28 luglio
Mussolini arriva nell’isola di Ponza intorno alle undici. È mercoledì. La sera di domenica 25, dopo l’arresto a villa Savoia, è stato portato alla caserma Podgora e poi alla caserma degli allievi ufficiali dei carabinieri in via Legnano. Qui è stato sistemato nell’ufficio del comandante, colonnello Tabellini, e per due notti ha dormito, in mancanza di un letto, su un divano.
Nella notte tra il 25 e il 26, all’una e mezzo del mattino, il generale Ernesto Ferone, un ufficiale in servizio al ministero della guerra, lo ha svegliato (si era assopito da poco) e gli ha consegnato una lettera di Badoglio: “Il sottoscritto, Capo del Governo, tiene a far sapere a Vostra Eccellenza che quanto è stato eseguito nei Vostri riguardi è unicamente dovuto al Vostro personale interesse, essendo giunte da più parti precise segnalazioni di un serio complotto verso la Vostra Persona. Spiacente di questo, tiene a farVi sapere che è pronto a dar ordini per il Vostro sicuro accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località che vorrete indicare”1. La lettera è una collana di menzogne; non c’è nessun complotto contro Mussolini e non c’è nessuna intenzione di trasferirlo in una sede da lui scelta. Durante la progettazione del colpo di stato qualcuno ne aveva addirittura proposto la soppressione violenta2 e qualcuno aveva suggerito di spedirlo con un aereo in Algeria per metterlo in mano agli angloamericani.
All’incredibile lettera di Badoglio Mussolini risponde immediatamente con un messaggio altrettanto incredibile, sia pure per motivi diversi3; ringrazia Badoglio “per le attenzioni” riservategli e lo assicura che, “in ricordo del lavoro comune svolto in altri tempi”, gli darà “ogni possibile collaborazione”; chiede di essere trasferito alla Rocca della Caminate (che è la sua residenza privata in Romagna) e poi: “Sono contento della decisione presa di continuare la guerra cogli alleati (cioè i tedeschi), così come l’onore e gli interessi della Patria in questo momento esigono, e faccio voti che il successo coroni il grave compito al quale il maresciallo Badoglio si accinge per ordine e in nome di Sua Maestà il Re, del quale durante ventuno anni sono stato leale servitore e tale rimango. Viva l’Italia!”. Insomma un Mussolini che offre di collaborare e augura il successo a chi lo ha fatto fuori e inneggia al re che è a capo del colpo di stato che ha portato al suo arresto.
La sera del 27 l’auto che, sotto scorta, prende a bordo Mussolini alla caserma di via Legnano non si dirige a nord ma a sud. Alle 22 è a Gaeta. Al porto un ufficiale di marina agita una lampadina: “Al molo Ciano”. Qui l’ammiraglio Franco Maugeri si presenta e accompagna Mussolini alla corvetta Persefone.
Nascono subito due problemi. Si devono rendere gli onori? Ma Mussolini non è più capo del governo, non è più niente. Però è “collare dell’Annunziata”, la più alta onorificenza di Casa Savoia; re Vittorio Emanuele gliel’ha concessa fino dal 1924 (l’anno del delitto Matteotti). Allora si facciano gli onori al “Collare dell’Annunziata”. Un secondo problema è come chiamarlo. L’ammiraglio Maugeri e il comandante della corvetta, il capitano di vascello Oreste Tazzari, se la cavano chiamandolo “eccellenza”.
La Persefone si dirige verso l’isola di Ventotene; poi qualcuno ordina di cambiare rotta e di andare all’isola di Ponza. Ponza è una delle colonie penitenziarie dove il governo fascista tiene gli oppositori politici. Fra questi c’è, dal 6 giugno, Pietro Nenni4. È lui che racconta5: “Sono le undici quando una barca si stacca dai fianchi della corvetta e prende la direzione di Santa Maria, una frazione a un tiro di schioppo da Ponza. Sono a bordo un civile (che poi apprendo essere Mussolini e che sul momento non riconosco) e sei carabinieri. La prima notizia sull’ospite che ci “onora” della sua inaspettata presenza mi è data qualche minuto più tardi da Zaniboni6 e mi è confermata dal maresciallo Lambiase. Dopo poco essa corre sulle labbra di tutti i confinati e degli isolani.
Al largo di Gaeta e di San Felice Circeo, Ponza è la più grande delle isole pontine (o ponziane) e insieme a Ventotene e a Santo Stefano (in basso, al centro) era sede di “confino”, un termine col quale si intendeva il soggiorno obbligato per persone (soprattutto politici dell’opposizione) sottoposte a provvedimenti di polizia. Gli esiliati vivevano, sotto controllo, in abitazioni private oppure in strutture di detenzione, come a Santo Stefano, dove un ampio penitenziario era stato costruito dai Borboni alla fine del Settecento.
“Mussolini – scrive ancora Nenni – è confinato a Santa Maria nella “villa del ras”, così chiamata perché ha ospitato per alcuni mesi il prigioniero di guerra ras Imerù7. Quattordici carabinieri montano la guardia attorno alla sua dimora, al comando di un tenente colonnello. Due sono addetti al suo servizio personale. Gli ufficiali della corvetta lo dicono stordito più che rassegnato, come di uno che ancora non realizza appieno ciò che gli capita. Dalla finestra della mia stanza, col cannocchiale, ora vedo distintamente Mussolini: è anch’egli alla finestra, in maniche di camicia e si passa nervosamente il fazzoletto sulla fronte.
“Scherzi del destino! Trenta anni fa noi eravamo in carcere assieme8, legati da un’amicizia che pareva dover sfidare il tempo e le tempeste della vita, basata come era sull’odio comune della società borghese e della monarchia e sulla volontà di non dar tregua al nemico comune. Oggi eccoci entrambi confinati nella stessa isola; io per decisione sua, egli per decisione del re e delle camarille di corte, militari e finanziarie, che si sono servite di lui contro di noi e contro il popolo e che oggi di lui si disfanno nella speranza di sopravvivere al crollo del fascismo.
“Fra la comune prigionia del 1911 e questo fortuito comune confinamento a Ponza, trenta anni di cui venti sono stati per lui anni di potenza, di orgoglio, di folli ambizioni e di sconfinati abusi di potere, e sono stati per me anni di lotta, di miseria, di dolore, da carcere a esilio, da esilio a carcere, da una sconfitta a un’altra, ma senza che l’umiliazione o la vergogna abbiano mai piegato la mia fronte.
“Mi piacerebbe stasera riprendere con Mussolini la conversazione interrotta venti anni or sono a Cannes, l’ultima volta che ho parlato a lui. Al suo sogno orgoglioso e dissennato di una rivoluzione socialista, fatta contro i socialisti e contro la classe operaia, io rispondevo allora: ‘Tu puoi vincere, ma per la reazione e al suo servizio'”.
La “villa del ras” è un edificio modesto. La camera dove Mussolini è alloggiato è spoglia, imbiancata a calce. Quando arriva, c’è soltanto la rete nuda di un letto; non c’è neppure un cuscino.
È la vigilia del suo sessantesimo compleanno. Non sta bene. In questi giorni la sua antica gastrite è ovviamente peggiorata. “Ho un dolore qui che mi rode” ha detto, mettendosi la mano sullo stomaco, al maggiore medico J. Santillo, che la sera del 25 a Roma, è andato a visitarlo nella caserma di via Legnano. È una storia lunga, che Mussolini racconta al maggiore Santillo il giorno dopo9: un’ulcera duodenale diagnosticata fin dal 1923; una prima minaccia di emorragia nel 1923, una seconda nel 1929, una terza proprio di recente, il 5 giugno; sempre vitto in bianco, e spesso solo latte crudo (anche tre litri al giorno) e frutta fresca, specie pere e pesche.10
Al maggiore Santillo chiede anche: “Accade niente in città? Tutto è calmo?”. A Ponza il suo cruccio maggiore è che dei tanti che si proclamavano suoi fedeli non ci sia qualcuno che dia segno di fare qualcosa per lui. Nessuno glielo ha detto, e non sa, quindi, che il segretario del Partito fascista, Carlo Scorza, è in libertà “sulla parola” e subito si è messo a disposizione del nuovo governo “per sacro dovere di soldato”; che il generale Enzo Galbiati, che, anche lui membro del Gran Consiglio, ha votato come Scorza contro l’ordine del giorno di Grandi, ha inviato una circolare a tutti i comandi della Milizia, di cui è capo di stato maggiore, per proclamare fedeltà al re, “che è il vostro comandante”; e che ha accettato che la sua Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale, la MVSN, il corpo militare del partito fascista, diventi parte integrante delle Forze armate, a cominciare falla “Divisione M”, l’unità militare dei fedelissimi di Mussolini; la camicia grigioverde al posto della camicia nera e le stellette sul bavero al posto dei piccoli fasci.
I pochi gerarchi rimasti fedeli a Mussolini sono scomparsi. Di Alessandro Pavolini11, già ministro della cultura popolare, non si sa niente. Roberto Farinacci, rappresentante dell’ala estremista, antimonarchica e razzista del fascismo, si è rifugiato – sembra – nell’ambasciata tedesca, in attesa di partire per la Germania. Altri – Achille Starace, segretario del Partito fascista dal 1931 al 1939; Guido Buffarini Guidi, sottosegretario agli interni; Telesio Interlandi, direttore della rivista Difesa della razza – sono stati messi sotto protezione da Carmine Senise, capo della polizia dal 25 luglio (lo era stato fino a tre mesi prima); se ne andranno senza salutare nessuno.
E i “moschettieri del Duce”? I moschettieri sono stati l’equivalente, per Mussolini, dei corazzieri del re: la sua guardia personale, i pretoriani. Il comandante è un nobile, il marchese Achille d’Havet. Anche lui si è affrettato a fare professione di obbedienza e di fedeltà al re.
Del resto, chi è Pietro Badoglio, il nuovo capo del governo? È l’uomo che, partendo nel novembre del 1935 per assumere il comando delle truppe d’invasione in Etiopia, dichiara12 di “servire la causa dell’Italia fascista” e esprime riconoscenza al “Duce magnifico”. È l’uomo che nel 1940, pur conoscendo l’impreparazione delle Forze armate, rimane Capo di stato maggior generale nella guerra dichiarata da Mussolini alla Francia e alla Gran Bretagna: “Non possiamo disertare la storia, ma affrontare la guerra con suprema audacia”13.
Nell’isola di Ponza Benito Mussolini è solo, ma è solo anche nell’Italia dove nessuno è più fascista. È solo e sta male. La moglie di uno dei carabinieri del penitenziario, che gli prepara i pasti, freddi, sa del prossimo compleanno e gli chiede se vuole qualcosa di speciale. “Sì” risponde; “due pesche”.
1 Le lettera è pubblicata in Storia di un anno di Benito Mussolini, già citata.
2 Vedi nota 6 del giorno 25 luglio.
3 Benito Mussolini, XXXIV, già citata.
4 Pietro Nenni (1891-1980) esponente del Partito socialista dal 1921; direttore dell’Avanti! dal 1923 al 1925; esule in Francia nel 1926 e segretario del Psi; nel 1938 commissario politico della brigata Garibaldi nella guerra di Spagna; poi ancora esule in Francia, dove nel gennaio del 1943 è arrestato dalla Gestapo nazista (dopo la sconfitta del 1940 Parigi e due terzi della Francia sono sotto controllo tedesco); consegnato dalla Gestapo alla polizia francese e da questa alla polizia fascista.
5 Pietro Nenni, Tempo di guerra fredda, diari 1943-1956, Sugarco edizioni, 1981.
6 Deputato socialista, Tito Zaniboni è stato accusato nel 1925 di avere organizzato, insieme al generale Luigi Capello, un attentato contro Mussolini; nel 1927 è stato condannato a trenta anni di reclusione.
7 Ras Imerù (o Immirù) è uno dei più potenti capi tribù che hanno affiancato il negus di Etiopia nella lotta contro le truppe italiane di invasione.
8 Nel carcere della Rocca di Ravaldino. Nel settembre del 1911 Benito Mussolini e Pietro Nenni erano stati condannati a un anno di reclusione per le manifestazioni contro la guerra di Libia.
9 Il racconto del maggiore Santillo è in Due anni di storia, 1943-1945 di Attilio Tamaro.
10 Attilio Tamaro, ibidem.
11 Alessandro Pavolini (1903-1945) diventerà nel 1944 il segretario del partito fascista repubblicano; catturato dai partigiani a Dongo insieme a Mussolini, sarà fucilato il 28 aprile del 1945.
12 Pietro Badoglio, La guerra di Etiopia.
13 In una lettera che Mussolini ha fatto pubblicare in Corrispondenza repubblicana del 19 ottobre 1943, l’agenzia giornalistica della Repubblica sociale.