26 luglio
Lunedì. A Roma, ancora una giornata calda e afosa. Fino dal mattino c’è molta agitazione in giro e molta gente per le strade. Alle 7.45 la radio ha trasmesso ancora i tre comunicati del re e di Badoglio e anche quelli che dormivano e non hanno sentito il giornale radio alle 22.53 di ieri e non si sono svegliati al rumore della gente che manifestava nelle strade sanno dalla radio o dalle voci che circolano che il maresciallo Badoglio ha preso il posto di Mussolini come capo del governo (che il Duce è stato arrestato si comincerà a saperlo solo nel pomeriggio di oggi e domani).
Le voci e la notizia della radio diventano notizia stampa, nero su bianco, soltanto a mezzogiorno, quando escono i quotidiani. Il coprifuoco termina infatti alle sei del mattino e fino a quell’ora (la norma cambierà in seguito) nessuno può circolare in città, neppure i giornalisti e i tipografi. Il lavoro nei giornali comincia così dopo le sei.
Un tentativo di fare uscire in nottata un’edizione straordinaria è avvenuto al Messaggero1. Dopo mezzanotte Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti2 entrano nella sede del giornale in via del Tritone e con l’aiuto di un redattore e di alcuni operai, chiamati per telefono e arrivati di corsa, riescono a stampare qualche centinaio di copie di una edizione che ha un titolo a tutta pagina: “Viva l’Italia libera”.
Non è passata un’ora e – primo brutto segno – il Messaggero è subito sequestrato dalle autorità militari per “motivi di ordine pubblico”. Perché? Non certo per aver violato l’orario di uscita dei quotidiani. Sicuramente perché il giornale ha un articolo di fondo – il titolo è “Rinascita” – in cui si denunzia “l’uomo che ha violato lo Statuto, dissanguato le finanze dello Stato, incitato all’odio e alla violenza un popolo onesto e civile e arbitrariamente ha trascinato l’Italia in un’avventura disastrosa, senza aver dato ai suoi soldati né armi né ideali”. Insomma si parla male di Mussolini e non si parla per niente del re.
Sul re si basano invece tutti i quotidiani usciti a mezzogiorno. Si è troppo abituati ad avere un capo e non avendo più Mussolini si ricorre all’autorità del sovrano, dimenticando tutte le compromissioni del secondo col primo. A tutta pagina il Corriere della sera: “La dimissioni di Mussolini. Badoglio Capo del Governo. Un proclama del Sovrano” e foto del re e di Badoglio. A tutta pagina la Stampa di Torino: “Badoglio a capo del Governo. Le dimissioni di Mussolini accettate dal Re. Un messaggio del Sovrano. Viva il Re!” e foto del re e di Badoglio.
Stamani tutti i giornali aprono la prima pagina con un grande titolo più o meno eguale: Badoglio capo del governo e Mussolini dimissionario. Non si sa ancora del suo arresto.
Perfino il Popolo d’Italia, che esce mantenendo nella testata il sottotitolo “Fondato da BENITO MUSSOLINI” e la data “26 luglio 1943-XXI – VIII dell’Impero”, ha un titolone a tutta pagina: “Badoglio è nominato Capo del Governo. Un proclama agli Italiani del Re Imperatore”; e nelle cronache delle “dimostrazioni patriottiche” avvenute nella notte in tutta Italia ci sono anche le acclamazioni della folla “alla Maestà del Re e a Casa Savoia”3.
Il 26 luglio il Popolo d’Italia mantiene il sottotitolo “fondato da BENITO MUSSOLINI”, dà notizia della nomina del maresciallo Badoglio a capo del governo, ma ignora, almeno nel grande titolo di apertura del giornale, le “dimissioni” del Duce accettate dal re.
In realtà le cronache pubblicate dai giornali sono tutte eguali e sono quelle trasmesse dalla Stefani (la sigla in calce lo conferma)4. Il direttore Suster ha fatto disinvoltamente il suo dovere di cronista, pur senza abbandonare l’abituale retorica di un giornalismo di regime: A Roma “al grido di ‘Viva l’Italia’, ‘Viva il Re’, ‘Viva l’esercito’ e al canto dell’Inno di Mameli si sono formati imponenti cortei con cartelli improvvisati e bandiere tricolori che si sono diretti verso il Quirinale”. A Milano “fervide manifestazioni di patriottismo fra grandi acclamazioni al re Imperatore, all’Italia e al maresciallo Badoglio”. A Firenze “una folla di cittadini ha percorso le vie del centro tra continui evviva al Re e all’Italia”. A Bologna “si sono subito formati cortei che hanno percorso le vie centrali della città e si sono poi spinti fino alla periferia e nei rioni popolari al grido di ‘Viva l’Italia’, ‘Viva il Re'”. E ancora a Roma: “Dovunque il popolo dell’Urbe ha riconfermato la sua profonda fiducia negli immortali destini della Patria sotto l’augusta guida del suo Sovrano”.
Le manifestazioni di popolo dopo la notizia delle “dimissioni” di Mussolini hanno come punto di riferimento, e anche come garanzia, la persona del re; presentano poi una novità: il ritratto di Vittorio Emanuele III portato dalla folla insieme alle bandiere
Che le “dimissioni” di Mussolini (in realtà il suo arresto, come si verrà a sapere in giornata) significano forse la fine del fascismo ma non l’immediato ritorno alla democrazia e alla libertà non lo si capisce sùbito. A Milano Pietro Ingrao è di nuovo in strada, nel primo pomeriggio, “alla testa di un nuovo corteo arroventato e esultante”5; a Porta Venezia, scrive, “ci attendeva il camioncino fissato da Vittorini6. Qui cominciò, subito, una lotta e una gara a chi riusciva a salire sul tetto di quel trabiccolo, e ad afferrare il microfono, con la confusione e l’abbraccio dei vari colori presenti su quel camion: socialisti, comunisti, anarchici, repubblicani”.
“D’un tratto però avvenne un cambiamento che ci parve assurdo o incomprensibile: dal viale che portava alla grande stazione vedemmo avanzare una colonna di carri armati, e in testa, in cima ad uno di essi, un ufficiale direi giovanissimo, quasi immobile, con la pistola in pugno, il volto bianco come un cencio. Di colpo si affollarono domande: che era quella irruzione? Chi la mandava? Mussolini ritornato? O chi altro? Che succedeva a Roma, o altrove? Quale svolta inattesa?”.
“La colonna dei carri armati avanzò fino a fendere in due la folla, e le file di soldati fecero argine a quella massa cocente di popolo che protestava e premeva. Si aprì un discorso febbrile fra quei manifestanti furenti e i soldati che facevano cordone: bianchi in viso e assolutamente muti dinanzi alla massa che alle loro spalle li invitava a rifiutarsi, a mischiarsi con loro, a schierarsi contro il Duce appena travolto. Non so precisare quanto durò quel dialogo bruciante tra soldati e masse. Ricordo invece, con il nitore scattante di una foto, come quel dialogo si sciolse: una donna, giovane, forse giovanissima, d’un tratto spezzò il cordone dei soldati, traversò in un lampo lo spazio vuoto della piazza, raggiunse la fiancata di un carro armato e – non so dire come – s’arrampicò in cima all’ordigno di guerra (o vi fu issata da qualcuno dei militari?). Quello scatto di donna agì come un segnale simbolico. E avvenne l’incredibile: i carri armati, senza spiegazioni, cominciarono a ritirarsi dalla piazza. Gioimmo impazziti”.
“Fu il gesto di quella donna ardita a parlare alla truppa o venne un messaggio dai comandi, e da dove? Da Roma? o agì la folla? o apparve sul campo, fisicamente, l’impossibilità di una repressione militare il giorno che Mussolini era finalmente in manette?”.
I dubbi sono tanti e tante le paure e i sospetti, ma tutto questo non può distruggere, almeno per ora, l’aria nuova che si respira. Leggiamo di nuovo Manlio Cancogni7: “Il primo dei quarantacinque giorni di libertà fu lungo. Fu caldo, assolato, e soprattutto lungo. Mi ricordo vari episodi di quella memorabile prima giornata di libertà, ma in particolare questa sensazione di lentezza. Il giorno non passava mai; il sole sembrava sempre al suo posto, mai declinante. A volte, alzavo gli occhi per guardarlo sopra i tetti, fra i campanili e le cupole di Firenze, col desiderio di vederlo un poco più basso. Macché, era sempre lì. Sotto quel sole eterno, la città si muoveva, s’agitava, si rimescolava, di strada in strada, nelle piazze, sui lungarni, e non si capiva perché, a parte il bisogno che ognuno provava di star fuori per veder gente, incontrarsi, parlare, nella speranza di sapere meglio ciò che stava succedendo e quale sarebbe stata la nostra sorte. Allo stupore festoso per il grande avvenimento si univa infatti un sentimento di attesa. Ora non bastava che fosse caduto il responsabile della guerra; si voleva che il successore, il maresciallo Badoglio, vi mettesse fine; e non importava in che modo. Ogni ora sembrava un ritardo increscioso, una colpa imperdonabile. Eppure avevamo sopportato in silenzio per anni. Benché fossi andato a letto tardi ero anch’io uscito presto di casa, come decine di migliaia di fiorentini, milioni in tutto il paese e nelle città d’Italia, convinto di dover fare e vivere grandi cose”.
1 L’episodio è raccontato da Giuseppe Talamo in Il Messaggero, un giornale durante il fascismo, volume secondo, Le Monnier, 1984.
2 Mario Pannunzio, giornalista (1910-1968), diresse dal 1943 al 1947 il quotidiano romano Risorgimento liberale e dal 1949 al 1966 fu il direttore del settimanale Il Mondo; Arrigo Benedetti, scrittore e giornalista (1910-1976) fondò nel 1945 a Milano il settimanale L’Europeo, che lasciò nel 1955 per dirigere il nuovo settimanale L’Espresso e poi, dal 1969 al 1972, Il Mondo.
3 Anche qui i testi tra virgolette sono riprodotti senza interventi grammaticali; in questo caso con le iniziali maiuscole per tutti i nomi comuni cui veniva allora attribuita una autorità concettuale: non solo “stato”, ma anche “nazione”, “patria”, “paese”, “re”, “sovrano”, “governo” e così via; perfino, dopo il 1938, “razza”. Molti, poi, scrivevano in tutte lettere maiuscole DUCE.
4 La firma Stefani, a destra in corsivo, tra parentesi, era messa in calce a tutte le notizie ufficiali. Ai giornali serviva non solo per dichiararne l’ufficialità, ma anche per garantirsi da possibili contestazioni
5 Pietro Ingrao, Volevo la luna, già citato.
6 Elio Vittorini, scrittore (1902-1966), autore, fra l’altro, di Conversazione in Sicilia (1941) e di Uomini e no (1945).
7 Manlio Cancogni, Gli scervellati, già citato.
26 luglio – Di più
Gli articoli di fondo dei quotidiani appaiono sorprendenti ad una lettura di oggi. Costretti da anni, anche se di proprietà privata, ad essere organi di informazione del regime fascista, credono ora di essere liberi o di potere essere liberi; è difficile tuttavia, da un giorno all’altro, cambiare mentalità e linguaggio, abitudini antiche di servilismo e di piaggerie linguistiche. Caduto il dittatore, il re è ora il nuovo soggetto di riferimento, nonostante le sue complicità con la dittatura, ed è a “Lui”, al “Vegliardo”, alla “Dinastia” (tutti con l’iniziale maiuscola) che il “Paese” deve “obbedire” rispondendo alla “voce del dovere”. Ecco due esempi.
Il “Corriere della sera”: “L’Italia è immortale. Questa certezza, documentata da una storia che ha conosciuto ore di oscuramento ma che non ha mai mancato al suo nobilissimo, civile destino, deve essere più che mai presente alla coscienza degli italiani in quest’ora solenne. Mentre il Sovrano, assumendo il comando di tutte le Forze Armate, rinnova il patto che lo consacra alle sorti e alle fortune del Paese, ogni esitazione, ogni discordia deve essere assolutamente evitata. La voce del dovere deve risuonare limpida e imperiosa nelle coscienze, dando il massimo vigore al nostro sentimento di disciplina, di collaborazione incondizionata e operante… Obbedire, essere accanto all’uomo che deve guidare le sorti della Nazione in così grave momento: questo sia l’unico proposito d’ogni Italiano. Obbedire nell’assoluto rispetto delle istituzioni all’ombra delle quali l’Italia ha conquistato la sua Unità e la sua indipendenza”.
La “Stampa” di Torino: In un’ora estremamente critica della vita nazionale, la voce del Re ha risuonato alta, forte e risoluta, annunciatrice di decisioni di cui è superfluo sottolineare la portata agli Italiani. È la Dinastia che, come già in altri momenti non meno gravi per il paese, prende in sua mano ogni iniziativa e,ogni potere e assume di fronte alla storia le supreme responsabilità… L’assiste, chiamato alla direzione del Governo della Nazione, un Soldato di salda tempra, il cui prestigio non ha mai subito eclissi tra il popolo, che istintivamente guardava a Lui come a una riserva preziosa di sane energie, di quadrata esperienza, di costruttiva capacità organizzatrice. L’Italia non può perire e l’Italia non perirà se sapremo stringerei con ferrea decisione, con impegno totale, con abnegazione senza riserve intorno al grande, canuto Vegliardo, che impersona oggi e sempre l’anima immortale e l’istinto vitale di tutto il popolo, il suo popolo. Viva il Re!”.
Incredibilmente anche il “Popolo d’Italia”, che mantiene nella testata la scritta “Fondato da Benito Mussolini”, dà ai suoi lettori la “parola d’ordine”: nessun “dissenso”, “dedizione assoluta”, “collaborazione completa con le autorità”: “Oggi, più che mai, occorrono fermezza d’animo, armonia di sentimenti e sempre più tenace volontà di combattere. Nessuna parola, nessun gesto. di dissenso, dedizione assoluta, collaborazione completa con le autorità. Questa è la parola d’ordine per tutti noi, mentre con affetto filiale imperituro rivolgiamo il nostro pensiero a Benito Mussolini che ha immensamente lavorato all’unico scopo del bene dell’Italia. Il Duce tutto ha fatto nell’interesse del popolo lavoratore del quale è figlio, per il quale ha lottato e sofferto come nessuno, al fine di procurargli una più dignitosa e umana esistenza. Con animo romano ora egli affronta l’esigenza del momento, ispirato dal suo insuperabile amor di Patria che resta per sempre inciso, insieme con l’opera civile compiuta di ricostruzione e di bonifica, negli annali d’Italia”.
Nota: stamani la distribuzione del “Popolo d’Italia” è stata vietata dal Prefetto di Milano.
Per molti italiani – la nuova generazione di intellettuali e di giovani e anche gran parte della vecchia generazione cresciuta prima del fascismo – il 26 luglio è un giorno di festa, pieno di speranze, di attese, di progetti; ma per tanti altri – media e piccola borghesia – è un giorno di sorpresa e di sconcerto. Le inaspettate “dimissioni” di Mussolini sconvolgono abitudini e modi di pensare, sistemi di vita e concezioni politiche. Democrazia e libertà sono parole orecchiate; se ne sa poco o niente dopo tanti anni in cui contro democrazia e libertà si sono espressi l’insegnamento scolastico fino dalle elementari (i libri di testo tutti eguali, l’inquadramento militare a cominciare dai bambini “figli della lupa”) e la propaganda teatrale del regime (i discorsi dei capi, le manifestazioni di piazza, i titoli dei giornali, le grandi scritte sui muri delle case). E poco o niente si sa di quello che accade ed è accaduto all’estero, delle grandi democrazie mondiali. I giornali e la radio ne hanno dato sempre un ritratto negativo, spregevole, antipopolare; non hanno parlato del perché, accanto a Gran Bretagna e a Stati Uniti, quasi tutto il mondo è insorto contro il nazismo di Hitler. La notizia, quasi incredibile, della “dimissioni” di Mussolini si inserisce insomma in una generale ignoranza; manca la cultura, mancano le informazioni.
E ora – ci si chiede – che succederà? Certo, c’è la speranza che la guerra abbia termine, che finiscano i bombardamenti aerei e non si sentano più i suoni lugubri della sirene d’allarme, che non ci siano più morti e pianti, che i familiari in servizio militare tornino a casa, che si abolisca il razionamento alimentare e si trovi più da mangiare; ma il “nuovo” preoccupa e un po’ spaventa: che cosa significano e che cosa vogliono questi partiti che cominciano a farsi vivi? non si tornerà alle violenze e ai disordini dei primi anni Venti? come cambierà la vita di ogni giorno? ci sarà più lavoro o meno lavoro, ci saranno più soldi o meno soldi?
Una breve ma divertente testimonianza del 26 luglio è quella di Dario Oitana:
“‘Dario, Dario, il Duce non c’è più, il Re l’ha mandato a spasso, ora c’è il maresciallo Badoglio’. Questa la mia sveglia il 26 luglio 1943. Era mia zia, in quanto i miei genitori erano in quei giorni assenti. ‘Come? Come?’ Fui preso dal panico. Fu come se mi avessero detto: ‘Il sole non c’è più’. Da ‘figlio della lupa’, mi avevano insegnato a pregare per il Duce e la Vittoria ed a scuola, ogni mattina, la solita cerimonia: ‘Bambini, saluto al Duce!’; ‘A noi!’, si doveva rispondere col braccio teso. La stessa mia zia, pochi giorni prima, inneggiava ancora al Duce come al Salvatore della Patria, ed alla Gloria Eterna dell’Italia Imperiale. Ora mi spiegava: ‘Vedi Dario, quanti disastri! Il Duce ci ha portato alla rovina, ma il Re e Badoglio ci salveranno’.
“Come altri 40 milioni di italiani feci una conversione a U, e da piccolo fascista diventai un convinto antifascista. Mi procurai un gessetto e diedi inizio al seguente rito: scrissi alcune ‘M’ (Mussolini) e vi feci poi una croce sopra. Non potendo abbattere i busti, mi dovevo accontentare. Poi scrissi alcune ‘B’ (Badoglio) precedute da un ‘Viva’. Mi recai nella piazza del paese. Era piena di uomini con baffi e cappello (era la divisa dei contadini), che si congratulavano per la notizia sorprendente ed entusiasmante. Anche loro erano diventati tutti antifascisti.
“Ero meravigliato e felice. Ma avevo anche appreso una preziosissima lezione.
1) Non bisogna fidarsi degli adulti, specialmente di quelli troppo sicuri di sé.
2) Non bisogna fidarsi di quello che dicono tutti.
3) Non bisogna fidarsi della radio e dei giornali.
4) Non bisogna fidarsi dei grandi uomini, dei capi che trascinano le folle.
In conclusione ho incominciato a pensare con la mia testolina. In quel magico 26 luglio”.
L’intera testimonianza è disponibile sul sito www.ilfoglio.org.