamento completo di artiglieria leggera, sezione sanitaria con medico ecc.), il numero degli alianti da impiegare (dodici previsti all’aeroporto di Pratica di mare, poi diventati dieci per problemi tecnici, a carico completo), l’accorgimento di condurre come ostaggio a bordo anche un generale italiano (l’ispettore generale di polizia Soleti).
La presenza di un fotoreporter a bordo di un aliante e di un cineoperatore nel reparto Mors, l’ordine del generale Gueli (responsabile della detenzione di Mussolini) a carabinieri ed agenti di non sparare contro i tedeschi scesi dagli alianti, la rapidità cinematografica dell’operazione con l’uscita di Mussolini dall’albergo attorniato da gente felice, il temuto conflitto che diventa una gran festa, con militari italiani e militari tedeschi che si danno manate sulle spalle, tutto questo ha dato una prima impressione di sceneggiata, a cui ha contribuito il fenomeno mediatico (foto, riprese filmate, memorie, comunicati) costruito soprattutto dal Comando delle SS.
La conclusione sicura è: la liberazione di Mussolini sul Gran Sasso fu studiata dai Comandi tedeschi come un’operazione militare molto complessa e impegnativa e dall’esito non facile né certo. È anche questa una conferma della mancanza di un accordo fra il governo Badoglio e l’alto Comando tedesco: la liberazione di Mussolini in cambio della fuga del re Vittorio nel Sud Italia.
2 – La decisione di non uccidere Mussolini nel caso di un tentativo tedesco di liberarlo, ma di lasciarlo libero nelle loro mani è legata – in maniera ormai assodata – alla frase “usare massima prudenza”. Questo è l’ordine fatto avere all’ispettore generale Gueli dal Capo della polizia Senise, attraverso il questore dell’Aquila Di Guglielmo, la mattina del 12; ma la frase gliela aveva detta per telefono già prima. Quando? Nel suo rapporto inviato da Vienna a Mussolini il 14 settembre del 1943 Gueli dice “la mattina del 9” e parla di un ordine “confermato” (quindi già dato in precedenza). Nelle sue memorie, scritte molto tempo dopo, Gueli dice “la mattina dell’8” (cioè prima dell’imprevisto annunzio dell’armistizio e della conseguente decisione di far partire il re da Roma). Anche se qui si fosse sbagliato (e forse si è sbagliato), anche se la mattina fosse quella del 9, in quella mattina il Re con Badoglio era in viaggio per il castello di Crecchio; perciò nessuno era in condizione di sapere che sarebbe arrivato a Brindisi (il 10) senza esserne impedito dai tedeschi.
Conclusione: come già detto, Badoglio lasciò che Mussolini fosse liberato dai tedeschi e Kesselring lasciò che il re Vittorio riparasse a Brindisi, non per un accordo di scambio, ma per paralleli motivi di pragmatica utilità.
– Nel prezioso archivio storico della “Stampa” l’avvocato Fabrizio Girolami (sempre lui, curioso e paziente ricercatore) ha trovato una interessante notizia pubblicata dal quotidiano torinese il 27 dicembre del 1945. Era da poco finito, con sentenza di proscioglimento, il processo contro l’ex capo della polizia Carmine Senise. Nel testo della sentenza – scrive il quotidiano torinese – si legge fra l’altro che, “per quanto si riferisce alla liberazione di Mussolini, gli ordini impartiti da Badoglio erano di far fuoco sul Duce in caso di fuga o tentativo di liberazione. Nella situazione creatasi dopo l’8 settembre quell’ordine non poteva essere eseguito senza scatenare chi sa quale reazione da parte dei tedeschi e dei risorti seguaci di Mussolini. Preoccupato appunto di questa situazione particolare, il Senise diede il 9 settembre precise istruzioni all’ispettore Gueli. che con 80 uomini aveva in custodia Mussolini al Gran Sasso, di regolarsi con prudenza; disdisse il giorno successivo tale ordine, quando sembrò che le nostre truppe potessero fronteggiare il nemico, e infine lo rinnovò il 12 settembre a mezzo di un radio messaggio quando seppe dal maresciallo Caviglia sotto quali minacce per Roma era stato costretto a firmare la capitolazione della città”.
Ancora una conferma: la decisione di lasciare che Mussolini fosse liberato dai tedeschi fu presa dopo l’annunzio dell’armistizio e l’ordine fu comunicato a Gueli il 9 settembre (quando ancora il re non era in salvo a Brindisi) e rinnovato il 12. Un ulteriore conferma della inesistenza di un accordo fra Badoglio e Kesselring (per lo scambio Mussolini-Re) sarebbe nella revoca dell’ordine il 10 settembre. È una notizia inedita; ma di questa provvisoria revoca non ha mai parlato nessuno, neppure Senise e Gueli nelle loro memorie.
– Nella bella collana “Piccola biblioteca di Nuova Storia contemporanea” è stato pubblicato di recente (2012), con prefazione di Francesco Perfetti, direttore della rivista, un libretto (“La calda estate del 1943”) scritto nel 1958 da Eugenio Dollmann, il personaggio più misterioso e affascinante, con la sua splendente uniforme nera di colonnello delle SS, della presenza tedesca a Roma da prima del 25 luglio fino alla liberazione della città nel giugno del 1944. Forse il personaggio più potente.
Nato a Ratisbona nel 1900, laureato in filosofia all’università di Monaco, Dollmann si trasferì a Roma a metà degli anni Venti per coltivare i suoi studi sulla storia e sull’arte del Rinascimento italiano. Abitava in piazza di Spagna, amava la vita mondana e, frequentando salotti e, biblioteche, si fece ben presto amico di nobili romani e di prelati del Vaticano.
Ottimo conoscitore della lingua italiana, frequentava la casa di Galeazzo Ciano e gli uffici del capo della polizia Bocchini, era l’invitato d’onore dei ricevimenti della principessa Colonna e il confidente di Rachele Mussolini. Diventò presto l’informatore dell’ambasciata tedesca, prima von Mackensen poi Rahn, e del Comando tedesco di Kesselring a Frascati.
Non per niente era amico di Heinrich Himmler e anche di Eva Braun, che l’aveva conosciuto a Firenze e ne era rimasta affascinata. Simpatico si rese anche a Hitler, di cui fu l’interprete nel suo viaggio in Italia nel 1938 e che lo nominò colonnello delle SS, sebbene non avesse fatto mai il soldato. Probabilmente era omosessuale.
Per il nostro “1943” il libretto è prezioso, perché ci dà interessanti conferme su alcuni punti: l’interpretazione data dai tedeschi al comunicato di Badoglio del 25 luglio e l’inesistenza di un accordo fra Kesselring e Badoglio per scambiare la liberazione di Mussolini col salvataggio del re Vittorio in fuga da Roma.
Cominciamo da quest’ultimo punto. Dollmann è categorico: “Di una simile intesa, se ci fosse stata, Kesselring mi avrebbe informato per primo. Io stesso, parecchio tempo dopo la guerra, gli ho chiesto se questa voce rispondesse a verità; ne ho ricevuto per risposta un ‘no’ drastico, deciso. Mai ed in nessun momento, nemmeno per il tramite del conte Calvi, è stata trattata con il Re o, magari, con lo stesso Badoglio, una simile possibilità. Ed il Quartier generale tedesco a Frascati rimase sorpreso al massimo quando apprese la notizia della decisione presa dal Re”.
Kesselring seppe da Dollmann che il Re e Badoglio erano fuggiti da Roma. Nella prefazione del libretto Francesco Perfetti riporta infatti alcune dichiarazioni dello stesso Dollmannn pubblicate nel numero di novembre-dicembre 2009 di “Nuova Storia Contemporanea”. Sono dichiarazioni sorprendenti: “Kesselring era al corrente della fuga da Roma a Brindisi. Questo avvenne su mia iniziativa. I Reali passarono attraverso le linee tedesche, perché tutto questo terreno da Roma a Brindisi era in mano nostra. I Reali non potevano passare se i nostri non erano avvisati. Io non avevo informato Berlino. Questo ho fatto solamente da solo con Kesselring. Io non ho informato né Wolff (capo della polizia) né Rahn (facente funzione di ambasciatore) né altri miei superiori”.
Il convoglio di auto col Re e con Badoglio partì da Roma alle 4.50 del 9 da palazzo Baracchini in via XX settembre, che era la sede del ministero della guerra e dove quello che impropriamente fu chiamato “Consiglio della corona” al Quirinale aveva fissato l’appuntamento per le 21.15 (si vedano le giornate dell’8 e del 10 settembre di questo libro). Solo dopo quell’ora fu presa la decisione di abbandonare Roma per il Sud, ma dapprima senza stabilire come: in aereo dall’aeroporto di Pescara o in nave dal porto di Pescara o da quello di Ortona?
Il convoglio del Re percorse la via Tiburtina fino ad Avezzano, poi la via Valeria fino al bivio per Chieti, poi a Chieti, poi, per strade secondarie, fino al castello di Crecchio, dove arrivò a mezzogiorno. Tiburtina e Valeria erano strade importanti e il convoglio fu fermato – sembra tre volte – da blocchi stradali tedeschi; fermato e rilasciato. Le auto erano cinque e a bordo c’erano quattro generali (il re, il principe Umberto, Badoglio e Puntoni) e altri cinque ufficiali, tutti in uniforme. Un convoglio che non poteva passare inosservato. Evidentemente i militari tedeschi avevano avuto istruzioni di lasciarlo proseguire.
Se è vero quello che sostiene Dollmann, fu evidentemente Kesselring, informato da lui nella notte fra l’8 e il 9, che ordinò ai reparti dipendenti di non fermare il convoglio reale; e probabilmente fu Kesselring, con l’aereo, lo Junker 88, che a lungo volteggiò la mattina del 10 sulla corvetta “Baionetta”, a far controllare che la fuga del re a Brindisi procedesse senza problemi.
È la conferma di quello che abbiamo già scritto: non ci fu nessun accordo fra Kesselring e Badoglio, ma solo un’operazione di opportunità politica (che il re d’Italia si togliesse dai piedi) e, visto che Badoglio aveva deciso di seguire il re, anche di opportunità militare (che Badoglio abbandonasse il comando delle Forze armate italiane). Un analogo episodio di saggezza Kesserling l’aveva dato il 26 luglio, quando sconsigliò Hitler, infuriato per l’arresto di Mussolini, di attuare quel piano “Schwarz” che prevedeva l’arresto del Re e di Badoglio. Era meglio provvedere all’occupazione militare dell’Italia e alla liberazione di Mussolini.
Sulla liberazione di Mussolini Eugenio Dollmann esprime un giudizio negativo. Fu un grave danno – sostiene – non solo per Mussolini, che “andò incontro a un tremendo ‘Crepuscolo degli dei'”; non solo per l’Italia, perché “la ‘riattivazione’ del Duce rese inevitabile la feroce guerra civile che ne seguì'”; ma anche per i tedeschi, per i quali “Mussolini liberato rappresentava solo un peso morto di natura militare e politica”.
Il libretto di Dollmann chiarisce dunque molte cose; peccato che non ne spieghi alcune, che saremmo curiosi di conoscere: come venne a sapere della decisione del re e di Badoglio di lasciare Roma? a che ora lo disse a Kesserling? e soprattutto: perché soltanto a Kesselring?
Interessanti sono anche le pagine in cui Dollmann giudica il comportamento del re e di Badoglio dopo il 25 luglio. Ecco il testo.
“Nessuno sapeva qualcosa di preciso in merito al momento in cui sarebbe avvenuta la defezione dell’Italia e circa i negoziati svolti in segreto all’estero, destinati a provocare il completo scollamento dell’Asse Roma-Berlino. Nessuno (anche se subentrò il periodo delle solenni promesse del Sovrano, che ribadì a più riprese il valore dell’alleanza, delle parole d’onore e dei giuramenti di fedeltà) riuscì a sapere particolari precisi su ciò che si tramava. Questa è, dunque, la ragione principale per la quale le grandi manovre intessute dal maresciallo Badoglio alle spalle dell’alleato tedesco sfociarono in una “vittoria mancata”, proprio quando questo successo politico, diplomatico e militare degli italiani poteva essere oltremodo facile ed indolore.
“…Secondo il mio parere la principale responsabilità per tale mancata vittoria ricade sulla prova assolutamente fallimentare fornita dal maresciallo Badoglio e dal generale Carboni, oltre che sulla decisione di Re Vittorio Emanuele di darsi alla precipitosa e infausta fuga di Pescara. Gran parte delle responsabilità, poi, ricadono sugli americani e sui loro alleati, i quali, in relazione alla missione Taylor, avrebbero dovuto insistere in modo assoluto sull’opportunità dello sbarco aereo in uno degli aeroporti situati nelle immediate vicinanze di Roma e che, in tale occasione, hanno dimostrato, ancora una volta, quanto scarso uso sappiano fare della loro superiorità militare ancorché di quella politica e diplomatica.
Dollmann riferisce poi “Il giudizio che nelle alte sfere tedesche ci si andava allora formando sulla situazione dopo l’abbandono di Roma da parte del Re, giudizio che può essere così condensato:
“1) La partecipazione di Badoglio alla fuga di Pescara è stata, in modo assoluto, la principale causa della catastrofe e, come sempre succede, una parte di questa colpa va distribuita anche ai collaboratori del maresciallo e segnatamente ai generali Roatta e Carboni.
“Con un uomo della reputazione militare e dell’esperienza di Badoglio, alla testa delle truppe abbandonate da Dio e dal mondo, le sei divisioni italiane, veramente da compiangere, avrebbero costretto ìl feldmaresciallo Albert Kesselring, che si trovava alla testa di truppe impegnate anche contro gli Alleati, a dibattersi in serie difficoltà ed a perdere del tempo prezioso.
“2) Qualora l’assunzione del comando da parte di Badoglio fosse avvenuta tempestivamente, durante la notte fra l’8 e il 9 settembre, in concomitanza con uno sbarco aereo degli Alleati su vasta scala nei pressi di Roma, secondo la mia opinione e secondo anche l’opinione dello stesso feldmaresciallo, la sconfitta dei tedeschi sarebbe stata quasi inevitabile, con imprevedibili conseguenze per l’ulteriore condotta della guerra in territorio italiano che non ho bisogno di illustrare in questa sede. E poiché oggi sembra ormai ampiamente accertato che ìl maresciallo Badoglio, su sollecitazione del generale Carboni, si oppose risolutamente allo sbarco proposto dall’americano Taylor nella notte fra l’9 e il 9 settembre, ricade su di lui anche l’infausta decisione degli Alleati di non intervenire militarmente con immediatezza e tempestività”.
– Ancora su un presunto accordo fra Badoglio e Kesserling per la liberazione di Mussolini in cambio della libertà per re Vittorio di arrivare sano e salvo nel Sud dell’Italia. Sul “Corriere della sera” del 10 settembre 2013 Sergio Romano, nella sua bella rubrica “Lettere al Corriere” pubblica la lettera di un lettore: “Il Corriere ha dedicato un ampio spazio per ricordare l’armistizio. La tempestiva e improvvisa fuga del re nella notte del 9 settembre rimane per me un mistero. Come hanno fatto in poche ore a preparare il “trasloco”? Forse l’avevano già preparato da tempo? E i tedeschi, come mai non hanno fatto niente per impedirla? E il Vaticano? Forse ci fu un accordo? E in cambio di cosa?”.
Sergio Romano così risponde: “Caro Bracchetti, le sue domande sono state anticipate da una lettera di Sergio Lepri, per quasi trent’anni direttore dell’Ansa, autore di molti libri sulla comunicazione e, più recentemente, di una storia “digitale” del 1943 che lei potrà leggere su Internet (www.sergiolepri.it/libro.php). Un altro lettore (Angelo Meroni) ricorda, d’altro canto, che la tesi di un accordo di scambio fra Badoglio e Kesselring fu avanzata in un libro di Ruggero Zangrandi (L’Italia tradita. 8 settembre 1943) apparso nel 1979.
“Secondo Lepri, questa tesi è resa improbabile da almeno due circostanze. In primo luogo “l’ispettore generale di polizia Giuseppe Gueli, responsabile della sicurezza di Mussolini a Campo Imperatore, ha scritto in una sua memoria, dopo la fine della guerra, che la mattina del 9 settembre ricevette una telefonata dal capo della polizia Carmine Senise, che gli ordinava di usare la “massima prudenza” (significava “non sparare”) nel caso di un attacco tedesco. La stessa mattina del 9 re Vittorio e Badoglio erano arrivati al castello di Crecchio, casa dei duchi di Bovino, in attesa che fosse deciso se partire in aereo dall’aeroporto di Pescara oppure imbarcarsi su una nave militare. L’ordine di Senise è quindi stato dato una trentina d’ore prima di sapere che il re era arrivato sano e salvo a Brindisi e quindi che l’accordo (se accordo ci fosse stato) era stato rispettato”. In secondo luogo, sempre secondo Lepri, il generale dei paracadutisti Karl Student, che comandò la missione, la organizzò “come una seria operazione di guerra”. Se vi fu un’intesa, quindi, nessuno dei due protagonisti del patto si comportò come se fosse sicuro del comportamento dell’altro. Per Lepri, quindi, non si tratterrebbe di un accordo ma, se mai, di una “parallela opportunità”: “Che interesse aveva Kesselring ad avere fra i piedi il re d’Italia; e che interesse avevano il re e Badoglio a consegnare Mussolini agli angloamericani oppure a ammazzarlo, come qualcuno aveva proposto e progettato (fra gli altri il generale Giuseppe Castellano, quello che il 3 settembre firmò l’armistizio a Cassibile)?”.
“Aggiungo una osservazione, caro Bracchetti. Con il senno di poi i posteri ragionano spesso come se gli attori di un dramma agissero sulla base di ciò che oggi appare a loro particolarmente importante. Ma è molto probabile che in quei giorni, immediatamente dopo l’armistizio, i principali attori del dramma avessero altre preoccupazioni. Hitler voleva soprattutto la liberazione di Mussolini e dette personalmente gli ordini relativi a quell’operazione. Kesselring doveva concentrarsi sull’occupazione del territorio e non poteva dare per scontato che le truppe italiane si sarebbero sbandate senza opporre una resistenza coordinata. Vittorio Emanuele e Badoglio volevano soltanto lasciare Roma il più rapidamente possibile e non avevano neppure deciso di quale mezzo si sarebbero serviti per andare da Pescara a Brindisi”.
Il testo è disponibile sul sito del Corriere della sera.