8 settembre
“Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”.
È l’armistizio. Lo annunzia alla radio, alle 19.42, il generale Badoglio. Sono passati tre anni e tre mesi dall’inizio della guerra. Il capo del governo si è recato di persona nella sede dell’Eiar in via Asiago, accompagnato dal figlio Mario e da alcuni agenti in borghese1. È arrivato un po’ prima delle 19, ma il direttore generale dell’Eiar, Chiodelli, gli ha detto che a quell’ora pochi erano in ascolto e che era bene aspettare l’ora del giornale radio, le 19.45. Badoglio ha aspettato impaziente una mezz’ora, poi, inquieto, è entrato nello studio lui solo con l’annunciatore Titta Arista, lo stesso che il 25 luglio ha letto il comunicato del Quirinale sulle “dimissioni” di Mussolini; ha aspettato ancora un poco, poi ha fatto un cenno a Arista. Mancava ancora qualche minuto alle 19.45.
“È al microfono il maresciallo Pietro Badoglio” dice Arista e subito Badoglio legge il testo con un tono vibrante, quasi annunzi una vittoria invece di una sconfitta; pronunzia malamente il nome di Eisenhower: aisenòver.
Il re (a sinistra) e il maresciallo Badoglio. Vittorio Emanuele III aveva le insegne di “Re d’Italia e di Albania e Imperatore di Etiopia” e, dal 1936, i gradi di “primo maresciallo dell’Impero”.
Per capire che cosa è successo, che cosa sta succedendo e che cosa, purtroppo, succederà conviene andare indietro, alla notte scorsa o, meglio, alla serata di ieri.
Intorno alle 21 è arrivato a Roma, dopo un avventuroso viaggio (da Tunisi su una corvetta inglese fino all’isola di Ustica, qui sulla corvetta italiana Ibis fino a Gaeta, poi da Gaeta in una autoambulanza militare fino a Roma) il generale americano Maxwell Davenport Taylor2, accompagnato dal suo aiutante, il colonnello William Tudor Gardiner. Il generale Taylor è il vicecomandante della 82a divisione paracadutisti e ha il compito di controllare i modi del progettato piano di aviosbarco nelle zone di Furbara e di Cerveteri, a nord di Roma verso il mare, e intorno a Roma sugli aeroporti del Littorio, di Centocelle e di Guidonia. Il piano è stato concordato fra le parti il 3 e il 4 scorso; ha già un nome: “Giant 2”. Lo sbarco della divisione dovrebbe avvenire con aviolanci e con apparecchi da trasporto scortati da caccia, tutto in concomitanza con l’annunzio dell’armistizio, in maniera da proteggere la capitale da un possibile attacco tedesco.
Alle 22 a palazzo Caprara, in via XX settembre, nella sede del ministero della difesa-esercito, il generale Taylor si aspetta di incontrare il Capo di stato maggior generale per uno scambio di idee; poi andrà a ispezionare le zone di atterraggio. Ma il generale Ambrosio non c’è, è andato improvvisamente a Torino, allo scopo – dirà – di distruggere delle carte importanti. Ci sono solo il maggiore Marchesi, aiutante di Ambrosio, e un colonnello, Giorgio Salvi, che fa gli onori di casa e accompagna gli ospiti in una sala dove è imbandito un buon pranzo: brodo ristretto, pollo, verdure fresche, frittelle dolci, tutto accompagnato da ottimi vini, che il colonnello Salvi cerca di mescere generosamente.
A un certo punto il generale Taylor (come racconterà qualche giorno dopo)3 ha uno scatto di impazienza: “Basta col vino. Sono venuto a Roma per parlare con un comandante responsabile”.
Il comandante responsabile arriva più tardi, un po’ prima delle 23, nelle vesti del generale Giacomo Carboni, che è il comandante del Corpo motorizzato di stanza a Roma; è lui che dovrebbe guidare l’operazione di aviosbarco per la parte italiana. Il generale Carboni non sa però, o dice di non sapere, che l’armistizio e l’aviosbarco sono fissati per domani. Non era stabilito per il 15 o per il 12? Per domani è impossibile, dice. Intorno a Roma le forze italiane sono poche e quelle tedesche sono tante; e poi non c’è carburante sufficiente (e questo almeno non è vero, perché un grosso deposito di carburante si trova all’undicesimo chilometro della via Ostiense).
Il generale americano Maxwell Taylor, al centro, col maresciallo Badoglio.
Sono ormai le 23 passate e il generale Taylor chiede di parlare col capo del governo. “It’s an awfull jam” dice4. Tutti vanno a casa di Badoglio: Taylor, Gardiner, Carboni, insieme all’interprete, il tenente Raimondo Lanza. Badoglio sta dormendo. Carboni lo sveglia, gli dice degli ospiti e del problema. Badoglio si alza, insonnolito indossa la vestaglia e fa per uscire dalla camera. Carboni lo sconsiglia; prima si rinfreschi la faccia e si vesta. In vestaglia non farebbe una buona impressione5.
Badoglio non può fingere di non sapere. Ha lui indicato agli angloamericani gli aeroporti per l’aviosbarco, ha lui concordato i modi dell’operazione, ha lui accettato di annunziare l’armistizio contemporaneamente a Eisenhower. E invece dice a Taylor che il governo italiano si trova nell’impossibilità di accettare un armistizio immediato e chiede quindi che il suo annunzio venga rinviato. A quando? al 15 o al 12, come qualcuno ha pensato? No. Non si parla di date. E l’aviosbarco? Neppure di questo si parla. Cancellato.
Alle 2 della notte il testo di un messaggio per Eisenhower, firmato Badoglio, viene dato al maggiore Marchesi perché lo trasmetta con la radio segreta del Comando supremo al Comando supremo alleato: “Dati cambiamenti e precipitare situazione esistenza forze tedesche nella zona di Roma non è più possibile accettare l’armistizio immediato dato che ciò porterà la capitale ad essere occupata ed il governo ad essere sopraffatto dai tedeschi. Operazione Giant 2 non è più possibile dato che io non ho forze sufficienti per garantire gli aeroporti”.
Taylor, Gardiner e Carboni lasciano Badoglio e tornano a palazzo Caprara. Anche Taylor ha un messaggio per Eisenhower, che consegna a Carboni perché lo faccia trasmettere.
È l’alba. Il generale Carboni lascia gli ospiti a palazzo Caprara e si reca al palazzo Vidoni in via Vittorio Emanuele II, sede del Comando supremo, per controllare l’invio del messaggio di Badoglio. Il messaggio non è ancora partito e neppure quello di Taylor; il maggiore Marchesi li ha ancora fra le mani, occupato nella cifratura. Partiranno con alcune ore di strano ritardo.
A palazzo Vidoni il generale Taylor chiede più volte di incontrarsi col generale Ambrosio, ma Ambrosio – gli rispondono – non è ancora tornato da Torino; invece è tornato ed è a Roma dalle 10. Alla fine della mattinata vengono confermate alcune informazioni giunte già ieri: una imponente squadra navale alleata è in navigazione davanti alle coste della Campania; probabile obiettivo il golfo di Salerno. Alle 12 si sentono grandi fragori provenienti da sudest: 130 quadrimotori americani, le già famose “fortezze volanti”, stanno bombardando Frascati, dove si trova, nella villa Torlonia, il Quartier generale del maresciallo Kesselring. Le ondate si susseguono per due ore.
Alle 16.30 arriva la risposta di Eisenhower al messaggio di Badoglio. È una risposta impietosa. Comincia così: “Intendo trasmettere alla radio l’accettazione dell’armistizio all’ora fissata in origine”. C’è quindi un’ora concordata fra le parti. La risposta continua: “Non accetto il vostro messaggio di questa mattina che posticipa l’armistizio. Il vostro rappresentante accreditato6 ha firmato un accordo con me e la sola speranza dell’Italia è legata al vostro rispetto di tale accordo”. Il finale: “I piani erano stati fatti con il postulato che agiste in buona fede e noi ci eravamo preparati a condurre le future operazioni su queste basi. Adesso, ogni mancanza da parte vostra nell’ottemperare in pieno agli obblighi dell’accordo firmato avrà gravissime conseguenza per il vostro paese. Nessuna vostra futura azione potrà poi ristabilire le benché minima fiducia nella vostra buona fede e conseguentemente ne deriverà la dissoluzione del vostro governo e della vostra nazione”.
Alle 17.30 un radiogramma cifrato da Algeri impone al governo italiano di annunziare l’armistizio non più tardi delle 20. Alle 17.45 il generale Eisenhower parla alla radio di Algeri: “Qui è il generale Eisenhower. Il governo italiano si è arreso incondizionatamente a queste forze armate. Le ostilità fra le forze armate delle Nazioni Unite e quelle dell’Italia cessano all’istante. Tutti gli italiani che ci aiuteranno a cacciare il tedesco aggressore dal suolo italiano avranno l’assistenza e l’appoggio delle nazioni alleate”. Contemporaneamente l’agenzia inglese Reuter comincia a trasmettere notizie sui particolari dell’armistizio.
Alle 17.50 dall’ambasciata di Germania Rudolf von Rahn, incaricato d’affari tedesco (sarà presto nominato ambasciatore), telefona al generale Roatta, Capo di stato maggiore dell’esercito, per avere chiarimenti sulle notizie trasmesse dalla Reuter. “È una sfacciata menzogna della propaganda inglese” risponde Roatta “ed io devo respingerla con indignazione”.
Fermiamoci un momento e sentiamo che cosa dice il direttore della Stefani, Roberto Suster7; l’agenzia ha da tempo un servizio di ascolto radiotelegrafico: “La notizia è giunta attraverso la Reuter e ha lasciato tutti noi senza fiato. Messomi immediatamente in comunicazione con il ministro Galli, egli mi ha dichiarato di non saperne assolutamente nulla, aggiungendo che avrebbe fatto smentire la cosa dalla radio e invitandomi ad attendere qualche minuto per reagire in modo da potermi dare qualche istruzione. In attesa di questo, telefono al ministero degli esteri, dove parlo con il capo gabinetto Capranica e con il capo dell’ufficio stampa Masela, i quali non sanno assolutamente nulla di quel che succede. Il secondo anzi mi dice che l’ambasciatore Rosso sta smentendo categoricamente la cosa all’incaricato d’affari germanico von Rahn, che ha telefonato per chiedere chiarimenti. Dovrei essere tranquillo, ma non posso esserlo perché la Reuter continua a lanciare particolari e dettagli sulla capitolazione dell’Italia, precisando che l’armistizio è stato firmato fin dal 3 settembre da Eisenhower e dai rappresentanti di Badoglio, con la clausola che sarebbe entrato in vigore al momento più opportuno”.
“Dalle fonti ufficiali, intanto, manca sempre ogni notizia. Mando Montagni alla presidenza del consiglio, Alesiani al ministero della cultura popolare, tempesto di telefonate Cosmelli, Rulli, tutti. Nessuno sa niente. Io firmo i lanci e ricevo il rappresentante del D.N.B.8, che mi chiede una conferma o una smentita. Non posso dargli né l’una né l’altra. Sono umiliato, fino ad averne la gola serrata, di una simile situazione, ma ormai è chiaro che siamo praticamente senza un governo responsabile, alla mercé di chi ci vorrà o ci saprà occupare”.
Alle 18.15 si riunisce al Quirinale quello che impropriamente verrà chiamato un “Consiglio della corona”. I presenti sono dieci, oltre al re: Badoglio, Guariglia (ministro degli esteri), Ambrosio (Capo dello stato maggior generale), Acquarone, Sorice (ministro della guerra), Sandalli (ministro dell’aviazione), De Courten (ministro della marina), Carboni, De Stefanis (vicecapo dello stato maggiore dell’esercito, al posto di Roatta) e il maggiore Marchesi aiutante di Ambrosio. Alcuni non sanno che l’armistizio è stato firmato già da cinque giorni, il 3; alcuni non sanno che l’armistizio si pensava dovesse essere annunziato fra quattro giorni, il 12; alcuni non sanno che l’armistizio è stato annunziato un’ora e mezzo fa.
È Ambrosio che informa chi sa e (sette su undici) chi non sa, mentre Badoglio, sprofondato in una poltrona, rimane in silenzio col capo abbandonato sul petto9.
Che fare? Qualcuno propone di respingere l’armistizio, qualcuno di sconfessare Castellano e anche Badoglio10. Ambrosio prega allora il maggiore Marchesi di leggere il telegramma di Eisenhower in risposta al messaggio di Badoglio. Nessuno dei presenti ne conosce il testo, salvo Ambrosio e Marchesi. Il maggiore Marchesi legge il telegramma e con voce più forte l’ultima parte: “Ogni mancanza da parte vostra nell’ottemperare in pieno agli obblighi dell’accordo firmato avrà gravissime conseguenze per il vostro paese. Nessuna vostra futura azione potrà poi ristabilire la benché minima fiducia nella vostra buona fede”.
“Ora sappiamo” dice il re e chiude la seduta. Mancano pochi minuti alle 19. L’appuntamento è per le 21.30 al ministero della guerra. Si pensa di attrezzarlo e di metterlo in stato di difesa, così da poter resistere per almeno due o tre giorni. Ancora non è stato deciso di fare i bagagli e di lasciare Roma.
Il ministro degli esteri Guariglia torna a palazzo Chigi e fa chiamare l’incaricato d’affari tedesco Rahn: “Devo dichiararvi” gli dice “che il maresciallo Badoglio, vista la situazione militare disperata, è stato costretto a chiedere un armistizio”. “Questo è un tradimento alla parola data” dice Rahn e ricorda che cinque giorni prima il maresciallo Badoglio gli ha assicurato che l’Italia non avrebbe capitolato mai. Ma è tutto un gioco. I tedeschi sapevano; sapevano e avevano provveduto. In questo stesso momento cinquanta treni carichi di carri armati e di automezzi stanno scendendo dal Brennero verso Verona.
Il 25 luglio c’erano in Italia una divisione tedesca in Toscana (la 3a corazzata), due in Campania e Puglia (la 16a e la 26a), tre in Sicilia (malridotte dopo la sbarco angloamericano) e una in Sardegna (la 90a corazzata). Durante i 45 giorni del governo Badoglio altre forze sono affluite giorno dopo giorno. Oggi le forze germaniche in Italia assommano a 17 divisioni, due brigate e circa 150 mila elementi sfusi11. Da domani e dopodomani ci saranno altre quattro divisioni in più. È in atto l’occupazione tedesca dell’Italia.
Le truppe di terra italiane sono queste e sono così dislocate: tre armate nell’Italia continentale (la 5a nell’Italia centrale con quattro divisioni mobili e due costiere, la 7a nell’Italia meridionale con tre divisioni mobili e nove divisioni costiere e l’8a nell’Italia nordorientale con cinque divisioni). Si aggiungano sei divisioni intorno a Roma; dipendono dallo Stato maggiore dell’esercito per la difesa della capitale.
Fra il 10 e il 12 agosto tutti i Comandi hanno ricevuto l’Ordine 111 C.T. dello Stato maggiore dell’esercito: i nemici non sono più gli angloamericani ma i tedeschi; i piani di difesa devono essere cambiati, non più in funzione antisbarco alleato ma in funzione di contenimento delle truppe tedesche. Fra il 2 e il 5 settembre gli stessi Comandi hanno ricevuto la Memoria 44op, anch’essa dello Stato maggiore dell’esercito, con le disposizioni sull’atteggiamento da tenere nell’eventualità di possibili aggressioni tedesche. Tra il 6 e il 7, cioè l’altro ieri e ieri, sono partiti i promemoria 1 e 2 dello Stato maggior generale, forse arrivati, forse no.
Il comunicato con cui Badoglio ha annunziato la firma dell’armistizio (è stato trasmesso dalla radio alle 19.42 di stasera, ma la registrazione viene ripetuta ogni mezz’ora per tutta la notte) dice comunque che “ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare” e che le forze italiane “reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”. L’ultima frase non è oscura e bisognosa di interpretazioni: la “provenienza” se non è angloamericana, non può essere che tedesca. È oltretutto una frase che ha una storia, perché ieri il testo del comunicato è stato inviato da Badoglio al generale Castellano ad Algeri e da questi sottoposto all’approvazione di Eisenhower. Si sa che Eisenhower ha modificato “l’ultimo periodo”; evidentemente, quella frase è stata scritta in tutto o in parte anche da lui.
Questa è la situazione la notte di oggi, mercoledì 8 settembre. La Memoria 44op ha indicato due possibilità di applicazione delle disposizioni stabilite: “a seguito di ordine dello Stato maggiore” da impartire con un fonogramma “Attuare misure ordine pubblico Memoria 44” oppure “di iniziativa dei comandanti in posto, in relazione alla situazione contingente”.
A capire quello che sta succedendo ci aiuta Mario Torsiello; è l’ufficiale che il 10 agosto ha partecipato alla stesura della Memoria 44 op e l’ha battuta a macchina. Verso le 23 – questo è un sunto di quello che scrive – il Capo di stato maggiore (Roatta) invia il generale Utili (capo del reparto operazioni) al Comando supremo (Ambrosio) per ottenere l’autorizzazione a far partire il fonogramma previsto. Fino da ieri otto ufficiali hanno ciascuno una striscia di carta con la scritta “Attuare misure ordine pubblico Memoria 44”; così non sbagliano a fare la telefonata e possono farla contemporaneamente.
Richiesto di autorizzare l’invio del fonogramma, il generale Ambrosio – è sempre Torsiello che lo racconta – interpella il Capo del governo, e Badoglio risponde di no. Perché? Torsiello prova a spiegare questa strana decisione. Prima spiegazione: forse Badoglio non vuole che siano gli italiani ad aprire per primi le ostilità; ma le ostilità le stanno già aprendo i tedeschi; nessuna notizia è giunta su quello che i tedeschi hanno cominciato a fare sul lido di Ostia? La 2a divisione paracadutisti ha già cominciato a disarmare alcuni reparti della 220a divisione costiera e alle 20.30 i tedeschi hanno preso possesso del deposito carburanti di Mezzocammino sulla via Ostiense.
Seconda spiegazione: forse Badoglio vuole lasciare che l’attuazione dei provvedimenti previsti dalla Memoria avvenga di iniziativa dei Comandi periferici senza bisogno di ulteriori ordini. Così, del resto, scrive, nel finale, la stessa Memoria 44op. Ma questo rifiuto di dare il via non è una rinunzia all’assunzione di responsabilità? un lavarsi le mani come Ponzio Pilato?12
Eppure i Comandi periferici chiedono di essere assistiti e confortati nell’esercitare i loro compiti in base alle norme impartite. Non tutti si sentono di sparare a coloro che fino a ieri erano alleati.
Tutta la notte – scrive ancora Torsiello – è una “bufera di richieste telefoniche”. Alla fine, alle 0.4513 il generale Roatta ordina di inviare a tutti i Comandi che hanno ricevuto la Memoria un fonogramma, però con un testo diverso da quello stabilito e che Badoglio non vuole sia inviato. Il fonogramma dice: “Ad atti di forza reagire con atti di forza”; lo telefonano personalmente – fra le 0.50 e le 1.35 – tre ufficiali superiori di Stato maggiore (uno di questi è proprio Torsiello) ai Comandanti o ai Capi di stato maggiore degli stessi Comandi14.
A quell’ora il Capo dello stato Vittorio Emanuele III, il capo del governo Pietro Badoglio, il Capo dello Stato maggiore generale Vittorio Ambrosio e il principe ereditario Umberto si preparano ad abbandonare Roma verso l’aereo o la nave che li porterà più lontano possibile dai tedeschi15.
Questa mattina all’alba, sull’Aspromonte, quattrocento paracadutisti italiani si sono scontrati con cinquemila canadesi e sono morti quasi tutti. Sono, cinque giorni dopo la segreta firma dell’armistizio, gli ultimi morti della guerra dichiarata da Mussolini contro la Gran Bretagna e gli Stati Uniti16.
1 Molti hanno scritto che il testo del proclama fu registrato dall’Eiar nella casa di Badoglio. Giovan Battista Arista ha raccontato invece, in un servizio radiofonico – Se una cronaca si farà – trasmesso dalla Rai l’8 settembre del 1983, che Badoglio si recò in via Asiago e lesse il testo, che fu registrato e ripetuto successivamente ogni mezz’ora.
2 Il generale Maxwell Taylor diventerà presidente del Consiglio degli Stati maggiori riuniti degli Stati Uniti.
3 Così riferisce il Times del 14 settembre 1943.
4 Qualcuno ha tradotto “è un’orribile marmellata”, ma, secondo il significato familiare delle due parole, la traduzione più corretta è “è un enorme pasticcio”.
5 Così racconta il generale Carboni nel suo Più che il dovere, Memorie segrete, Firenze 1955.
6 Il generale Mario Castellano, che il 3 settembre ha firmato il cosiddetto “armistizio corto” a Cassibile.
7 Nel suo Diario, già citato.
8 Il D.N.B. (o Dnb), Deutsches Nachrichten Bureau, era l’agenzia di stampa ufficiale del governo tedesco.
9 La notazione è dell’ammiraglio De Courten nel suo Appunti da me tracciati, Archivio storico della marina.
10 Contrari erano soprattutto i tre ministri della guerra, Sorice, Sandulli e De Courten. Si veda negli Appunti da me tracciati di De Courten, già citati.
11 Fonti di queste informazioni e di quelle successive sono due articoli del colonnello Torsiello; il primo, L’aggressione germanica all’Italia, sulla Rivista militare del maggio 1945; il secondo, già citato, Documenti sull’8 settembre 1943, sulla stessa rivista, marzo 1952, e un libro, Settembre 1943, anch’esso già citato.
12 “Ciò” scrive Torsiello nel libro citato, “accrebbe l’imbarazzo e le preoccupazioni di tutti. In quel momento una decisione puramente governativa (anche se il Capo del governo era un militare) toglieva l’ultima speranza per un coordinamento efficace delle operazioni e per ottenere ovunque un atteggiamento di resistenza deciso e risoluto. Tale ordine generale di attuazione avrebbe interessato tutti, anche le unità verso le quali non risultava si fosse esercitata fino a quel momento alcuna aggressione da parte dei tedeschi, costituendo indubbiamente fattore di enorme importanza morale e materiale”.
13 Nell’articolo su Vita militare il colonnello Torsiello scrive “4.45”. È sicuramente un errore, confermato dalle successive ore di invio dei fonogrammi. Nel suo libro (Settembre 1943) Torsiello corregge l’errore: “0.45”.
14 L’invio del fonogramma “Ad atti di forza reagire con atti di forza” trova nel colonnello Torsiello un non confutabile testimone. È strano perciò che non ne parli molta pubblicistica sulle vicende dell’8 settembre e ancora più strano è che non ne parli neppure la sentenza del tribunale militare che nel febbraio del 1949 assolse i generali Ambrosio, Roatta, Carboni e altri per i fatti conseguenti all’armistizio (ne parleremo a suo tempo). Ecco il testo in questione: “La situazione militare determinatasi nella notte seguita alla proclamazione dell’armistizio intorno a Roma ne le sporadiche notizie di violenze germaniche in zone periferiche inducevano, verso le ore 1 o 2 del 9, a considerare se era o no il caso di diramare l’ordine generale di applicazione della ‘Memoria 44’. Probabilmente il generale Carboni era il primo a prospettare negli uffici dello Stato maggiore dell’esercito la necessità della diramazione dell’ordine; certamente erano favorevoli a tale diramazione il sottocapo di stato maggiore, generale De Stefanis, il capo del primo reparto, generale Utili, il generale addetto, Zanussi. Il generale Roatta, non avendo, a quel momento, il potere di decidere, per la prescrizioni datagli con il dispaccio 24202 delle ore 0.20, inviava il generale Utili dal Capo si stato maggiore generale per ottenere l’autorizzazione alla diramazione dell’ordine. Il generale Ambrosio – a quanto riferisce il generale Utili – dopo lunga riflessione, dichiarava che non era il caso e che della cosa si sarebbe dovuto parlare al Capo del governo, che egli in quel momento non poteva raggiungere. Il maresciallo d’Italia Badoglio esclude che gli sia stata richiesta l’autorizzazione per la diramazione dell’ordine generale di applicazione della ‘Memoria 44′”.
15 Un episodio, fra i tanti episodi di quella drammatica notte e dei giorni successivi negli alti Comandi militari, è raccontato dall’autore di questo libro in una testimonianza pubblicata nel dicembre 2003 dalla “Nuova storia contemporanea” diretta da Francesco Perfetti. È il seguito della testimonianza riportata nella giornata del 10 agosto. Parla anche del giorno 10.
“Che la guerra era finita il comandante delle 5a armata, generale Mario Caracciolo di Feroleto, lo seppe mentre stava mangiando nella mensa precariamente allestita in una sala del seminario che si trova nel centro storico di Orte; glielo disse, ancora affannato per la corsa, il sottotenente Paolo Emilio Poesio, ufficiale “addetto” al comandante in seconda, il generale Rovere. Passando per caso davanti a un bar, il sottotenente Poesio (poi giornalista, redattore e critico teatrale della “Nazione” di Firenze) l’aveva appreso – così raccontò – dalla voce del maresciallo Pietro Badoglio, che alle 19.43 di quell’8 settembre aveva annunziato alla radio la conclusione dell’armistizio… Il generale Caracciolo cercò di mettersi in contatto col Comando Supremo attraverso una delle sue tre stazioni radio campali, quella collegata in permanenza col Comando supremo; ma il Comando supremo non rispondeva. Che cosa fece dopo, non so. Qualcuno disse che si era messo in abiti borghesi ed era andato a Roma per capire i motivi del silenzio; prima, però, aveva dato l’ordine che il Comando dell’armata si trasferisse immediatamente nella sede logistica di Firenze.
“Nella notte fra l’8 e il 9 l’ufficiale italiano di collegamento col Comando della terza divisione corazzata tedesca (un maggiore del cui nome ricordo solo che cominciava per P) telefonò con voce emozionata che veniva considerato prigioniero. Al Comando dell’armata, come ufficiale tedesco di collegamento c’era un tenente, di cognome Koch, con una pattuglia radio e otto soldati. ‘Facciamolo prigioniero’ qualcuno disse; ma il tenente era scomparso, senza salutare nessuno. Più tardi arrivò affannato il maggiore P.; la terza divisione tedesca si era messa in marcia verso sud e l’aveva rilasciato a Viterbo. Il maggiore (lo raccontò lui stesso) se l’era cavata unicamente con un paio di schiaffi ricevuti da un sottufficiale.
“La mattina del 9, giovedì, sulla via che da Amelia porta a Viterbo, proprio sotto la rocca di Orte, ci fu uno scontro a fuoco – breve, ma violento, con fucili e bombe a mano – tra gli autieri del Comando, aiutati da un plotone di granatieri annidato nelle grotte di tufo, e un reparto tedesco su due autocarri, che si voleva impossessare di una delle auto dell’autoparco del Comando, proprio la Lancia Artena che aveva le insegne del comandante in capo. I tedeschi, che si erano accorti di trovarsi in una posizione svantaggiosa sotto il fuoco che pioveva dall’alto e con un ufficiale già gravemente ferito, alla fine decisero di andarsene senza portar via niente.
“Il trasferimento a Firenze del Quartier generale del Comando avvenne nella stessa giornata e nella notte. Si scelsero vie secondarie: da Amelia a Todi, di qui a Umbertide, Città di Castello, San Sepolcro, Pieve Santo Stefano, Chiusi della Verna, Bibbiena, Poppi, il passo della Consuma, Pontassieve. Alla fine della mattinata di venerdì 10 a Firenze erano arrivati tutti e tutto; anche gli autocarri con casse di documenti, tavoli da casermaggio e macchine per scrivere.
“Per tutto il pomeriggio del 10 e la mattina di sabato 11 nella fiorentina villa Torrigiani c’era una grande confusione. Di ufficiali se ne vedevano pochi e ai centralino telefonico i telefonisti non sapevano che cosa rispondere ai comandanti dei reparti che chiedevano ordini e istruzioni. Qualcuno di loro – comandante di reggimento o di battaglione – disse, con calore, che era pronto a respingere le truppe tedesche in movimento, e qualcuno, anzi, lo aveva già fatto (ricordo un caso, al passo della Futa, sulla strada che porta da Firenze a Bologna, e un altro a Piombino).
“La mattina dell’11 al centralino ci trovavamo il capitano Pasi (non ricordo il suo primo nome), il sottotenente Edoardo Detti (architetto, poi assessore socialista nella Giunta comunale di Firenze, 1960), l’uno e l’altro operanti all’ufficio cifra, ed io. Un gruppo di abitanti del quartiere (San Frediano, un quartiere molto popolare) era venuto a chiedere di prendere le armi che sapevano essere numerose negli scantinati della villa; ci pensiamo noi – dissero – a difendere Firenze.
“Verso le dieci il sottotenente Detti ebbe un’idea, che oggi può apparire folle o comica: prendere il comando dell’armata (noi: un capitano, un sottotenente di complemento e un sergente) e dare ordini ai reparti secondo i piani stabiliti dal Comando dell’armata e in obbedienza del comunicato di Badoglio (reagire “a eventuali attacchi da qualsiasi parte provenienti”, cioè, ovviamente, di provenienza tedesca). Mentre ne discutevamo, qualcuno, di corsa, venne a dirci che il generale Caracciolo era tornato. Erano le dieci e trenta.
“Il generale Caracciolo era infatti tornato e aveva dato ordine di riunire i sottufficiali e i soldati del Quartier generale dell’armata nel giardino della villa. Indossava un abito blu a doppio petto, ma evidentemente non aveva trovato delle scarpe civili e in fondo ai pantaloni usciva il nero degli stivali militari. “Figlioli” ci disse (mai, prima, ci aveva chiamato ‘figlioli’); le circostanze mi obbligano ad allontanarmi, ma a voi lascio ancora l’onore di difendere la patria. Il tenente Floridia vi condurrà al Comando della Difesa territoriale”.
“Il Comando della Difesa territoriale si trovava in piazza San Marco, a cinquecento metri dal Duomo; noi eravamo, come si dice a Firenze, ‘di là d’Arno’; avremmo quindi dovuto attraversare il fiume sul ponte che si chiama ‘alla Carraia’. Al comando del tenente Floridia il plotone al completo – eravamo una quarantina – uscì dal cancello della villa, ma dopo un centinaio di metri vedemmo una donna che correva verso di noi. ‘I tedeschi’ gridava, ‘i tedeschi, i carri armati; sul ponte ci sono i carri armati’. Erano le undici o poco più.
“Il tenente Floridia comandò l’alt al plotone. Ci fermammo e rimanemmo immobili, senza dire una parola, in mezzo alla strada piena di sole e di silenzio. La donna che correva era entrata in un palazzo e la via dei Serragli era deserta; non c’era anima viva, né verso Porta Romana, né verso il ponte alla Carraia. Sicuramente c’era gente dietro i vetri delle finestre, ma non si vedeva. Passò un minuto o ne passarono due o cinque, non ricordo bene. Il tenente Floridia si allontanò di qualche metro da noi, ci voltò le spalle e si mise a guardare in alto, come se cercasse qualcosa fra le finestre e sotto il tetto di quelle antiche case di pietra. Di lì a poco, dei sottufficiali, dei graduati e dei soldati del Quartier generale del Comando della Quinta armata non era rimasto più nessuno. Erano tutti scomparsi, senza salutarsi, dentro una decina di porte, subito aperte e subito richiuse”.
16 L’episodio è stato ricordato dal quotidiano Avvenire l’8 settembre 2003.
8 settembre – Di più
Questo lo schieramento delle truppe italiane attorno e nella città di Roma poco prima dell’attacco tedesco:
- Divisione Corazzata “Ariete”, schierata lungo la direttrice Monterosi-Manziana sul bordo settentrionale del lago di Bracciano;
- II Battaglione della Divisione di Fanteria “Lupi di Toscana”, schierato sulla via Aurelia a ridosso di Ladispoli, sul litorale tirrenico nord;
- Un Battaglione della Divisione di Fanteria “Re”, sulla via Cassia, in località La Storta, poco a nord della capitale;
- Divisione di Fanteria Motorizzata “Piave”, distribuita ad arco immediatamente a nord della città, tra la località di Ottavia sulla via Trionfale, la Giustiniana sulla via Cassia e le due sponde del fiume Tevere, tra via Flaminia e via Salaria nei pressi di Castel Giubileo;
- Divisione Corazzata “Centauro”, schierata ad arco a oriente del centro, lungo la via Tiburtina, tra le località di Lunghezza e Monte Celio, poco a occidente di Tivoli;
- Divisione Granatieri di Sardegna, disposta ad arco immediatamente sul fianco meridionale della città, tra la Magliana e Tor Sapienza, a controllare le vie Aurelia, Ostiense, Appia e Casilina;
- Divisione di Fanteria “Piacenza”, disposta nel quadrante sudoccidentale della campagna romana, tra via Ostiense e via Appia, a mezza via tra il lido di Ostia e Albano Laziale;
- Numerosi reparti logistici, di addestramento e di presidio entro la città di Roma, incluso il personale della difesa contraerea, avieri, marinai, carabinieri, finanzieri e forze di polizia (compresa la Polizia dell’Africa Italiana).
Le truppe tedesche, oltre al personale in transito verso sud ed un numero non elevato di effettivi del personale di polizia, collegamento e supporto presente in città e presso le installazioni militari e le vie di comunicazione con il fronte erano presenti solo con due grandi unità:
- II Divisione Paracadutisti, schierata nelle vicinanze dell’aeroporto di Pratica di Mare, di fronte alla “Piacenza”. La divisione era stata appena aviotrasportata dalla Provenza e aveva di fatto assunto il controllo dell’importante scalo aereo immediatamente a sud di Roma proprio l’8 settembre;
- III Divisione motocorazzata (PanzerGrenadieren), disposta a fronteggiare la “Ariete”, poco a nord di Vejano.
A queste unità va aggiunto il personale di supporto e protezione del Comando tedesco per il Sud Italia del feldmaresciallo Albert Kesselring sito in villa Torlonia a Frascati, che tuttavia era stato completamente distrutto nel bombardamento aereo alleato eseguito dalle 12 alle 14 dell’8 settembre.
(Queste informazioni, controllate, si possono trovare più estesamente anche in http://it.wikipedia.org/wiki/Mancata_difesa_di_Roma).
– Sulla mancata difesa di Roma il 19 ottobre 1944 fu insediata una commissione d’inchiesta, che il 5 marzo 1945 comunicò le sue risultanze al presidente del consiglio Ivanoe Bonomi ed al ministro della guerra Alessandro Casati. La commissione era presieduta dal sottosegretario alla Guerra Mario Palermo (Mancata difesa di Roma, la commissione d’inchiesta) e composta dai generali Pietro Ago e Luigi Amantea.
Le risultanze furono coperte da segreto di stato, per esigenze della difesa militare, e solo nel 1965> rese pubbliche. Si compongono di 190 fascicoli contenenti verbali di interrogatorio, relazioni di servizio, altre relazioni, questionari compilati, per circa un centinaio di persone informate dei fatti che furono contattate. La Commissione attribuì la responsabilità della caduta di Roma ai generali Mario Roatta e Giacomo Carboni.
La Commissione Palermo deferì poi al tribunale militare di Roma – sempre per la mancata difesa di Roma – i generali Roatta e Carboni, insieme ai generali Ambrosio, Castellano, De Stefanis, Utili e Calòvi di Bergolo. Il processo si intitolò “Roatta-Carboni” e a conclusione il tribunale, presieduto dal generale Enrico Santacroce, emise una sentenza di proscioglimento di tutti gli imputati.
Il generale Carboni era stato imputato di “omissione di provvedimenti pear la difesa militare”, di “abbandono del comando” (per avere “abbandonato il corpo d’armata corazzato, da lui comandato, pregiudicando seriamente il proseguimento della lotta”) e di “resa”.
La sentenza, che fu molto discussa, dichiarava di non doversi procedere “nei confronti del generale Giacomo Carboni per non aver commesso i fatti” per le due prime imputazioni e, per la resa, “perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato”. La sentenza aggiungeva che la condotta di Carboni era stata “improntata alle prescrizioni che il dovere e l’onore imponevano in quelle specialissime circostanze”.
Sul sito ufficiale del Comune di Roma (www.comune.roma.it) c’è un elenco dei “civili da ricordare” nella difesa di Roma: “Don Pietro Occelli, parroco della chiesa di “Gesù Buon Pastore” alla Montagnola, che tanto fece in aiuto dei Granatieri e fu decorato di medaglia d’argento al valor militare; molti giovani della Montagnola che raccolsero, per combattere, le armi dei soldati caduti; le suore francescane figlie di Sant’Anna al Forte Ostiense, in particolare suor Celestina D’Angelo; Quirino Roscioni, fornaio sulla Laurentina, decorato nella Grande Guerra, che fece del suo forno un fortino e fu trucidato, insieme alla cognata Pasqua Ercolani, davanti alla Chiesa della : Montagnola; Ennio Brunelli, padre di un granatiere, che perse la vita combattendo a Porta San Giovanni”
I caduti: “1.167 caduti o dispersi militari (fra cui i capitani dei ranatieri Raffaele Persichetti e Aladino Govoni, ambedue romani) e 121 civili. Il tributo dei Granatieri e del Reparto esplorante corazzato Montebello (inquadrato n ella divisione Ariete) è stato di 638 morti o dispersi e 428 feriti”.
Località dove si è combattuto: “Ponte della Magliana, Torre della Chiesaccia, Forte Ostiense,La Montagnola, Via Laurentina, Basilica San Paolo, Tre Fontane, Mezzocammino, Via Ardeatina, Via Collatina, Via Ostiense, Porta San Paolo, Porta San Giovanni”.
– Un articolo da leggere, di Lucio Villari, sul “Corriere della sera”: “Il mistero di una resa”
– Quello che accade in tutti i reparti dell’esercito italiano in Italia e fuori d’Italia dopo l’annunzio dell’armistizio è stato raccontato – fra commedia e tragedia – dal film “Tutti a casa” del 1960; regia di Luigi Comencini; interpreti principali Alberto Sordi, nella parte del sottotenente comandante di un reparto militare, e Sergio Reggiani. La trama e i particolari del film su http://it.wikipedia.org/wiki/Tutti_a_casa.
L’audio con la voce del generale Badoglio che legge il comunicato che annunzia l’armistizio si può ascoltare sul sito di “Repubblica” e su YouTube.
– Franco Arbitrio suggerisce di pubblicare anche un documento non molto noto: il telegramma che Badoglio inviò a Hitler la sera dell’8 settembre alle 20.20. Il telegramma (è nell’archivio del Ministero degli esteri) fu poi spedito alle ore 21 all’ambasciata d’Italia a Berlino, alle legazioni di Budapest, Bucarest e Sofia, all’ambasciata a Tokio e alle legazioni di Bratislava e Zagabria con la seguente istruzione: “Prego fare codesto Governo seguente comunicazione” e a tutte le altre rappresentanze diplomatiche con la seguente comunicazione: “Ho telegrafato a Berlino Budapest Bucarest Sofia Tokio Zagabria e Bratislava quanto segue”.
Ecco il testo:
“Nell’assumere il Governo d’Italia al momento della crisi provocata dalla caduta del Regime fascista, la mia prima decisione e il conseguente primo appello che io rivolsi al popolo italiano fu di continuare la guerra per difendere il territorio italiano dall’imminente pericolo di una invasione nemica. Non mi nascondevo la gravissima situazione nella quale si trovava l’Italia, le sue deboli possibilità di resistenza, gli immensi sacrifici ai quali essa doveva ancora andare incontro. Ma su queste considerazioni prevalse il sentimento di dovere che ogni uomo di Stato responsabile ha verso il suo popolo: quello di evitare cioè che il territorio nazionale diventi preda dello straniero. E l’Italia ha continuato a combattere, ha continuato a subire distruttivi bombardamenti aerei, ha continuato ad affrontare sacrifici e dolori, nella speranza di evitare che il nemico, già padrone della Sicilia – perdita delle più gravi e delle più profondamente sentite dal popolo italiano – potesse passare nel continente. Malgrado ogni nostro sforzo ora le nostre difese sono crollate. La marcia del nemico non ha potuto essere arrestata. L’invasione è in atto. L’Italia non ha più forza di resistenza. Le sue maggiori città, da Milano a Palermo, sono o distrutte o occupate dal nemico. Le sue industrie sono paralizzate. La sua rete di comunicazioni, così importante per la sua configurazione geografica, è sconvolta. Le sue risorse, anche per la gravissima crescente restrizione delle importazioni tedesche, sono completamente esaurite.Non esiste punto del territorio nazionale che non sia aperto all’offesa del nemico, senza una adeguata capacità di difesa, come dimostra il fatto che il nemico ha potuto sbarcare – come ha voluto, dove ha voluto e quando ha voluto – una ingente massa di forze, che ogni giorno aumentano di quantità e di potenza, travolgendo ogni resistenza e rovinando il Paese.
“In queste condizioni il Governo Italiano non può assumersi più oltre la responsabilità di continuare la guerra, che è già costata all’Italia, oltre alla perdita del suo impero coloniale, la distruzione delle sue città, l’annientamento delle sue industrie, della sua marina mercantile, della sua rete ferroviaria, e finalmente l’invasione del proprio territorio. Non si può esigere da un popolo di continuare a combattere quando qualsiasi legittima speranza, non dico di vittoria, ma financo di difesa si è esaurita. L’Italia, ad evitare la sua totale rovina, è pertanto obbligata a rivolgere al nemico una richiesta di armistizio”.
– L’armistizio dell’8 settembre fu un disastro? Certamente sì, se la fuga degli alti Comandi militari e l’incertezza sugli ordini impartiti portarono al disfacimento dell’esercito; a centinaia di militari fatti prigionieri; a un altro anno e mezzo di guerra. Ma l’armistizio come tale fu anche la fine di una guerra scatenata da Mussolini al fianco di Hitler contro gli interessi del popolo italiano. Alcuni l’hanno definito la “morte della patria”, ma per molti è stato la nascita o la riconquista della patria, la patria vera, non quella fascista.
Su “Corriere della sera” del 7 settembre 2005 lo storico Sergio Luzzatto ha scritto: “Una tragedia o una festa, l’8 settembre? Se lo è domandato sulle colonne del Corriere della Sera, sabato scorso, lo storico Giovanni Belardelli. Che intendeva così proporre, naturalmente, una domanda paradossale: dal momento che l’8 settembre 1943 – il giorno in cui, reso noto l’armistizio con gli angloamericani, l’Italia sabauda si è sbandata e liquefatta, consegnando due terzi del territorio nazionale agli orrori dell’occupazione tedesca – non può ragionevolmente essere inteso se non come il giorno più tragico della nostra storia moderna. Ma quella di Belardelli voleva essere anche una domanda provocatoria. A sentir lui, “una concezione politico-storiografica oggi in voga” coltiva una visione retrospettiva dell’8 settembre come “principio della rinascita”, dunque come “un evento da celebrare”. E tutto ciò gli sembra “ben strano”: un po’ come se la Francia celebrasse la sconfitta subita a Sedan, per mano prussiana, nel 1870. È mai possibile – si chiede Belardelli – che l’8 settembre rischi oggi di diventare una specie di festa nazionale? Paradosso per paradosso, si sarebbe tentati di rispondergli: e perché no? Tutto sta, infatti, nel punto di osservazione che si adotta. Nessun dubbio intorno al fatto che l’8 settembre sia stato vissuto da molti italiani come il giorno della morte della patria: secondo l’icastica definizione formulata allora da un giurista, Salvatore Satta, poi ripresa e fatta propria da Ernesto Galli della Loggia in un libro uscito nel 1996. Senonché la patria che morì l’8 settembre 1943 non era la patria di tutti gli italiani. Era la patria di chi – come lo stesso Satta, già zelante professore di Storia e dottrina del fascismo – aveva sperato fino all’ultimo nella capacità di Mussolini di far grande l’Italia attraverso un’alleanza con la Germania di Adolf Hitler. Ma non era più (o non era mai stata) la patria di tantissimi altri. Ad esempio, non era la patria di un giurista come Piero Calamandrei: il cui diario degli anni di guerra offre il singolare spettacolo di un reduce di Vittorio Veneto che doveva salutare come vittorie le disfatte militari del suo Paese, perché precipitavano la fine del fascismo”… “Numerosi altri esempi si potrebbero fare di italiani per i quali l’8 settembre valse non già da giorno di morte, ma da giorno di nascita della loro patria: una patria nuova perché fondata sopra valori diversi da quelli del ventennio mussoliniano e dell’ottantennio sabaudo, i valori dell’antifascismo e della democrazia. In ogni caso, qui i numeri contano poco, se non per gli storici, almeno per i cittadini. A noi non tocca di calcolare quanti furono gli italiani che subirono l’8 settembre come una morte e quanti lo vissero come una nascita. A noi tocca di riconoscere che quanti lo vissero come una nascita (o come una rinascita) erano gli italiani migliori”.
Il testo integrale dell’articolo di Sergio Luzzatto è nell’archivio storico del “Corriere della sera”.
– Nei giorni precedenti l’armistizio, dal 1o all’8 settembre, il rappresentante diplomatico della Germania a Roma, ministro plenipotenziario Rudolf Rahn (l’11 sarà ufficializzata la sua nomina ad ambasciatore), si è incontrato più volte, su sua richiesta, con Badoglio, col ministro degli esteri Guariglia e col generale Ambrosio; la mattina dell’8 anche col re, per presentare le sue credenziali. Franco Arbitrio ha tirato fuori dal suo preziosissimo archivio il comunicato che il ministero degli esteri del Reich pubblicherà il 14 e che l’agenzia Stefani diramerà nello stesso giorno.
Ecco il testo.
“Berlino, 13 – Il Ministro degli Esteri del Reich comunica:
1) Il 1 settembre 1943 ebbe luogo un colloquio tra il Ministro degli Affari Esteri, Guariglia, e l’incaricato d’affari germanico Ministro plenipotenziario Dott. Rahn. Il rappresentante germanico comunicava telegraficamente lo stesso giorno quanto segue: ‘Durante il mio colloquio odierno Guariglia dichiarò: il Governo Badoglio è deciso a non capitolare e di continuare la guerra al fianco della Germania. Metterò tutta la mia energia a disposizione per realizzare questa decisione che condurrà ad una collaborazione militare sempre più stretta e conseguente’.
2) Il 3 settembre, il rappresentante della Germania comunicava quanto segue: ‘Il Maresciallo Badoglio mi pregò oggi di andare da lui, e mi dichiarava che, dati gli sbarchi in Calabria, teneva a rassicurarmi che popolo ed esercito, nonostante le scosse degli ultimi giorni, erano in mano ferma del Governo. Egli mi pregò di dargli la mia fiducia. Aggiunse testualmente: ‘Io sono il Maresciallo Badoglio, ed io vi convincerò con i fatti che non era giusto non avere fiducia in me. Naturalmente la nostalgia di pace del popolo, anzitutto delle donne, è grande. Ma noi combatteremo e non capitoleremo mai’. Le parole anzidette vennero pronunciate dal Maresciallo Badoglio il 3 settembre, cioè il giorno nel quale egli firmava la capitolazione delle Forze Armate Italiane.
3) Il 4 settembre l’incaricato di affari germanico ebbe un colloquio con il comandante superiore delle Forze Armate Italiane Generale Ambrosio. Il rappresentante della Germania comunicava in proposito: ‘Il Generale Ambrosio si è lamentato che da parte tedesca non gli venga più espressa la fiducia che corrisponderebbe al cameratismo italo-tedesco. Il Generale Ambrosio affermava che egli è sempre animato dalla volontà ferma e sincera di continuare la guerra comune. Mi pregava di impiegare la mia influenza presso le autorità germaniche, perché avvenisse uno scambio di idee amichevoli più intenso. Il comportamento del tutto straordinario di Ambrosio mi dava l’impressione che egli cercasse di convincermi che era deciso di continuare la guerra comune’.
4) L’8 settembre il rappresentante della Germania, Ministro plenipotenziario Dr. Rahn, venne ricevuto dal Re Vittorio Emanuele, onde presentare le sue credenziali. Il comunicato telegrafico del Ministro plenipotenziario così si esprimeva: ‘Durante la mia visita odierna, il Re Vittorio Emanuele mi parlava anzitutto della situazione generale militare. Egli segue attentamente i combattimenti al fronte orientale, ammira lo spirito delle truppe tedesche, la loro tradizione militare, organizzazione e armamento che purtroppo l’esercito italiano non ha mai raggiunto. Per quanto riguarda la situazione in Italia, Egli sperava che il Governo del Reich si sarebbe convinto nel frattempo della buona volontà e della fedeltà del Governo Badoglio e dell’Esercito Italiano e che la fiduciosa collaborazione militare avrebbe dato i suoi frutti. L’Italia non capitolerà mai. Quanto ad alcune mende che sono rimaste, egli è convinto che presto spariranno. Badoglio è un bravo, vecchio soldato, a cui riuscirà certamente di arrestare come si deve la pressione delle sinistre, le quali dopo venti anni di esclusione dalla vita nazionale, credono venuta di nuovo la loro era. Al termine della conversazione, il Re sottolineò di nuovo la decisione di continuare fino alla fine la lotta a fianco della Germania, con la quale l’Italia è legata per la vita e per la morte. Queste dichiarazioni fatte dal Re l’8 settembre a mezzogiorno, cioè lo stesso giorno nel cui pomeriggio gli americani rendevano nota la capitolazione dell’Esercito italiano conclusa il 3 settembre’.
5) L’8 settembre sera, poco dopo le ore 19, il Ministro degli Affari Esteri Guariglia chiamava l’incaricato di affari germanico, il quale dava il seguente rapporto sul colloquio: ‘il Ministro degli Affari Esteri, Guariglia, mi riceveva oggi e mi comunicava in presenza dell’ambasciatore Rosso: Devo comunicarvi che il Maresciallo Badoglio, data la situazione militare disperata, è stato costretto a chiedere l’armistizio. Io risposi: Questo è tradimento alla parola data. Guariglia ribatte: ‘Protesto contro la parola tradimento’. Io: ‘Non do la colpa al popolo italiano, ma a quelli che hanno tradito il suo onore, e vi dico che questo tradimento sarà di grave peso sulla storia d’Italia’”.