24 giugno

Su invito del partito fascista il filosofo Giovanni Gentile in un discorso in Campidoglio a Roma esorta gli italiani, in nome delle tradizioni storiche e culturali del paese, a rimanere uniti in questo grave momento.

 

Giovanni Gentile ha parlato stamani per quasi due ore in Campidoglio. Discorso importante: non per quello che ha detto; ma per l’invito pressante che ha ricevuto dal Partito di rivolgersi al paese; per la sede che è stata scelta, la sala Giulio Cesare del Campidoglio, insolita e di per se stessa autorevole; per la presenza delle maggiori personalità del mondo istituzionale, politico, militare, universitario, nominalmente convocate; per l‘atmosfera quasi di angoscia e di ansietà che ha caratterizzato il convegno; per l’ordine che è stato dato ai giornali quotidiani di pubblicare domani  il testo integrale.

Il tono con cui Gentile ha letto il lungo discorso è stato appassionato, spesso commosso. Qualcuno l’ha chiamato il discorso della disperazione.

Un discorso sorprendente. Del fascismo di Gentile ormai non ci si sorprende più, anche se continua a rimanere inspiegabile la sua convalida di tutto quello che Mussolini e il regime fascista hanno fatto. Com’è che un uomo della sua altezza culturale, uno dei filosofi più importanti del secolo, ha potuto accettare per venti anni l’abolizione dei diritti civili e delle libertà di espressione e di stampa, l’eliminazione di ogni opposizione, anche le leggi razziali? Quello che sorprende oggi, dopo tre anni di una guerra che si sta dimostrando disastrosa e di un’alleanza nefasta, con eventi recenti – la ritirata in Russia, la perdita dell’Africa, lo sbarco a Pantelleria come preludio dello sbarco in Italia – che fanno presagire la catastrofe finale, quello che sorprende oggi è la sua convinzione che gli italiani tutti trovino la loro unità proprio per la drammaticità del momento. “Parlo come fascista, quale sono fiero di essere” così dice all’inizio del discorso, “perché mi sento profondamente italiano e perciò parlo prima di tutto come italiano che ha qualche cosa di dire a tutti gli italiani, fascisti e non fascisti, con tessera o senza tessera, italiani tutti ancorché dissenzienti, e perciò tutti virtualmente fascisti perché sinceramente zelanti di un’Italia che conti nel mondo, degna del suo passato”.

Gentile sapeva che non parlava soltanto ai presenti in sala; lo avevano invitato per parlare al paese; per ciò l’appello: “Oggi, Italiani, siamo al punto. Oggi per la nostra Italia ci tocca di vivere o di morire. E’ un’Italia cui gli stranieri si inchinarono sempre e si inchinano nel segreto del pensiero, anche quando l’interesse li tragga a schierarsi contro di lei. Ma l’Italia deve esistere nel mondo come una realtà viva e presente e non come un semplice ricordo. A noi spetta di tenerla in vita, conservarne la presenza. Gli stranieri che hanno imparato a conoscere questa Italia nei libri non dovranno mai dire che per colpa nostra è soltanto nei libri, un’Italia letteraria e da riporre in archivio”.

E poi, ancora: “Vorremmo noi negare la nostra fiducia a Dio se non avremo fatto tutto il nostro dovere? Potremo noi sospettare che i valori dello spirito che noi realizziamo vadano perduti? Potremo noi temere che questa Italia immortale che splende agli occhi di tutto il mondo, se è viva negli animi nostri, perisca sotto i colpi delle fortezze volanti? Potranno cadere anche le mura e gli archi che sono rimasti per millenni a testimoniare la maestà di Roma e la barbarie dei suoi nemici, potranno in questa lotta del nuovo continente  restio e sordo all’azione incivilitrice di Roma i nuovi barbari compiere l’azione devastatrice dei barbari antichi? Ci può essere uomo al mondo che pensi di far tramontare la gloria di questo Campidoglio fulgente? Che pensi che il sole possa qualcosa Urbe Roma vivere maius?.

   Il discorso non può essere valutato sul piano politico o sul piano culturale, ma sul piano psicologico. Il discorso appare fuori dalla realtà. E’ impensabile che i non fascisti, e ormai sono tanti,  cambino idea grazie ai ricordi di Roma antica, dei Comuni e del Rinascimento, come lui suggerisce. E’ impensabile che cambi idea chi chiede la fine della guerra e la pace perché ha perduto o teme di perdere la casa e la vita a causa dei bombardamenti, chi ha figli, padri, mariti  in zone di combattimento o prigionieri chi sa dove.

Eppure Gentile insiste e finisce così: “Italiani siate fedeli alla Madre antica, disciplinati, concordi, memori della responsabilità che viene a voi dall’onore di essere italiani; risoluti di resistere, di combattere, di non smobilitare gli animi finché il nemico vi minacci e dubiti della vostra fede e del vostro carattere. Le dispute e le dissensioni a dopo. Noi che siamo sulla china degli anni siamo vissuti dell’eredità dei padri, sentendo sempre obbligo nostro di conservarla, questa eredità; e non sappiamo pensare che essa non abbia a potersi consegnare nelle mani dei giovani capaci di sollevarla in alto al di sopra delle passeggere discordie, dei piccoli risentimenti settari, delle ansie e dei rischi mortali dell’ora presente, al di sopra delle umane debolezze per tramandarla ai nipoti, sempre viva e splendida della sua eterna giovinezza”. (2)

 

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(1)  Giovanni Gentile è nato nel 1975 a Castelvetrano in provincia di Napoli. Laureato alla Scuola Normale di Pisa, professore di filosofia teoretica nelle università di Palermo (1906-1913), di Pisa (1914-1916) e di Roma (dal 1917).  Con l’avvento del fascismo ministro della Pubblica Istruzione (1922-1924), senatore (1922), promotore e direttore dell’ “Enciclopedia italiana” (la “Treccani”), presidente dell’Accademia d’Italia sotto lal Repubblica Sociale (1943); ucciso nel’aprile del 1944  (si veda la giornata del  ”15 settembre – Di più”). Nel 1923 fu autore della riforma della scuola che porta il suo nome. Nel marzo del 1925 pubblicò il “Manifesto degli intellettuali fascisti”, cui rispose nel maggio dello stesso anno il “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, scritto da Benedetto Croce. L’iniziale amicizia con Croce finì con l’adesione di Gentile al fascismo. La  sua filosofia, che è stata chiamata “attualismo”,  è stata esposta per la prima volta nel saggio “L’atto del pensiero come atto puro” del 1912.

 

(2) Il testo integrale del discorso si può trovare negli archivi storici della “Stampa” e del “Corriere della sera”.