17 gennaio
L’ordine di ripiegamento generale è arrivato in giornata – qui prima, là dopo – e non è stata una sorpresa per nessuno dei duecentoventimila soldati italiani schierati nel grande bacino del Don; specialmente per quelli delle divisioni Tridentina, Julia e Cuneense che fanno parte del Corpo d’armata alpino. I colpi delle artiglierie sovietiche, che prima si sentivano solo da est e poi anche da nord, da due giorni si sentono anche da ovest. Non è difficile capire che l’accerchiamento è ormai completo.
Il Corpo d’armata alpino è uno dei tre Corpi d’armata che, col ventiquattresimo (divisioni Pasubio, Torino e Celere) e il secondo (divisioni Ravenna, Cosseria e Sforzesca) costituiscono l’Armir (“Armata italiana in Russia”). Dal luglio scorso questo è il contributo che Mussolini vuol dare alla guerra di Hitler contro l’Unione Sovietica. Il ventiquattresimo Corpo d’armata è però in Russia dal luglio di due anni fa come Csir (“Corpo di spedizione italiano in Russia”).
Soltanto un mese prima i tedeschi avevano attaccato l’Unione Sovietica: di sorpresa, il 22 giugno del 1941. Un fronte di 1400 chilometri, dal mar Baltico al mar Nero; 164 divisioni in marcia verso oriente: 29, di cui tre corazzate e tre motorizzate, dalla Prussia verso Leningrado; 50, di cui nove corazzate e sei motorizzate, dalla Polonia settentrionale verso Mosca; 41, di cui cinque corazzate e tre motorizzate, dalla Polonia meridionale verso il basso Dnieper e il Caucaso; 26 divisioni come riserva generale. E poi 12 divisioni finlandesi a nord e 17 divisioni romene a sud. Nel cielo 2700 aerei.
Nel primo mese i tedeschi hanno invaso e devastato la Russia per una profondità di 500 chilometri. Occupate Lituania, Lettonia ed Estonia; occupata la Bielorussia e oltre, fino a Smolensk; occupata Kiev e l’Ucraina; in ottobre anche Orel e poi Kalinin (Tver). Il 19 Stalin proclama lo stato d’assedio a Mosca; la capitale è circondata da tre lati; la pattuglie avanzate tedesche vedono all’orizzonte le cupole d’oro delle cattedrali del Cremlino. Ma il 2 ottobre è cominciato a nevicare. Ancora una volta, come ai tempi di Napoleone, Mosca è salvata dal gelo dell’inverno.
In primavera, 1942, l’offensiva tedesca riprende, a nord per mettere fuori giuoco Leningrado, a sud per arrivare al petrolio del Caucaso. Al centro, Mosca può attendere. In maggio è conquistata la Crimea; si supera il Don, si arriva al Volga. Ma sul Volga c’è Stalingrado e Stalingrado non si arrende1. È settembre. Comincia la battaglia di Stalingrado e comincia la controffensiva dell’Armata Rossa.
Sulle alture del Don, non molto lontano da Stalingrado, sono schierati gli italiani, su un fronte di trecento chilometri lungo il fiume. Sono malmessi. Sta per arrivare l’inverno e non hanno, a differenza dei russi e anche dei tedeschi, indumenti pesanti, adatti a resistere al gelo e alla neve. Hanno scarponi leggeri; invece che stivali di feltro, hanno le fasce gambiere come nella prima guerra mondiale; in testa, sotto l’elmetto, non cappucci foderati di pelliccia ma passamontagna di lana, spesso di lana artificiale.
L’11 dicembre l’Armata Rossa dà il via sul Don a una battaglia di logoramento, poi, il 16, alla battaglia di rottura. Le divisioni italiane di fanteria cominciano a ritirarsi; alcuni reparti vengono accerchiati, alcuni reparti riescono a sfondare l’accerchiamento e a raggiungere zone meno battute dalle artiglierie e dall’aviazione. Così passa il Natale.
È il nuovo anno, il 1943. Il Corpo d’armata alpino è ancora schierato sul fronte del Don. Soltanto stamani, a cominciare dall’alba, il generale Italo Gariboldi ha fatto arrivare l’ordine di ripiegamento. In attesa dell’ordine il tenente Bruno Zavagli2 ha passato la notte in un’isba insieme al suo reparto di autieri; un’attesa ansiosa e assurda: “Per ore abbiamo fatto giochini da ragazzi; perfino ‘è arrivata una nave carica di…’; poi il gioco delle rispondenze; uno parte con una parola, per esempio ‘caldo’, e il vicino prosegue con ‘fuoco’ o ‘inferno’ oppure con un contrario, come ‘freddo’. Ma tutte le parole venivano suggerite da quell’ambiente maledetto di neve e di gelo”.
Finalmente arriva la staffetta del Comando: partenza immediata di sei autocarri con autieri esperti: “Gli autocarri sono già pronti e carichi. Riscaldiamo le coppe dell’olio (la temperatura è già a meno 30). Scelgo i più anziani e via. Saluti a chi rimane. Li rivedrò? Ci rivedremo? Si scende per una larga pista affiancata da autocarri dati alle fiamme. Cadaveri da ogni parte testimoniano di combattimenti precedenti il nostro arrivo. Ma i sovietici non ci inseguono, non ci incalzano. Sanno meglio di noi che cosa ci attende”.
A Opyt, un piccolo paese, il tenente Zavagli riceve l’ordine di abbandonare gli autocarri e di prenderne la benzina; serve ai mezzi cingolati tedeschi che accompagneranno gli alpini. Si va a piedi, allora. “Scende la notte e abbiamo fatto appena cinque o sei chilometri, giusto per uscire dal tiro delle mitragliatrici russe. Nell’oscurità incrociamo colonne di soldati tedesche e italiani, alcuni su automezzi, altri no, ma tutti incattiviti dalla paura dell’imminente sfacelo. Lo si avverte sulla pelle, nell’aria che respiriamo, nel rumore che produciamo, nelle urla e nelle bestemmie che si incrociano”.
“I volti che scorgiamo al breve bagliore di un fuocherello acceso da qualcuno per riscaldarsi, al breve riverbero di un fiammifero avvicinato a una sigaretta, al lume di una torcia elettrica, sono volti di uomini atterriti. Anche i tedeschi, che temono di essere fatti prigionieri. Tutti hanno facce livide, barbe lunghe, occhiaie infossate, occhi arrossati, sguardi che sbattono in ogni direzione, in cerca di un riparo, di una via di fuga che non c’è”.
“Autieri senza auto, armati di un moschetto con un solo caricatore, avevamo un solo scopo, di salvare la pelle e di raggiungere le linee amiche. Ancora non sapevamo che eravamo accerchiati, di quanto fosse lontana la salvezza, di come potevamo raggiungerla”.
1 Con Stalingrado c’è un’altra città che non si arrende; è Leningrado (oggi San Pietroburgo), che, raggiunta e circondata dalle forze tedesche l’8 settembre 1941, riesce a resistere fino al gennaio 1944, quando sarà liberata. Su tre milioni di abitanti i morti furono un milione: per i bombardamenti delle artiglierie e degli aerei e soprattutto, per la fame e gli stenti.
2 Bruno Zavagli, avvocato a Firenze; 1918; testimonianza all’autore di queste pagine. E’ morto nel dicembre del 2015.
Con la collaborazione di Franco Arbitrio
17 gennaio – Di più
– Il professore Giorgio Scotoni suggerisce una precisazione sull’ordine di ripiegamento dell’Armir: “Alla data del 17 gennaio, delle dieci divisioni italiane restavano schierate in linea sull’Alto Don soltanto le divisioni del Corpo Alpino (Julia, Tridentina, Cuneense, Vicenza), in totale 80 mila uomini circa. Le altre divisioni, cinque di fanteria più la Celere, erano state sgominate sul medio Don un mese prima, tra il 16 e il 19 dicembre 1942, travolte dalla grande offensiva sovietica Piccolo Saturno. Così si comprende meglio la ‘morte annunciata’ inflitta al Corpo Alpino”.
– Lelio Ciccone, Itri, classe 1922, ha scritto dopo più di sessanta anni e pubblicato nell’aprile 2010 (“Memorie di un viaggio di guerra. Itri-Fronte del Don-Itri”, edizioni Odisseo) le sue memorie di bersagliere radiotelegrafista nella divisione Celere sul fronte del Don in Russia. Cortesemente ce lo ha inviato. Eccone alcune pagine: la ritirata del gennaio 1943.
“Nella mattinata del 15 gennaio capimmo che era giunto il momento di abbandonare Tscherkowo con le forze e con i mezzi a nostra disposizione. Dopo qualche ora ci venne dato l’ordine di prepararci a lasciare la città. Per alcuni giorni la calma fu quasi completa. Questo faceva sperare che le forze russe avessero rinunziato a conquistare il caposaldo ed avessero proseguito oltre. Se questa sensazione era vera, dove si erano dirette? Ce le saremmo ritrovate davanti per impedirci di raggiungere le nostre nuove linee? O aspettavano una nostra sortita allo scoperto, nella steppa, per annientarci?
“Quando ebbi la certezza che la partenza era prossima indossai due mutandoni di lana, due maglie e la tuta mimetica; misi nello zaino qualche galletta e due scatolette di carne, alcune bombe a mano e proiettili per il fucile.
“I viveri li avevamo recuperati nella mattinata dai nostri magazzini controllati dai tedeschi e da loro frettolosamente abbandonati, non prima di avervi attinto tutto l’occorrente per la ritirata. Gli stessi tedeschi, avvisati prima di noi della probabile partenza, avevano anche provveduto a requisire per tempo tutte le slitte e gli animali da trasporto ancora in possesso dei civili residenti in paese.
“Nel frattempo fu impartito l’ordine di “far sparire” i prigionieri russi, caduti in mano nostra durante i combattimenti. Chi ebbe quest’ordine, non avendo il coraggio di ucciderli a sangue freddo, fece in modo da nasconderli in ricoveri sotterranei, salvando loro la vita. Alcuni di loro preferirono seguire le nostre truppe, piuttosto che attendere l’arrivo dei loro compagni d’armi. Non ebbero lo stesso trattamento i prigionieri caduti nelle mani dei tedeschi.
“Oltre 1.200 feriti e congelati, per lo più italiani, vennero lasciati negli ospedali, assistiti da qualche medico militare. Non vi erano mezzi per trasportarli e si dovette abbandonarli al loro destino.
“La sera iniziò la ritirata. Noi italiani in condizioni di partire eravamo circa seimila, in parte truppe della difesa e dei servizi di corpo d’armata presenti a Tscherkowo ed in parte resti della Torino, della Pasubio e della Celere, sfuggiti alla carneficina di Arbusow. I tedeschi erano altrettanto numerosi.
“Dopo un’attesa nel gelo, che ci sembrò lunghissima, la testa della colonna iniziò la marcia, nell’oscurità e nel silenzio assoluto, dirigendosi in direzione sud-ovest. Ricordo che procedemmo a passo svelto lungo un percorso curvilineo a largo raggio. Le forze russe che ci sbarravano la strada, colte di sorpresa dalla nostra sortita, vennero sbaragliate dai pochissimi carri armati Tigre disponibili (quelli rimasti illesi nella sacca di Arbusow), seguiti da un battaglione di paracadutisti tedeschi, da circa 400 bersaglieri, giunti dall’Italia con una delle ultime tradotte, e da soldati ancora abili della Torino e della Pasubio. La temperatura, che dai 20 gradi sotto zero del giorno passava ai 40 della notte, continuava inesorabilmente ad abbassarsi. La neve all’esterno del paese, sulle piste non battute, era alta e rallentava il nostro cammino.
“Ostacolati dai proiettili delle artiglierie e delle katjusce russe che piombavano a casaccio sulla colonna e specialmente sugli ultimi gruppi della retroguardia, illuminandola con lampi e bagliori, nella notte superammo due villaggi in fiamme: Yassnyi Promin e Yeshatschyn. Isbe e magazzini bruciavano; noi marciavamo avvicinandoci ai roghi per godere, per qualche decina di metri, del tepore delle fiamme.
“Dopo molte ore di cammino nel buio apparvero i primi chiarori del giorno: il percorso che si presentava davanti a noi, per chilometri e chilometri, era un’immensa distesa di neve e di ghiaccio. Sulla pista si udiva monotono lo scricchiolio dei passi. Si faceva sentire la stanchezza che ci avvolgeva tutti. Le membra intirizzite cominciavano a non reggere il passo, ma non c’era alternativa: l’unica cosa da fare era marciare, marciare, andare avanti sui biancori lividi della neve.
“Nella notte avevo perso i compagni con i quali avevo vissuto la dura esperienza della trincea; qualcuno uscendo da Tscherkowo, mentre cercavamo di superare il fuoco nemico, altri perché si erano attardati lungo il cammino o vicino ai falò. Non saprò mai se sono sopravvissuti o se sono morti durante quella marcia.
“Ero rimasto a solo e potevo contare solo sulle mie forze, anche se avevo intorno a me altre migliaia di soldati nella stessa situazione. Se fossi stato ferito dal nemico, se fossi rimasto congelato o stremato dalla stanchezza nessuno, dietro di me, mi avrebbe aiutato o curato. E se fossi caduto in mano ai russi, avendo avuto l’esperienza di come loro stessi venivano mandati a morire negli assalti alle nostre linee, non ci sarebbe stata ugualmente alcuna possibilità di sopravvivenza.
“La mattina del 16 raggiungemmo un altro paese, stavolta non incendiato, Losowaja, dove speravamo di poter riposare per qualche ora. Non ricordo di aver visto civili russi, forse erano stati portati via prima del nostro arrivo oppure erano ben nascosti in qualche isba o rifugio sotterraneo. Fummo anche qui oggetto di un furioso bombardamento: vi erano esplosioni ovunque e non era possibile fermarsi. Ci sparpagliammo sulla pista innevata e, cercando protezione dietro qualsiasi riparo o fosso, continuammo a camminare in direzione di Berosowo. Qui i carri armati russi ci attendevano appostati sulle colline limitrofe, per bloccare con cannoneggiamenti e sventagliate di mitragliatrici l’avanzata della colonna. Per evitare una carneficina si deviò per Petrowski, dove incontrammo altre forze corazzate nemiche, più numerose, che ci procurarono consistenti perdite.
“Ero a circa tre-quarti della colonna e un po’ distante da essa, quando improvvisamente apparvero due carri armati T34, che divisero il nostro gruppo, mitragliando e schiacciando gli innocenti che incontravano lungo il percorso. Scomparvero poi nella steppa così come erano apparsi. Con il nostro moschetto e le bombe a mano nulla potevamo contro questi mostri d’acciaio, né potevamo aiutare gli sfortunati che erano stati feriti nell’agguato.
“Il vapore del respiro, condensato dal freddo polare, si trasformava poco a poco in minutissimi ghiaccioli che incrostavano ciglia e sopracciglia. I corpi assiderati o feriti a morte dai russi, distesi ai margini della pista, infondevano nuova forza a noi che resistevamo e lottavamo, braccati come bestie. Eravamo morsi dal freddo, avevamo lo stomaco attanagliato dalla fame, i piedi fradici: le suole delle scarpe si aprivano al contatto con il ghiaccio della steppa.
“I russi, invece, calzavano i valenki, stivali a feltro spesso, che coprivano gli arti fino al ginocchio, elastici e flessibili. Qualcuno di noi era riuscito a recuperarli per sé, barattandoli con razioni di cibo o con l’orologio da polso, molto apprezzato dai civili russi. Era stato invece impossibile toglierli ai soldati caduti negli assalti perché i corpi privi di vita diventavano in pochissimo tempo un unico blocco di ghiaccio.
“Ad ogni isba incontrata per strada nascevano dispute tra coloro che volevano entrare, anche solo qualche minuto, per risollevarsi dal freddo e dalla stanchezza, e coloro che, inverosimilmente stipati all’interno, non permettevano l’ingresso. Stravolti, esseri irriconoscibili coperti di stracci, ci davamo da fare per resistere e non lasciarci cadere, perché questo avrebbe comportato la nostra morte. Ci si dissetava con la neve che facevamo sciogliere in bocca, l’unico ristoro che potevamo permetterci.
“Ad ogni nostro passo la neve arrivava a metà gamba, ci affondavamo dentro. Un vento gelido toglieva a tutti il respiro. Anche il passamontagna ci dava fastidio, perché si trasformava in una rigida maschera di ghiaccio. Con altri compagni di viaggio, incontrati casualmente e puntualmente persi dopo qualche chilometro di strada, ci tenevamo in fila indiana a cento-duecento metri di distanza dalla moltitudine in cammino, nella speranza di sfuggire ai colpi della katjuscia. Eravamo meno soggetti all’artiglieria nemica, ma risultavamo bersagli più facili per i cecchini, che di tanto in tanto ci prendevano di mira, nascosti lungo il percorso dietro mucchi di neve, in pagliai o in qualche isba bruciata. Ho visto crollare a terra, morto, un soldato che camminava qualche metro davanti a me; fu soccorso subito, ma inutilmente, da un compagno d’armi che non poté far altro che prendergli il portafoglio e la piastrina con la speranza di sopravvivere per poterli, un giorno, consegnare ai suoi superiori o ai parenti in Italia.
“C’erano soldati con i piedi in cancrena, altri con schegge o pallottole in corpo, con gli occhi annebbiati o sbarrati, che andavano avanti piegati in due, le braccia penzoloni, trascinandosi lentamente nella neve. Tutti proseguivamo, sempre avanti, lungo quella pista di ghiaccio, con una grande voglia di vivere, spinti dalla forza della disperazione. Quelli a cui veniva meno anche quest’ultima risorsa, annientati nel corpo e nello spirito, si fermavano in mezzo alla neve, cadevano, si rialzavano per poi ricadere e non alzarsi mai più.
“La marcia continuò ancora nella giornata del 16. Ai margini della colonna continuavamo ad affondare nella neve fino al polpaccio. Era praticamente impossibile distinguere a quale divisione appartenessero le ombre di uomini, non più soldati, che come me cercavano disperatamente di portare in salvo la pelle. Lungo il percorso ci imbattevamo, oltre ai poveri esseri umani privi di vita, in cavalli impazziti che trascinavano slitte sfasciate e in una miriade di oggetti abbandonati: zaini, fucili, bombe a mano, cassette di munizioni.Verso nord sentivamo colpi di mortaio e vedevamo lampi all’orizzonte.
“A metà giornata fummo di nuovo sotto i colpi della katjuscia. La questa confusione era enorme: paurosi vuoti si aprivano nella colonna. Improvvisamente lq acolonna si fermò. I russi cercavano ancora una volta di sbarrarci la strada. La colonna sembrò disgregarsi, perché in tanti cercammo di sparpagliarci per evitare il fuoco nemico. Dopo un certo lasso di tempo, capimmo che alcuni carri armati avevano tentato di intralciare il nostro cammino, ma, per fortuna avevano rinunziato, consentendo alla colonna di riprendere la marcia.
“Ai margini della via assistevamo, sempre più spesso, ad uno spettacolo atroce: vedevamo soldati assiderati, congelati, con le mani rattrappite e le mandibole bloccate dal freddo. Alcuni di loro cadevano in ginocchio e così restavano, inchiodati dal gelo che li tratteneva in quella posizione. Erano centinaia i soldati sfiniti che rimanevano a terra e che poco a poco sparivano, definitivamente ricoperti dalla neve. Altri chiedevano aiuto. Per loro, purtroppo, non c’era scampo e noi non potevamo fare nulla per aiutarli.
“Era tutto così inverosimile: ognuno doveva pensare a sé. Del resto, era impossibile aiutare gli altri quando non si avevano forze nemmeno per se stessi. Si insinuava nella nostra mente il desiderio di fermarsi e finalmente lasciarsi andare ad un breve effimero riposo, preludio dell’assideramento.
“Era sopraggiunto il buio della notte tra il 16 ed il 17 ed il freddo intenso, che penetrava nelle ossa, continuava a mietere vittime in modo inesorabile. In lontananza vedemmo un grande incendio, sicuramente un altro villaggio in fiamme. Continuavo a vedere ai margini del nostro cammino, sempre più numerosi, cadaveri che giacevano sul ghiaccio, alcuni caduti in ginocchio e rimasti congelati.
“Raggiunto il punto da cui partivano i bagliori constatammo che era un altro villaggio abbastanza esteso che i russi, prima che vi giungessimo, avevano dato alle fiamme per impedirci di riposarvi nella notte. Senza soffermarci troppo a lungo cercammo di trarre qualche sollievo in quell’inferno di fuoco e di rovine fumanti. Ormai ci aspettavamo, da un momento all’altro, di essere catturati dai Russi. Ci spaventava più la cattura che la morte, vista come una liberazione dalle immani sofferenze che stavamo patendo. Eravamo ormai forza amorfa senza armi e munizioni, fatta eccezione per qualche bomba a mano. Anche io avevo da poco abbandonato il fucile, maledettamente pesante, perché sentivo che la forza fisica scemava sempre più.
“Quel paese era Strezolwka, luogo da cui raggiungemmo la pista per dirigerci a Belowodsk. Terribile fu il tragitto successivo, che venne percorso dalla nostra colonna sotto un intenso bombardamento russo. Molte furono le vittime, tanto che quel tratto di strada fu da noi definito la strada della morte. Proseguimmo in direzione di uno sperone collinoso con lento incedere, colti da un senso di fatalità, non preoccupandoci dei proiettili che esplodevano ovunque attorno a noi.
“Camminammo in salita, su quella pista completamente ghiacciata. Davanti a me decine di soldati scivolavano sulle lastre ghiacciate, restando impietriti nella neve; molti altri cadevano colpiti dal fuoco nemico.
“Superata la cresta della collina sentimmo allontanarsi pian piano i sibili e i colpi dei proiettili russi, che continuavano a bersagliare la coda della colonna. Improvvisamente tutto si acquietò, non si sentivano più le esplosioni che per giorni e giorni erano state il nostro tormento. Cominciò a circolare qualche voce ottimistica: presto saremmo stati in salvo oltre le linee tedesche.
“Così, resistendo ancora al gelo ed alla stanchezza, continuammo lentamente la marcia, che sembrava non aver termine, nella steppa ondulata ma sempre uguale. Ancora nessun segno degli avamposti tedeschi, ma neanche dei russi. Dopo aver superato la sommità dello sperone, la colonna si era divisa in due tronconi per rendere più complicati eventuali altri attacchi nemici, inoltrandosi su diverse piste, sempre verso occidente.
“Eravamo su un falsopiano che rendeva faticoso il cammino, quando all’improvviso si presentò davanti a noi qualcosa di inaspettato: nel buio, seminascosti in buche profonde di neve e di ghiaccio, intravedemmo due carri armati tedeschi, superbi, imponenti, con i cannoni puntati finalmente verso oriente. Dalle torrette i Tedeschi ci facevano segno di proseguire e di muoverci il più velocemente possibile.
“Non ci rendemmo immediatamente conto della realtà a cui andavamo incontro; poi, arrivando vicino ai carri armati, capimmo che essi potevano effettivamente averci aperto un varco verso la salvezza. Nessuno in quel momento gioì, memori di Tscherkowo, dove in molti provenienti da Arbusow avevano creduto di essere fuori dalla sacca, speranza rivelatasi una vera illusione. I Tedeschi ci urlavano: “kommen, kommen!”: “venite, venite!”.
“Appena compreso che non era un’allucinazione, esultammo. Eravamo stanchi morti, ma l’essere usciti dalla sacca ci dette forza ed energia. Eravamo finalmente fuori da un angoscioso e terribile accerchiamento durato oltre un mese e le gambe, fino a quel momento bloccate, sembravano aver ripreso vigore. Raggiunta la sommità del falsopiano, fortunatamente iniziò un tratto di sentiero in leggera discesa e dopo un po’, nella notte, oltrepassammo Belowodsk, camminando all’esterno dell’abitato.
“Il passo di tutti aveva come per incanto, quasi per magia, una leggerezza e una scioltezza inusitata; perfino la fame (non mangiavamo da due giorni) era l’ultima delle nostre preoccupazioni. Continuammo a marciare sulla pista ghiacciata, questa volta verso Starobelsk. Io vi giunsi poco prima dell’alba del 17. Qui, già dalla notte, era in corso il trasferimento dei feriti e dei congelati verso Vorischlovgrad e Kupiansk.
“Ero stravolto dalla stanchezza e sconvolto dall’esperienza vissuta e cercai di trovare ricovero in qualche isba. Mi resi conto che le isbe, nonostante fossero intatte, erano tutte stracolme di soldati in cerca di calore e di riposo. Dopo diversi infruttuosi tentativi, insistendo riuscii ad entrare in una di queste, al centro della quale c’era un focolare acceso. Con il sopraggiungere del giorno molti soldati, non appena ristorati dal tepore del fuoco, abbandonarono frettolosamente l’isba per riprendere la marcia, tanto era il timore che i russi potessero raggiungerci da un momento all’altro.
“Sfinito, senza scambiare alcuna parola con gli altri superstiti, riuscii a farmi un po’ di spazio e a trovare un posto a terra, vicino al fuoco crepitante. Mi addormentai immediatamente. Quando mi svegliai, era pieno giorno e nell’isba ero rimasto solo. Nessuno si era preoccupato di svegliarmi: forse la tuta mimetica bianca mi aveva fatto scambiare per un tedesco. Mi alzai e mi accorsi che le suole degli scarponi erano state in parte bruciate dalle fiamme. Pensai di essere ormai spacciato, ma non mi persi d’animo. Avvolsi le scarpe con stracci racimolati nell’isba ed andai fuori, dove imperversava una tempesta di neve, fatta da minuscoli granuli, che mi sferzavano violentemente il volto, pungendomi dolorosamente, come centinaia di spilli che si infilano nella carne viva.
“Con il passamontagna che mi copriva la testa e con il bavero alzato, nel tentativo di proteggermi il più possibile, cercai di individuare la strada da percorrere, ma orientarsi non era certamente facile e prendere una strada sbagliata avrebbe significato prigionia o morte certa. Non c’era anima viva, per cui presi la direzione che al momento mi sembrava quella giusta. Ero lì, solo e disorientato, e mi aspettavo di essere freddato da una sventagliata di proiettili da un momento all’altro. Dopo un bel po’ di strada intravidi nella tormenta tre sbandati che camminavano lentamente verso una direzione che sembrava portare ad ovest. Li raggiunsi e cercai di avere qualche informazione. Un ufficiale italiano, anche lui malconcio e barcollante, mi disse che eravamo a Starobelsk e bisognava far presto perché i russi ci stavano alle calcagna.
“Uscimmo dal villaggio immersi in un paesaggio uniforme e spettrale. Dopo qualche ora di marcia, senza incontrare altri fuggitivi, ci apparve come un miraggio una cucina da campo, dove alcuni inservienti offrivano a ciascuno un po’ di acqua calda, ma cibo neanche a parlarne. La fame si faceva sentire, la pancia ribolliva. Coloro che ci offrivano l’acqua erano nervosi e frettolosi perché temevano il sopraggiungere dei russi e attendevano gli ultimi sopravvissuti per allontanarsi al più presto.
“Mentre noi, ancora in condizione di camminare, riprendevamo la marcia, arrivarono alcuni camion italiani che caricarono feriti e congelati ormai impossibilitati ad andare oltre con le loro forze. Giungemmo di giorno, non so dopo quante ore, avendo perso la cognizione del tempo, in un altro villaggio semidistrutto, dove non sostammo per il timore di essere raggiunti dal nemico. Arrivarono altri camion che si fermarono vicino a noi. Tutti ci avvicinammo, ma ancora una volta furono fatti salire solo coloro che non si reggevano più in piedi.
“Trascorsero altre ore, poi un autista italiano, vedendoci malandati, si fermò e noi potemmo finalmente montare sul suo camion e abbandonarci sul cassone posteriore, coperto da un semplice telone. Il mezzo si avviò e prese la direzione di Karkhov, città a circa 150 chilometri da Valuijki, ma sfortuna volle che, fatti alcuni chilometri, il camion slittò sulla pista ghiacciata finendo in una scarpata.
“Era passato poco tempo dall’incidente, quando l’autista dell’automezzo bloccò il primo camion in transito diretto a Starobelsk. Il guidatore del mezzo ci prese a bordo e tornò indietro per condurci nella direzione da cui proveniva. Sicuramente fu molto contento di non essere costretto ad andare oltre sulla pista; i russi potevano essere in agguato ovunque.
“Giunti a Karkhov fui portato direttamente in ospedale e ricoverato, per due giorni. Ambedue i piedi mi dolevano tantissimo per il congelamento delle dita, di cui ancora oggi porto i segni. Nel corso della prima giornata, sistemato a terra in un corridoio, i medici mi scalzarono e disinfettarono le ferite dei piedi con quel poco di cui disponevano. Solo dopo le cure mi fu somministrata una brodaglia che sapeva di caffè. Nemmeno l’ombra di un tozzo di pane o di qualcosa di più consistente di una bevanda. A questo non davo, però, eccessivo peso: l’importante era aver avuto salva la vita”.
Nota di Sergio Lepri: Lelio Ciccone ha dimenticato di dirci che fra Certkovo e Kharkov ci sono, solo in linea d’aria, trecento chilometri.