16 febbraio

A Domenikon, un piccolo villaggio della Grecia centrale, 150 greci giovani e vecchi vengono fucilati dalle truppe italiane di occupazione come rappresaglia per la morte di nove nostri soldati in un’imboscata di partigiani.
Che cosa c’è di vero nel mito “Italiani brava gente”?

Domenikon è un villaggio della Tessaglia, la storica regione della Grecia centrale; una vasta pianura circondata da montagne, a nord il mitologico Olimpo, il monte più alto del paese, quasi tremila metri, creduto dagli antichi greci la dimora degli dei.

Un battaglione di soldati della divisione Pinerolo ha circondato oggi il villaggio e ha rastrellato tutti i maschi, dai 14 anni in su, anche i vecchi ottantenni; e poi anche quelli fuggiti e nascosti nei boschi vicini. All’una di notte sono stati tutti fucilati. Erano 150. Qualcuno ha chiamato “Marzabotto1 greca” questo orribile massacro. “Una salutare lezione” scriverà il generale Cesare Benelli, comandante della divisione. Qualche giorno prima, a un chilometro dal villaggio, nove soldati italiani erano stati ammazzati in un’imboscata tesa dai partigiani.

Dai primi di maggio del 1941, con la 9a armata comandata dal generale Carlo Geloso, quasi tutta la Grecia è sotto il controllo militare italiano, comprese le isole di Corfù, Zante e Cefalonia e la parte orientale di Creta. Non la capitale Atene, però, dove ha preso sede l’alto Comando tedesco, che controlla il resto del paese, col porto importante di Salonicco; solo una parte della Macedonia è affidata alla Bulgaria, che proprio per questo si è alleata alla Germania.

L’aggressione dell’Italia alla Grecia è cominciata il 28 ottobre del 1940. L’offensiva è stata breve; i greci l’hanno fermata dopo appena tre settimane e la loro controffensiva li ha portati, oltre i loro confini, nell’Epiro albanese, fino a occupare Argirocastro all’inizio del gennaio 1941. Una disfatta per Mussolini, che alla fine di dicembre aveva dichiarato “Spezzeremo le reni alla Grecia”. Tutto è cambiato in aprile, quando le truppe tedesche hanno invaso prima la Jugoslavia, poi la Grecia; e il governo greco ha dovuto chiedere la resa ai tedeschi il 23; anche agli italiani, ma solo due giorni dopo2.

Il re, Giorgio II, è fuggito a Londra, dove è stato formato un governo greco in esilio. A Atene c’è un governo militare, guidato dal generale Tsolakoglu, sotto il controllo della Germania e dell’Italia; un governo collaborazionista. L’esercito è stato disciolto e il mantenimento dell’ordine è stato affidato alle forze locali di polizia, molte della quali sono state però private delle armi.

L’odio, antico, per i tedeschi e l’odio, recente, per gli italiani invasori ha dato vita a un grande movimento di resistenza, diviso tuttavia in due formazioni: l’Edes, “Unione nazionale greco-democratica”, di orientamento democratico e liberale, capeggiata dal colonnello Zervas e sostenitrice del governo greco in esilio; e l’Eam, “Fronte nazionale di liberazione”, di orientamento comunista. L’Eam ha creato poi un’Armata di liberazione nazionale, l’Elas, diretta dal capo del Partito comunista greco Velukhiotis. Una terza formazione, l’Ekka, “Movimento di liberazione nazionale e sociale”, ha avuto vita breve; i comunisti dell’Elas hanno sterminato tutti i suoi uomini compreso il comandante, il colonnello Psarros; i superstiti hanno formato reparti che si sono schierati dalla parte dei tedeschi agli ordini del governo filonazista.

La situazione è drammaticamente confusa. Ci sono greci governativi e filotedeschi; ci sono greci antigovernativi, antitedeschi e comunisti; ci sono greci antigovernativi, antitedeschi e anticomunisti. Ogni gruppo è contro gli altri due. È una lotta armata che continuerà, ridotta a due sole fronti, governativi e comunisti, anche dopo la fine della guerra e diventerà nel 1946 una vera e propria guerra civile terminata con 80 mila morti nel 19493.

Alle conseguenze della guerra contro l’aggressione italiana (un esercito sbandato, le risorse finanziarie distrutte), ai soprusi dell’occupazione militare tedesca (lo sfruttamento economico, il lavoro coatto, le razzie di derrate alimentari), al sangue e ai lutti della guerriglia interna si è aggiunta ora la carestia. La corruzione è diffusa, il razionamento alimentare non è sufficiente (30 grammi di pane al giorno) e si muore di fame4.

Contro la fame e contro le truppe occupanti ci sono state frequenti manifestazioni popolari. Il Comando tedesco ha emesso bandi molto rigidi, ha decretato confische nei villaggi, arresti, fucilazioni e deportazioni nei campi di concentramento di Larissa, e di Hadari. Il 22 dicembre 1942 uno sciopero operaio è stato organizzato ad Atene e nella zona del Pireo; decine di migliaia di manifestanti, tra cui anche numerosi studenti, donne e impiegati; le proteste hanno portato a duri scontri anche con i militari italiani.

L’episodio di Domenikon è il primo di una serie di repressioni che continueranno nella primavera e nell’estate di quest’anno, in attuazione di una circolare del generale Carlo Geloso, comandante delle forze italiane di occupazione: per la lotta ai “ribelli” vale il principio della responsabilità collettiva.


1 Il nome Marzabotto è legato al più grave degli eccidi commessi in Italia dalle truppe tedesche dopo l’armistizio dell’8 settembre. Marzabotto è sulla via Porrettana, una ventina di chilometri a sud di Bologna, otto chilometri da Sasso Marconi. Nell’autunno del 1944 nelle campagne di Marzabotto agiva con successo una brigata partigiana, che, come altre in prevalenza comuniste, si chiamava Stella Rossa. Kesselring decise di eliminarla e ne dette l’incarico al maggiore Walter Reder, comandante del 16o reparto corazzato. La mattina del 29 settembre quattro reparti delle truppe naziste, comprendenti sia SS che soldati della Wehrmacht, accerchiarono e rastrellarono una vasta area di territorio compresa tra le valli del Setta e del Reno, utilizzando anche armamenti pesanti. “Quindi – ricorda lo scrittore bolognese Federico Zardi – dalle frazioni di Panico, di Vado, di Quercia, di Grizzana, di Pioppe di Salvaro e della periferia del capoluogo le truppe si mossero all’assalto delle abitazioni, delle cascine, delle scuole”, e fecero terra bruciata di tutto e di tutti. Nella frazione di Casaglia di Monte Sole la popolazione atterrita si rifugiò nella chiesa di Santa Maria Assunta, raccogliendosi in preghiera. Irruppero i tedeschi, uccidendo con una raffica di mitragliatrice il sacerdote, don Ubaldo Marchioni, e tre anziani. Le altre persone, raccolte nel cimitero, furono mitragliate: 195 vittime, di 28 famiglie diverse, tra le quali 50 bambini. Fu solo l’inizio della strage. Ogni località, ogni frazione, ogni casolare fu setacciato dai soldati nazisti e non fu risparmiato nessuno. Fra il 29 settembre e il 5 ottobre, dopo sei giorni di violenze, il bilancio delle vittime civili si presentava spaventoso: oltre 1800 morti. Alla fine dell’inverno fu ritrovato sotto la neve il corpo decapitato del parroco Giovanni Fornasini.

Un racconto più ampio è in http://it.wikipedia.org/wiki/Strage_di_Marzabotto

2 Per la storia dell’aggressione italiana alla Grecia si può vedere http://it.wikipedia.org/Campagna_italiana_di_Grecia

3 Il racconto di questa tragedia è in http://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_civile_greca

4 Lo scrittore Manlio Cancogni (Bologna 1916; premio Bagutta, premio selezione Campiello, premio Strega, premio Grinzane) è stato congedato dall’esercito per motivi di salute e assegnato come docente di italiano all’Istituto di cultura di Atene. Dopo un lungo e lento viaggio in treno da Vienna a Belgrado sul mitico (ma ora soltanto di nome) “Orient Express” e poi in tradotta militare via Salonicco, è arrivato nella capitale greca. È il novembre del 1942. Nel suo libro “Sposi a Manhattan” (Diabasis, 2005) così racconta: “Nella carestia della scorsa primavera moltissime erano state le vittime. Grande era stata soprattutto la strage fra i bambini, finché le autorità erano riuscite a farli sgombrare in massa, mandandoli lontano da casa, nei villaggi del Peloponneso, dove c’era una relativa abbondanza di cibo. Con le razioni ufficiali, i più vecchi e i malati resistevano solo poche settimane. La morte per inedia, in certi casi, repentina, non risparmiava nemmeno i più giovani e vigorosi. Alcuni morivano mentre erano in strada; cadevano sul marciapiede e vi restavano, prima di essere portati via, anche ore. Altri morivano al caffè, luogo rimasto caro agli ateniesi nonostante la moria e le angustie dell’occupazione militare. Ce n’erano molti, vastissimi, con diecine di tavoli sui marciapiedi, come sui boulevards parigini, sempre affollati. Uno sedeva, e restava lì, con la testa piegata su una spalla o sul petto, quando non scivolava giù, sul pavimento, fra le gambe delle sedie e del tavolo. Per la loro crudezza certi episodi sembravano inventati. Si diceva ad esempio che in molti casi i familiari nascondevano la morte di un congiunto per non dover restituire le tessere del pane e degli altri generi alimentari, riso, grassi, carne, anche se il loro valore, di fatto, fosse solo nominale, mancando le derrate sufficienti a soddisfare quella pur limitatissima richiesta. Il morto lo portavano al cimitero loro stessi, talvolta nemmeno in una cassa, ma avvolto in un lenzuolo, di sera, poco prima del coprifuoco, su un carretto tirato a mano, nell’impossibilità di disporre di un furgone o di un altro mezzo e il necessario carburante, articolo riservato quasi esclusivamente ai militari italiani e tedeschi o a qualche principe del mercato nero. Arrivati all’ingresso del cimitero, scaricavano il cadavere in terra e lì lo lasciavano, allontanandosi in fretta per non consegnare le tessere annonarie a lui intestate. Abbandonati, i corpi restavano anche per una notte in balia dei cani randagi, finché non arrivavano le guardie civiche o i soldati a toglierli e portarli alla fossa comune”.

16 febbraio – Di più

– Il 15 febbraio del 2009 l’Ansa ha pubblicato un lungo servizio sull’eccidio di Domenikon. Dopo aver raccontato il fatto, così scrive: “‘Fu terribile: presero ragazzi e uomini e li ammazzarono. Poi bruciarono il villaggio con furia inaudita, non lasciarono nulla in piedi’ racconta all’Ansa Athanassios Sitsikritsis, 82 anni, uno degli ultimi sopravvissuti. Sopravvisse perché un soldato italiano, impietosito dall’appello della madre, gli permise di camuffarsi da donna e sfuggire così al massacro.

“‘Un crimine assurdo, inutile; non arrestarono o fucilarono nessuno dei partigiani che presero parte all’attacco’ spiega.’Perché a Domenikon non c’erano partigiani,venivano da fuori. Anzi avevamo chiesto loro di non operare nella nostra zona per evitare spaventose conseguenze’. Ma il destino si compì e “gli italiani uccisero subito un gruppo di persone sul posto, poi rastrellarono civili, contadini, li fucilarono e gettarono in due fosse comuni: su una di queste è stato eretto il sacrario di Domenikon, paese ricostruito dopo la guerra’ ricorda da parte sua Konstantin Chatzinas, 80 anni,ancora vivo solo perché all’epoca ne aveva 14.

“Oggi, a 66 anni di distanza, alla commemorazione di quell’eccidio rimasto impunito, ha per la prima volta partecipato un ambasciatore d’Italia, Giampaolo Scarante, il quale non ha avuto esitazioni nell’ammettere le responsabilità dell’Italia e chiedere implicitamente scusa. ‘Sono venuto con dolore e commozione per manifestare il mio profondo cordoglio a tutte le vittime di Domenikon’ ha detto; ‘e per esprimere il mio dolore di uomo, di padre e di rappresentante di un paese responsabile di una grande atrocità” e con ‘gravissime responsabilità storiche’.

“‘La presenza dell’ambasciatore è molto importante’ dichiara all’Ansa il sindaco di Domenikon, Athanassios Missios. ‘È un’occasione per chiedere scusa di un fatto terribile. Ma anche per chiarire che gli italiani di oggi non sono i fascisti del 1943’ afferma il sindaco, un cardiologo che ha studiato in Italia. Non c’è odio o recriminazione nelle sue parole, e come lui sono in molti a voler ringraziare l’ambasciatore di essere finalmente con loro.

“‘Sono contento di essere qui, anche se tanti anni dopo’, dice Scarante al sindaco. Il crimine di Domenikon è infatti rimasto impunito e per troppo tempo dimenticato dalla storiografia ufficiale. Almeno sino al documentario greco-italiano presentato lo scorso anno, ‘La guerra sporca di Mussolini’. Anche in Grecia l’eccidio è rimasto quasi occulto,un fatto locale. Nessun esponente delle istituzioni nazionali si è mai recato a Domenikon. Ma adesso il presidente Karolos Papoulias, dicono, ha promesso di farlo, il prossimo anno.

“Scarante ha deposto corone al sacrario delle vittime, e al monumento a Nikolaos Babalis, capo della polizia locale, che denunciò subito con sdegno l’eccidio e venne per questo arrestato, tradotto in Italia e condannato a morte, pena non eseguita”.


– La rappresaglia compiuta dalle truppe italiane nel villaggio greco di Domenikon è in contrasto col mito degli “italiani brava gente” che si è diffuso nell’immaginario collettivo (anche internazionale) negli anni che hanno seguito la fine della seconda guerra mondiale. È un mito fondato sulla non conoscenza (o sulla rimozione storica) dei crimini di guerra commessi dall’esercito regio e fascista non solo in Grecia ma anche in Slovenia, in Croazia, in Dalmazia e, ancor prima dell’ultima guerra, nelle colonie africane (i gas nell’aggressione all’Etiopia, 1935-1936; le decine di migliaia di musulmani morti nell’occupazione della Libia negli anni Venti e nei primi anni Trenta).

Il mito è legato a un altro mito, quello del maschio italiano, del “latin lover” focoso ma romantico, quindi del soldato che, in regime di occupazione o in assenza di combattimenti, cerca di soddisfare le sue ambizioni di seduttore sentimentale o, in maniera non violenta, i suoi bisogni sessuali nell’incontro con donne compiacenti che vivono sul posto. Il mito ha trovato alimento in due film di successo: “Mediterraneo”, un film di Gabriele Salvatores, premio Oscar 1992; e “Il mandolino del capitano Corelli”, un film americano del 2001 (si veda più avanti); entrambi basati sullo stereotipo “italiani poco inclini alla guerra, meglio spaghetti e mandolino” e “o sole mio”.

Questo mito ha portato col tempo – specie nei primi anni Duemila, dopo mezzo secolo di silenzi – a un altro stereotipo, completamente opposto, quello degli “italiani cattiva gente” negli anni di guerra. È uno stereotipo realisticamente più fondato, affidato ai tanti episodi, per la maggior parte ignorati dall’opinione pubblica italiana o dimenticati o politicamente rimossi, che non a torto sono stati classificati come “crimini di guerra” (si veda la giornata del 14 agosto – la giornata è ancora in fase di studio).

La realtà vera è complessa, spesso contraddittoria, anche diversa secondo i tempi, secondo i Comandi militari, secondo le zone storico-geografiche, secondo i comportamenti della popolazione locale, secondo l’esistenza o no di azioni di resistenza partigiana, quando a violenza era spiegabile rispondere con altrettanta o maggiore violenza. Ci sono episodi numerosi di comportamenti miti e umani da parte dei soldati italiani, specie in Grecia, di fronte alla gente che moriva di fame nelle strade; e anche di precarie vicende sentimentali nelle isole del Dodecaneso, dove per lunghi tempi la guerra combattuta non si faceva sentire. E ci sono ordini e strategie degli alti Comandi militari più repressive, dove la guerriglia partigiana era più forte (come in Croazia e Slovenia, e quindi la politica della “terra bruciata”, delle fucilazioni e delle deportazioni), e meno repressive nelle zone più tranquille, dove spesso era frequente anche la discrepanza fra gli ordini superiori e la loro applicazione da parte di truppe prive di motivazioni, scarse di mezzi e costantemente sulla difensiva.

In questo contesto c’è un fenomeno difficilmente spiegabile: l’atteggiamento dei Comandi militari italiani verso gli ebrei in contrasto con le leggi razziali del regime fascista; non solo la frequente non adesione alla persecuzione svolta dalle autorità tedesche contro la popolazione di religione ebraica (numerosa in Grecia), ma addirittura il salvataggio di moltissimi ebrei, sia col loro trasferimento dalle regioni controllate dai tedeschi a quelle controllate dagli italiani, sia, a volte, anche col rifiuto di consegnarli quando richiesti dai Comandi germanici.

Un caso tipico è quello del generale Roatta, che, denunziato come criminale di guerra dalla Jugoslavia di Tito, è considerato in Israele come uno dei pochi che protessero gli ebrei dall’annientamento. Come si spiega? Un interesse umanitario contro una persecuzione che sollevava critiche di ordine morale e culturale oppure, come sostiene qualche storico (Eric Gobetti in “Memoria e rimozione, Viella, 2010), un gesto simbolico, cioè l’affermazione dell’autonomia delle forze armate italiane di fronte alla prepotenza dell’alleato tedesco?

– Nella protezione degli ebrei e nell’opposizione alla politica antisemitica dei tedeschi molto più chiaro è il comportamento delle autorità diplomatiche italiane. A Salonicco, dove gli ebrei erano 58 mila, quasi la metà della popolazione, era console italiano nel 1943 Guelfo Zamboni. Fra il marzo e l’agosto di quell’anno i tedeschi cominciarono le deportazioni nei campi di sterminio in Germania e in Polonia, ma, con cavilli burocratici e documenti falsificati che ne attestavano la cittadinanza italiana, il console Zamboni riuscì a salvarne 329, di cui soltanto 48 erano cittadini italiani. Nel 1992, all’età di 95 anni, Zamboni ha ricevuto in Israele il certificato di “Giusto delle nazioni” e un albero che porta il suon nome è stato piantato nei giardini dello Yad Yashem di Gerusalemme.

Zamboni, che ha avuto poi incarichi diplomatici in Iraq e in Thailandia ed è stato ambasciatore a Bangkok, non ha mai voluto parlare della sua opera e ha concesso un’intervista soltanto dopo il riconoscimento israeliano. Un sito biografico su di lui è http://it.wikipedia.org/wiki/Guelfo_Zamboni.

Scrivendo di lui sul “Corriere della sera” del 1o dicembre 2008 Sergio Romano racconta quello che gli ha detto il suo patrigno Alfredo Nuccio, a quell’epoca console ad Atene: che gli ordini ricevuti da Roma nel febbraio marzo del 1943 erano “di fare il più ampio ricorso alla procedura degli atti notori onde rilasciare, senza altre formalità e domande, passaporti italiani a chi rischiasse di essere deportato dai tedeschi”. La nota integrale di Romano si può leggere in “1943: i consoli italiani e gli ebrei di Salonicco“.

La posizione del ministero degli esteri italiano (ministro era allora Galeazzo Ciano) è confermata anche da una circolare inviata dal ministero degli esteri al consolato d’Italia a Parigi nel maggio 1942: “Per difendere il prestigio che le comunità italiane hanno acquisito in vari paesi del bacino mediterraneo, particolarmente in Tunisia, Grecia (Salonicco), Marocco ed Egitto, non possiamo dissociarci dal destino di quegli ebrei che di queste comunità fanno parte”. Il testo integrale della circolare, che mostra un atteggiamento del ministero degli esteri in dissenso con le leggi razziali del 1938, è in http://www.olokaustos.org/geo/grecia/grecia7.htm.

Un’altra conferma: il 18 giugno del 1943 Zamboni lasciò Salonicco, ma la sua opera di protezione degli ebrei fu continuata dal successore, Giuseppe Castruccio.


– Si può stabilire una differenza di comportamenti fra la Wehrmacht e il regio esercito italiano? Così scrive Gianni Oliva nel suo “Si ammazza troppo poco” (Oscar Mondadori, 2007): “Per gli stra­teghi tedeschi, il terrore sistematico è strumento centrale della politica di occupazione: l’efferatezza nella repres­sione, la spettacolarizzazione delle esecuzioni, le devastazioni su vasta scala fanno parte di un progetto mirato a deprimere la popolazione nemica sotto il peso della paura e della fame per meglio sottometterla e spezzarne i legami con le resistenze armate: è il modello teorizzato prima della guerra dai vertici militari del Reich, applica­to nei Balcani, portato alle estreme conseguenze nell’invasione dell’Unione Sovietica, riproposto nell’Italia centrosettentrionale dopo il settembre 1943. La violenza del Regio esercito, all’opposto, appare una reazione difensiva di fronte agli attacchi delle formazioni partigiane e al­l’ostilità dei civili, dove la vendetta dei compagni caduti è una componente psicologica non indifferente: in quanto tale, essa non si presenta come un’affermazione di autorità e di potere, quanto piuttosto come una manifestazione spesso scomposta di debolezza. Il raffronto con la brutalità tedesca è dunque improponibile, sia sul piano quantitativo, sia su quello qualitativo”.


– All’UNWCC (“United Nation War Crimes Commission”), costituito a Londra il 20 ottobre 1943, il governo greco inviò nel dicembre del 1945 una lista di 111 nominativi italiani definiti “criminali di guerra”.


– “Italiani brava gente” è anche un libro scritto da Angelo Del Boca e pubblicato da Neri Pozza nel 2005. Comincia dal 1900-1901 a Pechino con la rivolta dei boxer; parla delle “pagine buie” firmate dal generale Cadorna nella prima guerra mondiale, delle campagne in Libia e in Africa Orientale, negli anni Trenta, e dell’occupazione della Slovenia nel 1941-1943. Il mito, ha detto Del Boca in un’intervista, “nasce verso al fine dell’800 e si dipana per tutto il secolo successivo fino ad arrivare alla strage dei nostri soldati in Iraq. Molti se ne sono stupiti, ma come? L’effetto del mito è anche questo. A differenza degli italiani, i britannici, per fare un esempio, si sono sempre assunti le loro responsabilità. Se vanno in guerra vanno in guerra e basta. Considerano insomma la brutalità un aspetto legittimo di una campagna militare. Noi invece questa ammissione non la vogliamo mai fare e allora ci andiamo mascherando le aggressioni con i ponti e le strade”.


– La storia di Domenikon è stata raccontata in un documentario per la televisione intitolato “La guerra sporca di Mussolini”, diretto da Giovanni Donfrancesco e basato sulle ricerche della storica italiana Lidia Santarelli, del Centro per gli studi mediterranei e europei della New York University. Secondo Santarelli, Demenikon non fu soltanto un capitolo isolato e terribile del conflitto ma l’inizio di una nuova strategia fascista nei territori occupati, quella della “responsabilità collettiva”.


– I film che hanno alimentato il mito degli “italiani brava gente” sono “Mediterraneo” e “Il mandolino del capitano Corelli”. “Mediterraneo” è un film del 1991, diretto da Gabriele Salvatores, vincitore nel 1992 del premio Oscar per il migliore film straniero. Fu girato nell’isola greca di Castelrosso (in greco Megisti) nel Dodecaneso. Interpreti principali Claudio Bigagli e Diego Abatantuono. È la storia di un reparto di otto militari italiani sbarcati per stabilire un presidio e che presto hanno rapporti di umana convivenza con la gente del posto, fra cui la bella Vassilissa (Vana Barba). Si può sapere di più in http://it.wikipedia.org/wiki/Mediterraneo_(film).

Il “Mandolino del capitano Corelli” è un film del 2001, diretto dal regista americano John Madden e interpretato da Nicolas Cage, Penelope Cruz, Irene Papas. È la storia di un reparto militare italiano che sbarca nell’isola di Cefalonia, dove il capitano Corelli, che mostra di amare il mandolino piuttosto che la pistola, si innamora della bella Pelagia. IL film è tratto da un romanzo, dal titolo omonimo, di Louis de Bernieres. Per saperne di più: http://it.wikipedia.org/wiki/Il_mandolino_del_capitano_Corelli_(film).

L’infelice ambientazione del film nell’isola di Cefalonia, teatro di uno dei più tragici episodi della guerra, ha provocato discussioni e critiche. Si veda “Il vero capitano Corelli: Cefalonia tradita da un bestseller“.

– Alla presenza militare italiana in Grecia e nelle isole dell’Egeo è legata una sconcertante vicenda degli anni Cinquanta. Sul numero di febbraio del 1953 della rivista “Cinema nuovo” diretta da Guido Aristarco fu pubblicato un soggetto cinematografico intitolato “L’armata s’agapò” e scritto dal critico cinematografico Renzo Renzi. In greco “s’agapò” significa “ti amo” e Renzi raccontava le sue esperienze di ufficiale di fanteria nella Grecia occupata: episodi di violenza bellica e avventure sentimentali, armi e sesso.

Renzi e Aristarco furono arrestati per vilipendio delle forze armate, rinchiusi per 40 giorni nel carcere di Peschiera e giudicati non da un tribunale ordinario ma da un tribunale militare, che condannò Renzi a sette mesi e tre giorni di reclusione e alla rimozione dal grado e Aristarco a sei mesi. Entrambi ebbero la condizionale, ma il caso sollevò ampi dibattiti e da qual momento non ci furono più civili processati dalla giustizia militare.