9 settembre
L’annunzio della firma dell’armistizio non ha suscitato entusiasmi; la gente non scende nelle strade esultando. La sconfitta è sempre una sconfitta, e sia coloro che sono stati contrari alla guerra, sia coloro che l’hanno sostenuta pensano alle morti che è costata, 450 mila fra militari e civili1; e sono tanti quelli che piangono i propri morti.
La buona notizia non rinnova l’illusione del 25 luglio: che la guerra è finita e si può vivere in pace. Ci sono i tedeschi in casa; e ora che cosa succederà? Ancora prima di sapere della fuga del re e di Badoglio, ancora prima di sapere che il paese è senza governo, ancora prima di sapere che centinaia di migliaia di soldati in Italia, in Francia, nei Balcani sono rimasti senza capi, la gente ha il senso incombente di un generale disastro.
Su invito (o, secondo i vecchi sistemi, su ordine) del non soppresso ministero della cultura popolare tutti i giornali pubblicano il messaggio di Badoglio listato a lutto.
“La guerra è finita” è il titolo incauto, alto e nero, di alcuni giornali di oggi; “Armistizio” è il titolo di altri, una sola parola che attraversa la pagina. Ma tutti pubblicano listato a lutto il testo del proclama: una striscia nera sopra e una striscia nera sotto; tutti con quel segno di lutto. Si verrà poi a sapere che è stato il ministro della cultura popolare, Guido Rocco, a telefonare ai direttori dei quotidiani perché il proclama sia listato a lutto; e non chiede che non sia pubblicato il bollettino di guerra, di una guerra che non c’è più al fianco dei tedeschi. Il bollettino n. 1201 parla così, ancora, di angloamericani “avversari” e di reparti italiani e germanici che sul fronte calabro ritardano l’avanzata delle truppe britanniche.
Leggiamo quello che raccontano i testimoni di quei momenti terribili. Uno di questi è Pietro Nenni. Il 4 agosto un telegramma del capo della polizia Senise ha ordinato la sua liberazione. È partito da Ponza a bordo di un peschereccio, che è passato proprio sotto la “villa” di Santa Maria dove è detenuto Mussolini (“ma lui non si vedeva; si vedevano soltanto i due carabinieri di sorveglianza”) ed è sbarcato a Terracina. Da qui a Roma, prima in casa del vecchio amico Giuseppe Romita e poi di altri amici in piazza Vescovio. Qui è la mattina del 9.
“Roma” scrive nel suo diario2 “si è svegliata stamani al rombo del cannone. Si combatte a distanza, a Bracciano, Monterotondo, alla Magliana. Ma ciò che caratterizza la situazione è l’estrema confusione degli ordini e dei contrordini. A Roma è impossibile imbattersi in una qualsiasi autorità che sia disposta ad assumere una qualsiasi responsabilità. Il Comitato delle opposizioni3 si è riunito una prima volta in via Salandra, poi in via Adda. Ha preso il nome di Comitato di liberazione nazionale, lanciato un appello, cercato i primi contatti con i militari. Non si può seriamente pensare alla costituzione di un governo provvisorio al quale nessun comando militare obbedirebbe e che non disporrebbe di cento fucili. Bisogna perciò cercare di agire sui comandi militari. Ma dopo la fuga del re e di Badoglio non c’è più governo. Il ministro Piccardi si è presentato in via Adda al Comitato di opposizione per offrire la propria disponibilità. Egli ha narrato che Badoglio si è allontanato senza lasciare disposizioni. I ministri si sono riuniti stamani in assenza dei loro colleghi militari, tutti partiti per Pescara. Hanno constatato che erano all’oscuro di tutto e il ministro degli interni Ricci, designato per assumere l’interim della presidenza, ha rifiutato l’incarico. Il presidente del nostro Comitato, Bonomi, che si è recato al Viminale con una delegazione, ritorna sconsolato. Ha trovato il ministro Ricci, il sottosegretario alla presidenza Baratono e il direttore generale della PS Senise intenti a lacerare note e documenti. Sullo spinta di questi signori fa luce una frase di Senise: ‘Badiamo a non irritare di più i tedeschi'”.
“L’opinione pubblica è frastornata. Lunghe code si allungano davanti alle tabaccherie e non sembrano accessibili ad altra preoccupazione di quella del fumo. Passano a piedi o in automobile dei gruppi di soldati tedeschi senza sollevare la minima reazione. Bisogna andare nei sobborghi popolari per trovare del fermento”.
A Roma, imperturbabile al suo posto di lavoro in via di Propaganda, è anche Roberto Suster, il direttore della Stefani. “Stanotte tardi” scrive nel suo diario “Rahn4 mi ha chiamato al telefono per congedarsi. Tutti i tedeschi, i croati e gli slovacchi hanno chiesto il passaporto per rientrare in patria. Rahn è stato molto cortese, ringraziandomi ‘della leale collaborazione che ha sempre trovato nel suo lavoro e dell’insuperabile esempio di patriottismo che gli ho in ogni circostanza fornito'”.
“Alla mattina presto mi sono recato al ministero della cultura popolare e a quello degli esteri per esaminare assieme agli organi responsabili la situazione e decidere il da farsi. Trovo in entrambi i dicasteri l’atmosfera più nera e amara. Sia il ministro Galli che il ministro Guariglia sono letteralmente con la bava alla bocca per il modo di agire di Badoglio, che non li ha minimamente informati di quel che stava trattando e preparando, tanto che ancora alle 18 di ieri ignoravano ogni cosa. Guariglia ha addirittura stamani dato le dimissioni, consegnando il ministero all’ambasciatore Rosso. Il ministro Galli rifiuta di ricevere chiunque e si è ritirato al suo albergo, dove lo vedrò nel pomeriggio, raccogliendo uno dei più tragici sfoghi di un italiano vecchio stampo, tradito dal suo capo e disperato di aver macchiato il suo nome e il suo onore in un’azione nella quale non ha avuto nessuna parte né diretta né indiretta. Lo spaventoso in tutto questo si è che, ancora iersera, sia Badoglio, sia il Re e un po’ tutti i responsabili della capitolazione sono vilmente scappati da Roma, andandosi a nascondere in un paese che nessuno sa5 e lasciando, non solo la capitale ma il Paese completamente in balia di se stesso”.
“Il disorientamento, il panico, la confusione è così al colmo. Nei ministeri i funzionari e gli impiegati sono stati invitati a sgomberare e a rientrare alle loro case, nelle caserme i soldati vengono smobilitati senza alcuna formalità e rincasano scamiciati, trascinando i fucili come le scope, con il calcio sul selciato. E una vergogna senza nome, il crollo, la catastrofe, lo sfacelo più completo che si potesse immaginare. Io però sono deciso a non mollare. L’Italia, particolarmente in questo momento, ha bisogno di non apparire nel mondo come un paese d’inetti, di cialtroni, d’incapaci, e la Stefani anche in assenza del governo, anche senza alcuna direttiva o istruzione, anche senza informazioni, continuerà a funzionare, non fosse altro come ultimo simbolo che non siamo tutti scappati a nasconderci per paura di essere sculacciati. Praticamente, per tutta la giornata, assumo e assolvo così funzioni di ministro degli esteri, della cultura popolare, di presidente del consiglio, lanciando notizie all’estero e all’interno, commentando gli sviluppi della situazione, selezionando elementi e informazioni, secondo quest’unico criterio base: dare l’impressione e la prova che il paese non si dissolve come un cadavere, ma chiede soltanto a tutti di essere lasciato libero di piangere sul lutto della sua sorte. Oggi è questa ormai l’unica cosa che possiamo fare: coprirci il volto e chiedere che non si pretenda almeno di vedere le nostre lacrime, che non si pensi a speculare sulla nostra mutilazione morale e materiale.
“La fuga di Badoglio, l’inesistenza del governo, incominciano intanto a trapelare fra l’opinione pubblica, e l’indignazione bolle soprattutto fra gli estremisti che chiedono sempre più apertamente la costituzione di un comitato di salute pubblica e la deposizione del Re. Gruppi di cosiddetti ex-combattenti percorrono i quartieri popolari, distribuendo dei camions di moschetti e munizioni per l’organizzazione della resistenza contro i tedeschi. Effettivamente colonne germaniche da Ostia, da Viterbo, da Velletri stanno marciando su Roma, non si sa ancora se per occuparla o per transitarvi diretti verso il nord.
“Il nostro Stato Maggiore, più che mai inesistente, continua a far spostare da una parte all’altra formazioni di carri armati e di soldati, visibilmente incapaci di fronteggiare la situazione. Nessuno sa più, infatti, né chi comanda, né quel che si vuole, e la confusione si aggrava ad ogni ora che passa.
“Temo che domani la commedia di questa capitolazione debba finire malamente, e un’altra pagina di vergogna si aggiungerà alle molte che costituiscono la storia di questa nostra pagliaccesca epoca”.
In serata giungono a Roma le voci di uno sbarco alleato. Si spera che sia a nord di Napoli, possibilmente vicino a Roma. Poi si viene a sapere di Salerno; troppo lontano.
Lo sbarco è avvenuto stamani alle 3.30 ed è stata un’operazione imponente; è chiamata “Avalanche” (“valanga”, in italiano). Fra il 3 e il 7 settembre 450 navi da guerra (tra cui quattro corazzate, sette portaerei, undici incrociatori) sono partite dai porti di Orano, Biserta e Tripoli. Si sono radunate davanti a Palermo e, raggiunte da alcune unità minori provenienti da Termini Imerese, si sono dirette verso il golfo di Salerno. A bordo si trovano centomila soldati inglesi e settantamila americani; nel pomeriggio di ieri hanno saputo che l’Italia ha firmato l’armistizio.
La zona prescelta per lo sbarco è la piana del Sele, il fiume che nasce sui monti picentini ed è uno dei più importanti del versante tirrenico. La piana ha un retroterra dai quattro agli otto chilometri e di lì passano le strade che portano da Salerno a Napoli e da Battipaglia a Potenza.
Il golfo di Salerno e la Piana del Sele, tra Salerno e Agropoli, dove sono avvenuti gli sbarchi (l'”Operazione Avalanche”) su un fronte di una quarantina di chilometri.
La luna è tramontata un po’ prima dell’una. Il cielo era sgombro di nuvole, non c’era vento, il mare era liscio. È una notte calma. Sulle navi si trovano quattro divisioni di fanteria (due inglesi e due americane) e due brigate di corpi speciali (i Commandos inglesi e i Rangers americani). Gli sbarchi sono stati due; uno a nord del Sele e a sud di Salerno, l’altro a sud del Sele e a nord di Paestum; il fronte era di una quarantina di chilometri. Sulle colline era la le sedicesima divisione corazzata tedesca; su di essa sono piovuti più i grossi proiettili delle navi che non le bombe degli aerei.
Al calar del sole la testa di ponte è assicurata per otto chilometri. Tutto sembra facile; ma non lo sarà. A Salerno i primi reparti entreranno domani, ma ci vorranno ventidue giorni per percorrere i 54 chilometri che separano Salerno da Napoli. L’operazione “Avalanche” terminerà solo il primo di ottobre. E poi altri nove mesi per arrivare a Roma6.
A Roma di quello che accade nel golfo di Salerno si sa poco o niente; e non si sa niente degli altri eventi importanti della giornata, non si sa niente del generale disfacimento delle forze armate, esercito e aeronautica. Solo la marina militare si sta comportando con dignità. A differenza dell’esercito e dell’aeronautica, i capi sono rimasti al loro posto, sia pure fra dubbi, incertezze, perplessità e comprensibile indignazione per la mancanza di informazioni su quello che è successo dal giorno 3 (Cassibile) in poi.
Alla Spezia la notte è stata drammatica. Ieri alle 13.30 l’ammiraglio Carlo Bergamini, comandante in capo delle forze navali, stava per dare l’ordine di partenza (ore 14) per andare a contrastare il convoglio angloamericano che si stava dirigendo verso Salerno, quando una telefonata da Roma del ministro della marina, l’ammiraglio de Courten, gli ha ordinato di sospendere l’operazione e di essere pronto a trasferire le navi nel porto della Maddalena, in Sardegna (qui, secondo un primo progetto, doveva essere trasportato in aereo il re), oppure di uscire dalla Spezia e di affondarle in mare aperto su alti fondali7.
Alle 18.30 il Comando delle forze navali ha intercettato Radio Algeri che annunziava l’avvenuta firma dell’armistizio. L’ammiraglio Bergamini ne ha avuto conferma ascoltando alle 19.42 il proclama di Badoglio trasmesso dalla radio. Alle 20.30 gli ha telefonato l’ammiraglio de Courten; una conversazione durata quasi mezz’ora: le clausole armistiziali prevedevano il trasferimento della flotta in porti controllati dagli angloamericani, le bandiere non sarebbero state ammainate, il comportamento della marina avrebbe influito sul trattamento dell’Italia da parte degli Alleati; e poi: questi erano gli ordini di Sua Maestà.
Autoaffondare le navi per non consegnarle né al nemico di oggi né al nemico di ieri o obbedire al re? L’ammiraglio Bergamini si chiude nella sua cabina per un’ora. La decisione da prendere è grave, pesante di responsabilità. Alle 22.30 si reca sulla corazzata Vittorio Veneto, dove ha convocato a rapporto gli ammiragli e i comandanti delle navi; parla di sacrificio, di “ordine amaro”; dice che per il bene dell’Italia non esiste alternativa; prega di riunire gli equipaggi e di spiegare. Alle 23 chiama al telefono l’ammiraglio de Courten: “Fra poche ore tutta la squadra partirà per la Sardegna”.
Alle 3 di stamani la squadra è uscita dal porto della Spezia. Dopo la riunione – alle 6.15 davanti a Capo Corso – con tre incrociatori provenienti da Genova, la squadra risultava composta dalle corazzate Roma, Vittorio Veneto e Italia, dagli incrociatori Eugenio di Savoia, Duca d’Aosta, Duca degli Abruzzi, Garibaldi, Montecuccoli e Regolo e da otto cacciatorpediniere.
Alle 14.37, in vista delle Bocche di Bonifacio, tra Corsica e Sardegna, l’ammiraglio Bergamini è informato che la Maddalena è in mano tedesca e inverte la rotta a ponente verso l’isola dell’Asinara. L’ordine è ora di dirigersi verso l’Algeria, porto di Bona8.
Alle 15.37 la squadra è raggiunta e attaccata da una formazione di undici aerei tedeschi. Due bombe centrano la Roma. Una è di un tipo speciale: è lunga tre metri e 30, pesa 1400 chilogrammi, contiene 320 chilogrammi di esplosivo; ha una testa perforante, che le permette di perforare una corazza di acciaio di 120 millimetri; è possibile controllare la sua traiettoria o correggerla grazie all’azionamento radiocomandato delle alette di profondità e dei timoni di direzione.
Sulla Roma – una corazzata di oltre 41 mila tonnellate di stazza, 240 metri di lunghezza, un equipaggio di oltre 1600 fra ufficiali e marinai – c’è un ventiduenne guardiamarina, Arturo Catalano Gonzaga, chiuso in una piccola torre protetta da una corazza d’acciaio di 150 millimetri di spessore. Improvvisamente sente una violentissima scossa che fa sobbalzare tutta la nave e lo fa sbattere contro le pareti della torretta. La nave comincia a sbandare sul lato destro. Il fuoco antiaereo è cessato. Con un binocolo Catalano vede un aereo dal quale si stacca un puntino rosso che lascia nel cielo azzurro una lunga striscia nebulosa. Preceduto da un sibilo lacerante, l’ordigno si avvicina sempre di più; poi un tonfo leggero, quasi impercettibile; poi una folata di aria bollente; poi una fiammata gialla che avvolge il torrione e il fumaiolo di prora. L’aria sa di zolfo ardente.
La corazzata Roma colpita.
La corazzata Roma colpita (vista dall’altro lato rispetto alla foto precedente).
La bomba è esplosa nel deposito munizioni della seconda torre di medio calibro, ha sfondato le attigue caldaie, generando una gigantesca ondata di vapore, e ha innescato la deflagrazione del contiguo deposito munizioni della seconda torre di grosso calibro. È finita. Il guardiamarina Catalano racconta quello che vede9: “Tanti marinai terrorizzati correvano da una parte all’altra. Molti avevano visi neri di fuliggine e camminavano a tentoni, benché vi fosse la luminosità del sole. Altri perdevano sangue da ferite invisibili. Altri uscivano da non so dove con le vesti in fiamme, agitando convulsamente le braccia. Alcuni tentavano di gettarsi in mare. Tutti in realtà correvano come ciechi senza una meta. Verso prora non si vedeva altro che una compatta cortina di fumo nero che si ergeva verso l’alto come un fungo immane, quasi fosse una nube in tempesta. A poppa alcuni corpi giacevano a terra senza vita. Piccoli rivi di sangue scorrendo verso dritta andavano colorando di rosso il legno della coperta”.
La corazzata Roma in fiamme.
Ormai è tempo di abbandonare la nave. Il mare è cosparso di superstiti che cercano di rimanere a galla in attesa di essere soccorsi. Catalano ha il tempo di dare un ultimo sguardo alla nave, prima che si capovolga spezzandosi in due grandi tronconi: “Poi la poppa sprofondò lenta, scivolando avanti con un gorgoglio sommesso. La prora invece si erse verso il cielo. Vidi la prora per qualche istante, immobile, tanto che ebbi modo di vederne distintamente il bulbo. Poi verticalmente, come se fosse stata attratta da una forza titanica, scomparve”. Sono le 16.11.
Muoiono 1253 uomini, compreso il comandante, l’ammiraglio Bergamini10. I 596 superstiti vengono salvati dall’incrociatore Regolo e da altre unità minori, che, cariche di feriti e di naufraghi, non potendo riparare né in Corsica né in Sardegna, si dirigono verso il porto più vicino; è il neutrale Mahón nella più piccola (Minorca) delle spagnole isole Baleari.
In serata l’ammiraglio Oliva, che ha preso il posto di Bergamini, riceve l’ordine di portare a Malta quello che rimane della squadra. Oltre alla Roma sono affondati i cacciatorpediniere Vivaldi e Da Noli; per sfuggire alla cattura, si autoaffondano gli incrociatori Gorizia e Bolzano e una trentina fra cacciatorpediniere, sommergibili e corvette.
Domani alle 8.30 le unità restanti saranno intercettate, 120 miglia a nord di Bona, da una formazione inglese, che le scorterà fino a Malta. Qui arriveranno da Taranto le corazzate Doria e Duilio, gli incrociatori Cadorna e Pompeo e da Pola, dove si trovava in disarmo, anche la vecchia Cesare.
Dopodomani mattina nel porto della Valletta a Malta il generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate, e l’ammiraglio inglese Cunningham, a bordo del cacciatorpediniere Hambledon, assisteranno alla sfilata della restante flotta italiana: tutte le navi con la bandiera che sventola e gli equipaggi in coperta. “Glorious sight”, spettacolo glorioso, dirà il generale Eisenhower.
1 Complessivamente, nella seconda guerra mondiale i morti sono stati 50 milioni, metà dei quali civili.
2 Pietro Nenni, Tempo di guerra fredda, già citata.
3 Il Comitato delle opposizioni, diventato Comitato di liberazione nazionale, era costituito da Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola per il Pci, Giuseppe Romita (poi anche Pietro Nenni) per il Psiup, Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea per il Partito d’azione, Meuccio Ruini per la Democrazia del lavoro, Alcide De Gasperi per la Dc, Alessandro Casati per il Pli.
4 Rudolf von Rahn era l’ambasciatore tedesco e, dopo la liberazione di Mussolini, fu nominato plenipotenziario del Reich in Italia.
5 Domani la Stefani mentirà, dicendo che Badoglio è fuori Roma “in seguito a ispezioni militari che richiedevano la sua personale presenza”.
6 Una buona descrizione dell’operazione “Avalanche” è in Salerno 1943 di Angelo Pesce, Parma 2000.
7 Quasi tutte le informazioni sono riprese da Le memoria dell’ammiraglio de Courten (1943-1946) di Raffaele de Courten e da Le forze navali da battaglia e l’armistizio di Pier Paolo Bergamini (il figlio dell’ammiraglio Bergamini), edito come supplemento della Rivista Marittima nel gennaio 2002.
8 Bône in francese, Annaba in arabo.
9 In Gli squali raccontano, nuova edizione, senza indicazione dell’editore, 2004.
10 Sulla casa dove l’ammiraglio Bergamini nacque nel 1988 a San Felice sul Panaro una lapide commemorativa, scoperta il 13 settembre 1953, dice: “Qui nacque / Carlo Bergamini / ammiraglio d’armata / comandante in capo delle forze navali / medaglia d’oro al valor militare // per la patria in operoso silenzio / visse – combatté – morì // San Felice sul Panaro 24-X-1888 – acque della Maddalena 9-IX-1943 / Nel X anniversario del suo sacrificio / il popolo di San Felice / i marinai d’Italia / posero”.
9 settembre – Di più
Su YouTube è disponibile un documentario sull’affondamento della corazzata Roma (durata circa un’ora).
Da questo è stata tratta anche una versione breve, sempre su YouTube, suddivisa in due parti: la prima dura 9 minuti, mentre la seconda poco meno di 8 minuti.
– Francesca Ballerini segnala una bella storia raccontata sul sito web di Repubblica. Negli ultimi mesi del 1943 alcuni militari delle truppe inglesi e americane sbarcate a Salerno costruirono in una cantina danneggiata dai bombardamenti a Pontecagnano, pochi chilometri a sud di Salerno, sulla strada per Battipaglia, una cappella che venne dedicata a san Martino e a san Giorgio. Era una cappella abbastanza ampia, tanto da ospitare fino a trecento persone; un pavimento di pietra, un altare di pietra, all’ingresso una tela col ritratto di Gesù, donata da un italiano, molto simbolica perché piena di fori di proiettili. Per anni si è parlato di una “chiesa perduta” o di una “chiesa fantasma”; ogni tanto la cercava anche qualche inglese tornato a vedere i luoghi dove nel 1943 aveva rischiato la vita.
Il 10 dicembre del 2008 un articolo su Repubblica.it raccontava il mistero della chiesa scomparsa e il giorno dopo un abitante di Pontecagnano, Domenico Maisto, che nel 1943 aveva cinque anni, si è sùbito fatto vivo, dicendo che i resti di quella chiesa si possono ancora vedere nel magazzino di un negozio di ferramenta, proprio nel centro del paese di Pontecagnano (vedi “Torna dal passato la chiesa fantasma”).
– Elisa Valle segnala una storia “minore”, quella di Fortuna Novella, detta “Mamma Mahon”, carlofortina, unica italiana residente a Mahón, che accolse e curò amorevolmente i superstiti della “Roma” e gli equipaggi di “Attilio Regolo”, “Carabiniere”, “Fuciliere” e “Mitragliere”: i dettagli si possono leggere sul sito del piccolo comune di Carloforte, sull’Isola di San Pietro nella pagina dedicata a “Mamma Mahon“.
– Franco Arbitrio ha così riassunto una vicenda che amaramente si aggiunge alla giornata del 9 settembre dopo l’annunzio dell’armistizio.
La mattina del 9 settembre, il generale Giacomo Carboni capo del SIM (Servizio Informazioni Militare) e comandante del corpo motocorazzato comprendente le divisioni Centauro, Ariete e Piave di stanza a Roma, incaricato della difesa di Roma, lasciò la capitale su un auto con targa del corpo diplomatico, in uso al Servizio. Con lui erano il figlio capitano Guido, il tenente Lanza di Trabia ed il suo aiutante di campo capitano Gola. Prima di partire però – come scrive Melton S. Davis in “Chi difende Roma?”, BUR-storia, 1979 – si recò nel suo ufficio al SIM, fece distruggere alcuni documenti, aprì la cassaforte e prese un migliaio di sterline, lire italiane per un controvalore di 130 mila dollari, i gioielli che vi erano custoditi e mise il tutto in una valigetta. Tornò poi a casa, si mise in abiti civili e partì all’inseguimento delle auto con gli altri generali a bordo che avevano lasciato Roma in direzione di Pescara.
L’inseguimento si rivelò però infruttuoso. Carboni non sapeva che i generali, per motivi a lui sconosciuti, avevano lasciato la capitale percorrendo la via Nomentana fino a Mentana poi avevano proseguito per Palombara Sabina e per strade secondarie si erano immessi sulla Tiburtina ben oltre Tivoli. Alle 8 Carboni era a Tivoli; si recò alla locale caserma dei carabinieri, ma ovviamente non ebbe alcuna notizia della colonna delle auto dei generali. Seppe soltanto che alle 7,30 era stato visto passare in auto l’ammiraglio De Courten che aveva poi agganciato il convoglio reale.
Carboni ripartì da Tivoli e dopo venticinque chilometri raggiunse Arsoli; del convoglio dei generali nessuna traccia. Incerto sul da farsi, il generale accettò il suggerimento del tenente Lanza di Trabia di fermarsi ad Arsoli, dominato dal castello dei principi Massimo, all’interno del quale un suo amico, il produttore cinematografico Carlo Ponti, stava girando il film “la freccia nel fianco”, protagonisti Leonardo Cortese e Mariella Lotti, e di chiedere ospitalità. Carboni accettò la proposta del tenente. Strada facendo incontrarono Carlo Ponti, il quale disse di essere pronto ad ospitarli anche se il luogo non gli sembrava adatto. Carboni entrò dunque nel castello accompagnato dal tenente ed entrambi si diressero nell’appartamento occupato dall’attrice Mariella Lotti. Il tenente salutò l’attrice dicendo “tu devi salvarci”. Mariella Lotti (definita da Carboni “fidanzata” di Lanza di Trabia) obiettò che la presenza del generale e dei suoi accompagnatori avrebbe potuto mettere in pericolo la vita dei suoi compagni di lavoro e li invitò ad andarsene.
Carboni, invece, ha dato diverse versioni di quanto accaduto ad Arsoli: 1) dormì al castello dietro le insistenze di Mariella Lotti; 2) al castello era andato in cerca del generale Roatta; 3) al castello era andato per cercare un rifugio al re.
Carboni fu poi sottoposto a commissione d’inchiesta sulla mancata difesa di Roma, di cui era stato incaricato dall’alto comando dopo la pubblicazione dell’armistizio (fu assolto dalle accuse il 19 febbraio 1949). Nella sua deposizione Carlo Ponti disse: “Dall’atteggiamento e dalle richieste che mi vennero fatte trassi il convincimento che il generale Carboni volesse nascondersi. Il mio amico Gianfranco Casnedi ebbe anche lui la stessa impressione, tanto che, parlando con alcuni amici ed in presenza del conducente della macchina del generale Carboni, ebbe a dire che se tutti i generali si comportavano in quel modo l’Italia era finita”.
– Sul “Corriere della sera” del 22 marzo 2010 nella rubrica “Lettere al Corriere” un lettore chiede a Sergio Romano: “Si parla spesso dell’8 settembre 1943 e dell’armistizio. Non si sente citare il maresciallo Enrico Caviglia che credo abbia avuto un ruolo importante nella gestione della Città aperta di Roma, forse fino all’arrivo degli Alleati il 4 giugno 1944. Nel vuoto politico, seguito alla partenza del re e di Badoglio, credo che Caviglia fosse diventato il maggiore protagonista italiano nella città ormai in balia dei tedeschi. So che ha scritto un libro di memorie. Potrebbe darci notizie più precise? Mario De Palma , Genova.
Sergio Romano così risponde: “Il diario del maresciallo Caviglia fu pubblicato nel 1952 dall’editore Gherardo Casini di Roma ed è riapparso qualche anno fa presso l’editore Mursia di Milano. Copre vent’anni, dall’aprile del 1925 al marzo 1945, ma nei giorni cruciali dell’armistizio, fra l’8 e il 14 settembre, Caviglia smise di annotare giorno per giorno gli eventi di cui era stato testimone e protagonista nelle ore precedenti. Su quel periodo esistono quindi 21 pagine, scritte verosimilmente in Liguria, dove tornò il 15 settembre, e intitolate “Capitolazione”. Ricordo che Caviglia era allora onorato da molti per la partecipazione alla battaglia di Vittorio Veneto, per la fermezza con cui aveva sloggiato D’Annunzio da Fiume nel dicembre 1920, per l’indipendenza e il carattere di cui aveva dato prova durante il regime fascista. Non aveva incarichi e responsabilità, ma nella mattina del 9 settembre il vecchio maresciallo (era nato nel 1862) corse da un comando all’altro per tentare dì incollare i pezzi di un apparato che si stava sfaldando. Incontrò generali privi di istruzioni aggiornate, ministri e sottosegretari che Badoglio aveva “dimenticato” a Roma, ufficiali e impiegati solerti che continuavano a presidiare i loro uffici per amministrare gli affari correnti. Quando constatò che non esisteva un capo a cui tutti potessero fare riferimento, Caviglia cominciò a dare ordini con la naturalezza di un vecchio comandante, e tale fu riconosciuto da tutti coloro che incontrò in quei giorni. Mandò anche un telegramma al re, allora in navigazione verso Brindisi, con cui gli chiese di essere autorizzato ad “assumere il governo”. Sembra che il re gli abbia risposto per il tramite della radio di un incrociatore: “V.E. è da me investito potere mantenere funzionamento governo durante temporanea assenza presidente consiglio ministri”; ma il messaggio non gli fu mai recapitato. Il momento decisivo venne l’11 settembre, dopo i combattimenti di Porta San Paolo, quando il generale Calvi di Bergolo, comandante della Divisione Centauro, gli portò l’ultimatum con cui il generale Kesselring annunciava che avrebbe fatto saltare gli acquedotti di Roma e fatto bombardare la città da 700 aeroplani. Se Caviglia avesse accettato e dato ordine alle divisioni di disperdersi, i tedeschi avrebbero lasciato agli ufficiali l’onore delle armi, occupato alcuni palazzi romani fra cui quello dell’Eiar (la Rai di allora), ma trattenuto le loro truppe al di fuori della città. Caviglia calcolò che gli aeroplani tedeschi sarebbero stati tutt’al più 70, ma sufficienti per infliggere alla città gravissimi danni. “Non restava – scrisse – che chinare la testa”.”.
Il testo integrale della risposta di Sergio Romano è sul sito del “Corriere della sera”.
– Elena Aga Rossi, docente di storia delle relazioni internazionali presso la facoltà di scienze politiche della Luiss – Guido Carli di Roma e autrice, fra l’altro, di Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 (Bologna, Il Mulino, 1993; nuova ed. ampliata, con appendici, Mulino, Bologna, 1998; terza ed. 2003) ha letto la nota pubblicata sul Corriere della sera il 17 febbraio 2010 nella rubrica di Sergio Romano (si veda la nota e la risposta di Romano nella sezione “Dicono del libro” di questo stesso libro) e ha scritto all’autore:
“Nella sua testimonianza lei scrive ‘Soltanto qualche storico ha scritto, ma senza troppi particolari e senza farne il nome, di un documento precedente la Memoria 44 e inviato dallo Stato Maggiore dell’esercito fra il 10 e il 20 di agosto’. In realtà nel mio volume Una nazione allo sbando, che forse Lei non conosce – uscito prima nel 1993 e su cui ho continuato a lavorare, con due successive edizioni ampliate – dell’ordine 111 CT parlo esattamente negli stessi termini in cui ne parla lei, sottolineandone il carattere difensivo, per timore di un colpo di mano di Hitler contro il governo. Dopo le forzate dimissioni di Mussolini il 25 luglio tale possibilità era stata infatti presa in considerazione da Hitler, che aveva incominciato a inviare nuove divisioni tedesche dal Brennero senza alcun accordo con i comandi italiani. Fino allo stesso 8 settembre continuò la collaborazione con i tedeschi per far fronte a un eventuale sbarco degli anglo-americani, tanto che il ministro della Marina, De Courten, la mattina dell’8 ordinò all’ammiraglio Bergamini che comandava la flotta a La Spezia di tenersi pronto ‘per il previsto intervento offensivo nella zona di sbarco’. Mi sembrava quindi per lo meno inesatto affermare come Lei fa nella lettera del 17 febbraio al Corriere che ‘gli ordini furono dati, e tempestivamente'”.
Sergio Lepri ha così risposto: “Come può pensare che io abbia parlato e parli dell’8 settembre senza aver letto il suo bellissimo Una nazione allo sbando? Ho solo detto che del 111 C.T. ‘qualche storico ha scritto ma senza troppi particolari e senza farne il nome”. Ho sbagliato; lei ne ha fatto il nome. Mi scuso e – visto che il mio 1943 è un libro digitale e pubblicato in corso di scrittura nel mio sito – riporterò, se me ne dà il consenso, la sua lettera.
“Rimane il dissenso sulle cause dello ‘sbando’. L’8 settembre lei era appena nata, io avevo 24 anni; ero al Comando della 5a armata, all’Ufficio operazioni; disponevo, sulla grande carta al 200 mila del Touring, le bandierine che indicavano le unità dipendenti. Dopo l’arrivo del 111 C.T. mi dissero di spostare le bandierine: le unità costiere (e le artiglierie) non più ‘faccia al mare’, in funzione antisbarco, ma volte verso l’interno; le unità mobili allontanate dalla costa e spostate intorno alle divisioni tedesche. A parte gli ammiccamenti e la mano sulla spalla del Capo dell’Ufficio operazioni, il colonnello Bertorelle (antifascista come me, poi attivo nella Resistenza vicentina). ‘Lepri, ce l’abbiamo fatta’ mi disse.
“Ma le testimonianze personali non piacciono agli storici. Leggiamo allora insieme un documento, che lei stessa cita nel suo libro (Come arrivammo all’armistizio del generale Francesco Rossi). Prima: ‘Il segreto doveva essere assolutamente mantenuto sulle trattative di armistizio’; ‘Non volevamo essere attaccati prima di avere preso i necessari accordi con gli Alleati’; ‘In un secondo tempo si sarebbe passati ad un’azione più generale, coordinata con quella delle grandi unità angloamericane che sarebbero sbarcate sul continente’. Poi: ‘Il foglio 111 C.T. prescriveva ‘di predisporre colpi di mano contro elementi vitali delle forze armate tedesche’; la memoria 44 prescriveva ‘di interrompere a qualunque costo, anche con attacchi in forza ai reparti germanici, le ferrovie e le principali rotabili alpine’ e ‘di agire con grandi unità o raggruppamenti mobili contro le truppe tedesche, specie a cavallo delle linee di comunicazione’. Ecco perché penso che la tragedia dello ‘sbando’ non dipese dalla mancanza di ordini. La tragedia fu che i grandissimi Capi che dettero quegli ordini e i grandi Capi che li dovevano applicare furono i primi a scappare. Se ha avuto la pazienza di leggere tutta la mia testimonianza, sa che cosa successe al Comando dell’armata che doveva difendere tutta l’Italia centrale dalla Spezia al Garigliano: già il 10 al Comando c’era soltanto qualche ufficiale inferiore e la mattina dell’11 soltanto i soldati, i sottufficiali e due ufficiali di complemento.
“Una conferma è nel comportamento della Marina militare, che non ‘sbandò’, perché Supermarina non scappò. Il ministro de Courten – lei dice – telefonò la mattina dell’8 e ordinò all’ammiraglio Bergamini di tenersi pronto per il previsto intervento offensivo nella zona di sbarco (il golfo di Salerno). Leggiamo insieme un altro documento (Le forze navali da battaglia e l’armistizio di Pier Paolo Bergamini, figlio dell’ammiraglio morto sulla corazzata Roma): ‘Pur avvenendo la telefonata in armonica, l’ammiraglio de Courten si preoccupò di preparare l’appunto in maniera tale che solo l’ammiraglio Bergamini potesse comprendere l’effettiva situazione e gli ordini che venivano conseguentemente impartiti. I tedeschi, qualora fossero riusciti a intercettare la conversazione, avrebbero dovuto ritenere che le Forze navali italiane sarebbero regolarmente partite per andare a contrastare il prevedibile sbarco che gli Alleati avrebbero tentato di effettuare nel golfo di Salerno’. Insomma un altro episodio di quella sceneggiata con cui Badoglio si illudeva di far credere ai tedeschi che le alleanze non erano cambiate. Come i molti casi di finta collaborazione con i comandi tedeschi per far fronte al prevedibile sbarco degli angloamericani”.
– Sul dramma vissuto dall’ammiraglio Carlo Bergamini è interessante questa lettera scritta da suo figlio Pier Paolo a Sergio Romano sul Corriere della sera del 28 gennaio 2009:
“Sono il figlio dell’ammiraglio Carlo Bergamini dal 5 aprile 1943 Comandante in Capo delle Forze Navali da Battaglia (FF.NN.BB.), e desidero fornire alcuni chiarimenti a proposito di mio padre e della Marina dopo l’8. Nel 1943 la Regia Marina contrapponeva alle forze aero-navali anglo-americane, come unità di superfice, solo le FF.NN.BB.: 3 corazzate, 6 incrociatori, 8 cacciatorpediniere, 6 torpediniere. Il 6 giugno aerei alleati bombardarono il porto della Spezia colpendo le corazzate Vittorio Veneto e Roma. Il Veneto rientrò in squadra i primi di luglio, il Roma a metà agosto. Lo sbarco in Sicilia degli Alleati iniziò la sera del 9 luglio e non era quindi possibile inviare le FF.NN.BB. per difendere la Sicilia. A fine agosto vennero avvistati tre grandi convogli aero-navali da sbarco anglo-americani diretti verso il golfo di Salerno; era prevedibile che lo sbarco sarebbe iniziato all’alba del 9 settembre 1943. Pertanto l’ammiraglio de Courten convocò al Ministero mio padre per il mattino del 7 e venne deciso che le FF.NN.BB. salpassero dalla Spezia non oltre le 14 dell’8 per arrivare, di sorpresa, nel golfo di Salerno all’alba del 9 e affrontare gli anglo-americani nella fase più delicata, l’inizio dello sbarco. Supermarina, la mattina dell’8, dette l’ordine alle FF.NN.BB. di essere “Pronti a muovere alle ore 14”; ma alle 12.30 il Comando Supremo ne fermò la partenza. Mio padre – appresa la notizia dell’armistizio alle 18.30 dell’8 settembre da un comunicato di Eisenhower, poi confermata dal proclama di Badoglio delle 19.45 – si collegò telefonicamente con de Courten: riteneva che le mancate comunicazioni sugli eventi rappresentassero una mancanza di fiducia verso di lui, ma de Courten lo rassicurò e gli comunicò la necessità di rispettare le clausole armistiziali. Non fu facile convincere mio padre, orientato per l’autoaffondamento come da ordini delle 13.30, ma alla fine egli ritenne necessario “obbedire al più amaro degli ordini” per il bene della Patria e della Regia Marina. Le disposizioni armistiziali crearono un senso di angoscia nel personale della nostra Marina, ma mio padre godeva di grande prestigio e pertanto il 95 per cento degli ufficiali seguì il suo esempio”.
– Nella sua bella rubrica sul Corriere della sera il 30 dicembre 2008 Sergio Romano ha così risposto a una lettrice che gli chiedeva perché la corazzata Roma non fu impiegata per difendere la Sicilia dallo sbarco alleato nel luglio del 1943 e perché la flotta italiana non fu mandata subito in Sicilia dopo lo sbarco “ad aiutare i siciliani e a ricacciare a mare i nemici”:
“Perché la corazzata Roma e la flotta italiana non furono impiegate per la difesa della Sicilia? Alcune cifre sono forse più convincenti di qualsiasi argomento. Le forze navali britanniche si prepararono all’invasione con 795 vascelli e 715 mezzi da sbarco al comando del vice-ammiraglio Bertram Ramsay. Quelle americane, comandate dal vice-ammiraglio H. Kent Hewitt, comprendevano 580 vascelli e 1.124 mezzi da sbarco. I due raggruppamenti si mossero rispettivamente da est e da ovest con una copertura aerea che precludeva, di fatto, qualsiasi intervento nemico: 4.000 aerei contro i 1.500 dell’aeronautica italiana e tedesca.
“Nelle giornate che precedettero lo sbarco i bombardamenti anglo-americani misero fuori uso quasi tutti gli aeroporti dell’isola e costrinsero le squadriglie dell’Asse a ripiegare in Sardegna. Le sole navi italiane e tedesche che ebbero un ruolo in quelle giornate furono i sottomarini che riuscirono ad affondare quattro navi e due Landing Ship Tank (imbarcazioni per il trasporto di truppe e carri armati, concepite e costruite nel corso del conflitto).
“Aggiungo che la Sicilia, a giudicare dai molti rapporti esistenti sulle condizioni morali e psicologiche della popolazione e dei molti coscritti siciliani inquadrati nelle forze italiane, non aveva alcuna voglia di essere aiutata a difendersi. Piaccia o no, una parte del nostro contingente si ritirò senza combattere e gli invasori furono accolti come liberatori.
“La questione dell’impiego della flotta dopo l’8 settembre è molto più complicata. Il ministro della Marina era l’ammiraglio Raffaele de Courten. Molte navi erano alla fonda nei porti di Taranto e La Spezia, altre erano in missione, soprattutto nel Mediterraneo e nell’Atlantico. L’armistizio corto, firmato a Cassibile il 3 settembre, prevedeva “il trasferimento immediato in quelle località che saranno designate dal Comandante in Capo Alleato, della flotta e dell’aviazione italiana, con i dettagli di disarmo che saranno fissati da lui”. Nel suo libro edito dal Mulino sull’armistizio e le sue conseguenze (“Una nazione allo sbando”), Elena Aga Rossi ricorda che subito dopo la diffusione della notizia il comandante delle forze navali alleate nel Mediterraneo, ammiraglio Andrew Cunningham, “inviò via radio, inizialmente in inglese e poi ripetute per tutta la notte in italiano, istruzioni alla flotta italiana di dirigersi su Malta e sugli altri porti in mano alleata”. Ma de Courten aveva custodito gelosamente il segreto e il comandante della squadra del Tirreno, ammiraglio Carlo Bergamini, apprese la notizia dell’armistizio da una comunicazione radiofonica del generale Eisenhower mentre era a bordo della Roma nel porto della Spezia.
“In quelle ore molti ufficiali si chiesero angosciosamente quale fosse il loro dovere: consegnare le navi al nemico di ieri o affondarle? Vi furono ordini contraddittori, consultazioni telefoniche, scambi di messaggi e affrettate riunioni sulle navi che stavano per salpare. La flotta della Spezia partì alle 14 del 9 settembre per la Maddalena dove avrebbe ricevuto nuovi ordini. Ma non appena apprese che l’isola era stata occupata dai tedeschi, Supermarina ordinò di puntare su Bona, in Tunisia”.
Il testo completo della risposta è sul sito del “Corriere della Sera”.
– Giuseppe Michele Stallone ha raccontato all’autore di questo libro un episodio poco noto avvenuto a Bari il 9 settembre, protagonista suo padre, Pietro Stallone. Insieme alla battaglia a Porta San Paolo a Roma dalla notte dell’8 alla mattina del 10 (si veda la giornata del 10 settembre) e alla battaglia in corso nell’isola di Cefalonia (si veda la giornata del 24 settembre) si può considerare quello di Bari uno degli episodi che segnano l’inizio della Resistenza antitedesca.
Il 9 giugno del 2006 la Gazzetta del mezzogiorno ha descritto così quell’episodio: “A Bari, il 9 settembre fu un giorno di lotta. L’armistizio era stato appena reso noto. Forze armate germaniche presidiavano gli edifici strategici. Di questi, uno dei più importanti era la direzione provinciale delle poste e del telegrafo dello stato, allora situata in un grande palazzo di via Nicolai, angolo Cairoli. Lì non c’era solo la sede di uffici burocratici, ma il centro operativo di un servizio vitale delle comunicazioni, cioè il telegrafo, a quel tempo uno strumento insostituibile per i messaggi più urgenti, e il centro telegrafico del governo, al quale pervenivano le notizie più riservate. In quel palazzo avevano sede anche gli sportelli per il pubblico, gli impianti e gli uffici dai quali dipendeva il traffico postale, civile e in buona parte anche militare… L’ordine del comando germanico era quello di occupare, e probabilmente distruggere, per rappresaglia contro il voltafaccia italiano, il palazzo delle poste. Ma nella direzione provinciale di via Cairoli operava segretamente una cellula comunista, guidata da un impiegato del telegrafo, Pietro Stallone. Stallone, dai movimenti dei militari tedeschi intorno al palazzo, aveva avuto sentore del pericolo: il rischio poteva essere molto grave per la cittadinanza – la posta centrale era situata in un edificio al centro del popoloso quartiere Murat – e per il numeroso personale postelegrafonico. Il danneggiamento, o la distruzione della sede postale avrebbe inoltre paralizzato le comunicazioni in un’area strategica dell’Italia meridionale. Stallone e i suoi compagni, dopo rapide consultazioni fra di loro, imbracciarono coraggiosamente le armi. E cominciarono a sparare contro i militari nazisti. Incredibilmente, un piccolo nucleo di persone, armati di pistole e qualche moschetto ma con grande determinazione e coraggio, costrinse i tedeschi alla ritirata”. Così difesero anche gli impianti di Radio Bari, che presto sarebbe divenuta la prima vera voce democratica dell’Italia liberata.
Alcuni appunti di Pietro Stallone – rintracciati dallo storico Vito Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo – offrono ulteriori particolari sugli avvenimenti di quel giorno. Li ritroviamo sul “Corriere della sera-Corriere del Mezzogiorno” del 9 settembre del 2005: “Nel momento in cui – ricorda Stallone – si venne a sapere che i tedeschi avrebbero attaccato il porto, la stazione e gli uffici principali… negli uffici della Posta centrale si determinò subito, anziché panico, un vivissimo fermento e una rapida saldatura delle forze che, sinceramente, avevano coltivato nell’animo un’avversione decisa al fascismo e a tutte le sue forme di corruzione e di tradimento. Fu così creata quella spontanea reazione che immediatamente si manifestò appena i tedeschi spuntarono con alcuni autocarri carichi di uomini armati. Con una rapida consultazione di uomini vestiti col camice di lavoro, soldati, carabinieri e persino alcuni militi delle Milizia Postelegrafonica imbracciarono i fucili che avevano a disposizione e dalle finestre fecero fuoco contro i tedeschi. Il capitano dei carabinieri che comandava il reparto della censura militare al telegrafo e il capitano Spagnolo, che comandava i militari di truppa addetti ai reparti speciali di revisione e censura della corrispondenza postale, fecero causa comune con gli impiegati antifascisti che fiancheggiavano e sostenevano l’azione di fuoco”.
Pietro Stallone era originario di Palombaio, una frazione di Bitonto, dove era nato nel 1898. Da giovane, era stato bracciante agricolo e si era impegnato nelle lotte fino a divenire capo-lega. Durante la prima guerra mondiale aveva combattuto nel genio telegrafisti. Dopo la fine della guerra Pietro Stallone si trasferì a Roma per lavorare al fianco di Giuseppe Di Vittorio, segretario generale della Cgil. Più tardi divenne segretario generale del sindacato nazionale dei postelegrafonici.
A Pietro Stallone, “patriota e sindacalista – 1898-1975”, è intitolato a Roma un largo nel quartiere collatino.
I testi sopra riportati possono essere letti integrali in: http://www.mondimedievali.net/Rec/resistenza.htm.
– Sulla mancata difesa di Roma si può leggere: http://it.wikipedia.org/wiki/Mancata_difesa_di_Roma.
– Sulla situazione militare a Roma l’8 settembre e sulla partecipazione dei carabinieri alla difesa della città un ampio resoconto è sul sito dell’Arma dei Carabinieri.