26 gennaio

Sulle alture del Don i resti del Corpo d’armata alpino sono circondati dalle truppe russe. Per salvarsi devono sfondare l’accerchiamento a Nikolaievka. Una lotta disperata. Alla fine ce la fanno. Ma a che prezzo?

È mezzogiorno. Lo dicono gli orologi, quelli che funzionano, non bloccati dal gelo. Il cielo, no; il cielo è bianco, basso e tutto eguale; non si sa dov’è il sole, non si sa, se non si ha una bussola, dove è il nord e il sud, l’est e l’ovest. È mezzogiorno e quel che rimane del corpo d’armata alpino si è lanciato all’attacco di Nikolaievka, un grosso villaggio russo, l’ultimo sbarramento verso la salvezza.

Nove giorni fa i resti delle tre divisioni (Julia, Tridentina e Cuneense) e della divisione Vicenza (una modesta divisione “di occupazione”, senza artiglierie e automezzi) hanno ricevuto l’ordine di ritirarsi: i russi hanno spezzato a nord il fronte tenuto dagli ungheresi ed a sud quello dei tedeschi. Gli alpini sono circondati.

Una sosta durante la ritirata a 30-40 gradi sotto zero. In alto, a sinistra, la lunga fila degli alpini nella neve della steppa verso una difficile e lontana salvezza

Una sosta durante la ritirata a 30-40 gradi sotto zero. In alto, a sinistra, la lunga fila degli alpini nella neve della steppa verso una difficile e lontana salvezza.

Racconterà il sergente maggiore Lucillo Berzacola1: “La ritirata, per me ed il mio reparto, cominciò il 17 alle otto della sera. Partimmo insieme (‘stare uniti’ era la parola d’ordine), portandoci dietro tutto il possibile (viveri e munizioni) sulle slitte trainate dai muli. Nei primi otto giorni della marcia che ci avrebbero portato a Nikolaievka il nostro reparto dovette affrontare undici accaniti combattimenti per aprire una breccia tra i capisaldi nemici e poter procedere oltre. Pian piano anche il nostro gruppo s’andava così assottigliando. Non ricordo nomi di paesi e località, né riesco a ricostruire nella mia mente una precisa cronologia dei fatti, ma rammento bene che fu il 19 che si vide il VI alpini decimato. In quello stesso giorno la 45a batteria della nostra compagnia fu impegnata in un sanguinoso combattimento contro i russi in una valle. Di fronte all’enorme preponderanza delle forze nemiche, soprattutto allo scorazzare dei carri armati, il capitano Vinco lanciò un grido ai suoi soldati: ‘Si salvi chi può! Chi ha coraggio rimanga con me’. Dopo di che, si piazzò in faccia al nemico con una mitragliatrice con la quale fece in tempo a dare alcune sventagliate prima di cadere tra i soldati che erano rimasti al suo fianco”.

Racconterà il sottotenente Franco Forlani: “Era giorno, non so quale ora, quando arrivammo in vista di Nikolaievka. Si trattava di un grosso paese al di là di una balka molto ampia. Un terrapieno, su cui passava la ferrovia, ci divideva dal paese, dal quale numerosi cannoni sparavano senza sosta sulla colonna che, come fiume in piena, stava dilagando sulla piana antistante. Contemporaneamente gli aerei russi, prendendoci di traverso o per il lungo, mitragliavano senza sosta. La sera si stava avvicinando quando arrivò l’ordine di avanzare e raggiungemmo la ferrovia con l’ultima luce del giorno, passando in mezzo a montagne di cadaveri. Erano i morti delVerona, del Vestone, del Val Chiese: alpini del 5o e del 6o, artiglieri del 2o, tutti insieme lanciati all’ultimo disperato attacco. Stanchi, affamati, pieni di freddo, più automi che uomini, dovemmo sollevare le slitte che portavano i feriti, per superare i binari sopraelevati”.

Racconterà il capitano Michele Milesi: “In quei momenti pensavamo che ormai tutto fosse finito: ci ricomparve un’altra volta Napoleone alla Beresina, e la nostra Beresina era quell’insormontabile terrapieno della ferrovia. È un assalto cruento; lento all’inizio, si tramuta ben presto in una corsa frenetica verso le migliaia di isbe di Nikolaievka. Più nessuno ormai ci trattiene, tutti avanziamo compatti con l’urlo della disperazione, ed allora avviene il miracolo: i russi, forse impressionati e sorpresi da questa massa dilagante, abbandonano le posizioni e le postazioni, abbandonano numerosa artiglieria e si ritirano precipitosamente, inseguiti dagli alpini che sfruttano il successo per allontanare sempre di più da Nikolaievka la minaccia russa.

“Sul terreno sul quale avanzavamo trascinati dalla forza della disperazione non si vedeva traccia del biancore della neve, ma si calpestava il grigio dei corpi dei morti ed il rosso del sangue, ben presto rappreso dal gelo. Ebbi l’impressione che tre quarti di quella torma di disperati, affamati, allucinati che ormai eravamo, sia rimasta sul campo. Tuttavia gli scampati, quelli che incredibilmente ancora avanzavano, erano in numero tale ancora da mettere in fuga sui loro mezzi blindati i soldati russi. Fu forse proprio l’ultima raffica dei russi, prima che si dessero alla fuga, ad uccidere il mio tenente colonnello Calbo, comandante del gruppo artiglieria Vicenza. Raccogliemmo e ci trascinammo dietro pietosamente la salma. Sorpassata la linea ferroviaria, entrammo nella cittadina e ci demmo alla caccia d’un rifugio”.

Arriva la notte. Racconterà ancora il capitano Milesi: “Piegati nel corpo, e straziati nell’animo, dalle terribili ore vissute, rivolgiamo il nostro primo pensiero ai compagni caduti, rimasti là per sempre nella neve della steppa. Poi il fratello chiama il fratello, il padre il figlio, l’amico l’amico, il comandante i suoi alpini. Ricordate, amici reduci, le grida di richiamo durante tutta quella notte? Erano grida strazianti che cessavano quando i ricercati venivano trovati morti o feriti. In quella leggendaria giornata del 26 gennaio 1943, caddero eroicamente migliaia di alpini di ogni grado: cadde il generale vicino all’alpino, cadde il colonnello vicino al capopezzo, cadde il capitano con il mitragliere, cadde il medico mentre alleviava le sofferenze dei feriti, cadde il cappellano segnando innumerevoli croci con largo gesto benedicente”.


1 Queste testimonianze sono state raccolte, insieme a molte altre, da Giulio Bedeschi nel volume Nikolaievka, c’ero anch’io, Mursia, 1973.