Questo nuovo libro di Sergio Lepri condensa in una sintesi ricca e articolata la sua lunga esperienza di giornalismo e di riflessioni e studi sull’informazione, sui suoi meccanismi, trasformazioni ed esiti, sui suoi linguaggi. Nella scrittura di Lepri si fondono la capacità di distacco dell’osservatore scientifico e la perizia di chi ha vissuto e vive dall’interno la realtà di cui parla. Alle spalle stanno anche le sue non poche felici esperienze di offerta informativa e didattica su tutta la materia. È un nuovo debito che contraiamo verso di lui in molti, giornalisti, studiosi, studenti e quanti si rendono conto che l’informazione, la sua elaborazione e messa in circolo sono ormai una vera materia prima nel mondo d’oggi.
Sergio Lepri entrò all’Ansa nel 1960, un anno dopo ne divenne direttore e lo restò per ventinove anni, fino alla pensione. Allora, al suo arrivo, alcuni arricciarono il naso: lo considerarono e dissero un “fanfaniano di ferro”, temettero che avrebbe compromesso l’imparzialità dei notiziari. Sbagliavano di molto e, per di più, avevano anche la memoria corta. Certo, Lepri era da poco stato portavoce di Fanfani segretario della Dc e, poi, capo del servizio stampa di Fanfani presidente del consiglio. Ma chi aveva buona memoria ricordava bene la sua militanza nella Resistenza fiorentina, nei giornali clandestini e poi in quelli della nascente democrazia, la sua appartenenza al Partito liberale e alla sinistra di quel partito, la sinistra del “Mondo”, con la quale era poi uscito dal partito per restare un senza tessera, un “cane sciolto”, si diceva in quegli anni, appassionato a un giornalismo senza costrizioni di parte. Chi lo conosceva ancor meglio sapeva che era un cultore e di Croce e di Marx e che, se lo si voleva etichettare per ancorarlo a un’appartenenza, bisognava definirlo “storicista post-crociano e post-marxista”. Era un giornalista, una persona colta e onesta. E intelligente. E, di conseguenza, serenamente democratico.
Lepri ha scritto libri importanti sul mestiere del giornalismo e per illustrare l’idea di informazione cui si è ispirato nella sua professione. Ma qui non vorrei rinviare ai dieci e più saggi e manuali che ha scritto sull’argomento. A costo di mettere avanti mie vicende, per onorare il grande giornalista e l’amico e la sua generosità voglio testimoniare che del suo modo di concepire l’informazione ho potuto rendermi conto personalmente, in re. Ho infatti avuto il privilegio di incontrare Lepri sul campo, trovando almeno a due riprese il suo aiuto decisivo. Lo voglio ricordare perché in tutti e due i casi la prontezza dell’aiuto illumina, mi pare, l’idea di informazione cui Lepri si è ispirato e di cui si è fatto maestro.
Nel 1979 nel mio non ortodosso insegnamento di filosofia del linguaggio, che accanto alle riflessioni teoriche e storiche faceva largo posto a esperienze educative e applicative, avevamo avviato a Roma, auspice anche Natalia Ginzburg, il tentativo di costruire e pubblicare un foglio di informazioni periodiche destinato a categorie marginali: adulti con bassa scolarità, immigrati (eravamo allora pochi a sapere e cercare di spiegare che da alcuni anni il paese non era più un paese di emigrazione, ma di immigrazione) e, oh orrore, down e ritardati. Un gruppetto di volontari, studenti, qualche laureando, ricercatori, tra cui Emanuela Piemontese, si accinse al compito di scegliere le notizie e presentarle in una forma comprensibile. La fonte a cui il gruppetto si rivolse fu la lettura dei nostri giornali. Avevo partecipato da molti anni alle ricerche e riflessioni critiche di Maurizio Dardano, Umberto Eco, Mario Isnenghi, Mario Lenzi sulle caratteristiche non positive prevalenti nel nostro giornalismo. E sapevo che quella fonte era pessima per trovare gli elementi necessari a presentare una notizia in modo completo e comprensibile. Ma nel mio lavoro di insegnamento non ho mai voluto prevaricare, imporre un punto di vista. E il tentativo che avevamo avviato era per me un pezzo prezioso del mio lavoro didattico. Lasciai che il gruppetto sperimentasse nelle cose quel che alcuni di noi già ben sapevano, e cioè che i nostri giornali, anche a collazionarne pazientemente i testi, non davano mai gli elementi necessari a presentare in modo stringato e completo e comprensibile l’essenziale di una notizia a una persona non già informata dei fatti (o non interessata a esserlo). Mettendo a confronto diversi quotidiani il gruppetto scoprì dopo un po’ a sue spese che per capire e poi per dire con la precisione imposta dalla chiarezza che cosa mai fosse accaduto, quale era il fatto all’origine della notizia, il confronto di quattro, cinque quotidiani non bastava: bisognava risalire alla fonte delle fonti a stampa, cioè alle agenzie. Così cercammo un contatto con l’Ansa. Ci chiesero di abbonarci all’agenzia. Ma eravamo senza una lira. L’università finanziava riviste di ricerca e i numeri zero che avevamo realizzato e messi in circolo erano essi stessi una ricerca in itinere, non una rivista accademica di ricerca. Senza abbonamento niente notizie di agenzia. Insistemmo, Lepri, incuriosito, volle conoscerci. Colse al volo il senso del nostro lavoro: provare che era possibile informare sui fatti con un linguaggio accurato capace di renderli comprensibili anche alle persone meno dotate di strumenti di conoscenza. Dopo ventiquattr’ore i pacchi dei notiziari Ansa (con un concordato giorno di ritardo rispetto al lancio) cominciarono ad arrivare, gratis, nella mia stanza di lavoro in Villa Mirafiori. Il lavoro poté fare un salto di qualità, il nostro periodico cominciò a uscire a stampa col titolo “Due parole”. Il seguito della vicenda lo ha raccontato e documentato Emanuela Piemontese nel suo libro Capire e farsi capire.
Dieci anni dopo Gianni Merlini, presidente della Utet, decise di assumersi l’onere di un tutt’altro progetto: un grande dizionario che documentasse non solo gli usi storici e letterari della nostra lingua, ma anche l’uso contemporaneo nelle sue varietà. E lo documentasse non solo attingendo ai dizionari già circolanti, che era ed è restata pratica corrente della nostra dizionaristica, ma risalendo alle fonti prime, ai testi dell’italiano dei nostri anni. L’accesso alla rete, Google o Alltheweb erano di là da venire. Avevo notizie vaghe del fatto che l’Ansa aveva attivato un information retrieval: era possibile pescare (questo sapevo) le ricorrenze di un nome proprio in tutto il mare magno delle notizie dell’agenzia. Ma lo stesso non poteva farsi con le parole comuni? Di nuovo, grazie a Lepri, fui ammesso alla beatifica visione del meccanismo. E di nuovo qualche giorno dopo potemmo avere in via di Santa Croce, nella sede romana della Paravia dove cominciavamo a lavorare al dizionario, la lista, l’index verbo rum delle parole meno frequenti ricorrenti nelle notizie Ansa (alle più frequenti pensavamo noi con i nostri spogli a Roma e, soprattutto, nella redazione di Torino). Varato nel 1989 un progetto di fattibilità che prevedeva la realizzazione in dieci anni, i sei volumi del Grande dizionario italiano dell’uso furono pubblicati a Torino da Utet nel 1999.
Se in entrambi i casi Lepri è stato tanto sollecito nel dare il suo appoggio decisivo questo è dipeso senza dubbio dal fatto che in entrambe le imprese ha riconosciuto la presenza delle sue stesse idee e ispirazioni: l’amore per un’informazione completa, accertata, comprensibile, e dunque l’amore per la documentazione e per la parola che informa.
Queste idee Lepri ha propugnato e realizzato nella sua direzione dell’Ansa e ha spiegato nei corsi universitari affidatigli dalla LUISS e più volte ha proposto e dettagliato in modo magistrale nei suoi libri precedenti e in questo. In Universal Journalist David Randall, geniale e autorevole giornalista britannico, ha condensato in dieci norme i consigli per il perfetto giornalismo. Nel libro di Lepri le norme sono assai di più rispetto al decalogo di Randall. Oppure, al contrario, si possono condensare in pochissime, perfino in una, che Lepri chiama “attenzione”, o forse, oserei proporre, in tre. A formularle appaiono di grande semplicità. Alla buona informazione Lepri, in sintesi, suggerisce fondamentalmente tre cose: (1) dare le notizie interessanti per il pubblico destinatario della fonte informativa; (2) darle in modo completo, dunque accurato; (3) darle in modo comprensibile, dunque in un linguaggio chiaro e accessibile.
Nella sua semplicità ciascuna norma presuppone un gran lavoro da fare e da fare appunto con molta attenzione.
Dare le notizie: i fatti sono infiniti nel cosmo e anche solo sul nostro piccolo pianeta. “Il mondo è tutto ciò che accade”, diceva Ludwig Wittgenstein nella prima proposizione del suo Tractatus logico-philosophicus. E chiosava immediatamente: “Il mondo è la totalità dei fatti”. Non si può chiedere a nessuno di dare conto di questa totalità. Ogni fonte informativa non può non selezionarne una parte secondo criteri di pertinenza, che dovrebbero essere dettati dal pubblico dei destinatari. E le selezioni sono comprensibilmente diverse a seconda dei pubblici. Qui può terminare questo succinto prologo logico-philosophicus. Andiamo al dunque. Una grande agenzia come l’Ansa o Afp o Reuters produce ogni giorno migliaia di lanci e seleziona centinaia di sintesi. Quante ne sono raccolte dai nostri quotidiani e telegiornali? Anni fa lo stesso Lepri ci offrì un conto: da un lato seicento notizie di agenzia, dall’altro poche decine di notizie riprese nei nostri quotidiani. Ad anni di distanza la divaricazione è aumentata ed è resa evidente dalle fonti che viaggiano in internet: da una parte, per ciascun paese, notizie che superano il migliaio, dall’altra una crescente povertà. Se si tolgono le cronache locali, sportive e finanziarie (di solito, oserei dire, le meglio fatte e più ricche), i nostri quotidiani maggiori danno nella parte generale, interni ed esteri, sette, otto, dieci notizie, galleggianti in un ondeggiare di commenti ed esternazioni più o meno autentiche, a fronte delle centinaia di notizie di agenzia. I telegiornali generalisti accentuano questa povertà: tre, quattro notizie politiche, mezza dozzina di scannamenti e stupri e di indagini sui medesimi, e arrivederci. Il semplice richiamo terra terra di Lepri all’opportunità di dare le notizie mette in crisi, dovrebbe mettere in crisi i modi tenuti dai nostri organi di informazione nell’informarci o, meglio, nel farci ignorare informazioni di grande rilevanza per noi, per la nostra società e il nostro paese.
Dare le notizie in modo completo e accurato. È la difficoltà contro cui trent’anni fa si scontrarono i ragazzi e le ragazze di “Due parole”, quando volevano ricostruire, partendo dai quotidiani, i tratti essenziali di un fatto. Ma cedo la parola allo stesso Lepri:
“Molti fatti di cronaca (di nera e di bianca, ma anche di politica e di economia o di sport) sono spesso importanti per i loro particolari e gli aspetti secondari del loro svolgimento. Se i particolari sono importanti, il bravo cronista deve saperli identificare e raccontare con precisione. Il nome oltre al cognome del protagonista del fatto e la sua età, il nome della strada in cui il fatto si è svolto ma anche il numero civico, l’ora della giornata, l’abbigliamento, il menù di un pranzo (questi sono esempi banali per spiegare il problema) possono a volte essere informazioni interessanti per capire meglio ciò che è avvenuto; ma è proprio questo che rende necessaria l’esattezza dei dati. Altrimenti si dà alimento a coloro che accusano il giornalismo – spesso a ragione – di colpevole pressappochismo. Il problema dell’approssimazione […] ha tuttavia una dimensione più grande e riguarda moltissimi casi, quando cioè il giornalista ritiene che la qualifica che gli è stata data, la posizione che occupa, la consapevolezza di scrivere per migliaia di persone (o, peggio, di rivolgersi a milioni di telespettatori) gli conferiscono un’autorità culturale che lo esonera dal controllare dati e grafie e (spessissimo in tv) la pronuncia, specie dei nomi stranieri. È strano che non ci si accorga di quanto discredito può portare un errore che è evitabile con la semplice e veloce consultazione di un dizionario, di un’enciclopedia, di un manuale; oggi, a volte, anche una veloce ricerca su Internet”.
A queste parole di Lepri non c’è altro da aggiungere. C’è invece da fare, c’è da (ri)costruire un diverso costume nella nostra informazione.
Dare le notizie in modo comprensibile, dunque, in Italia, darle in buon italiano. È da anni un’idea ricorrente di Sergio Lepri, che nel sostenerla non è stato e non è un isolato. Fu per esempio un’idea guida di Mario Pannunzio nella direzione del “Mondo”. Per la parte delle comunicazioni dell’amministrazione pubblica fu fatta propria da Sabino Cassese, quando fu ministro della funzione pubblica, e ispirò il suo Codice di stile per le pubbliche amministrazioni, che ha avuto qualche buona ricaduta in amministrazioni pubbliche locali e nei lavori di ricerca e proposta di alcuni studiosi. Ma è una posizione minoritaria. Come molti intellettuali autori di saggistica di varia umanità anche il giornalista si sente offeso se si mette in discussione il suo modo di comunicare. Eppure ci sono alcune norme “piccine” (diceva don Lorenzo Milani) relativamente facili da ricordare e rispettare se si vuole praticare bene l’arte grande dello scrivere per informare: ricordarsi che tra due interpunzioni “forti” (quelle di Totò: “punto, puntevvirgola e due punti”) è meglio che non ci siano più di 25 parole, altrimenti il lettore si imbroglia; ricordarsi che tra una parola o espressione più comune e una più rara è meglio scegliere la prima: collegare meglio di interconnettere o correlare, cooperazione meglio di sinergia, andare meglio di recarsi, oscuro meglio che criptico, con molte facce meglio di poliedrico. Chi fa la scelta migliore si ritrova a usare le parole del vocabolario fondamentale che sono poi, all’80%, parole di Dante, che ripetiamo e capiamo da secoli e che, se parliamo italiano, tutti conosciamo. Usarle significa garantire la massima possibile comprensibilità a ciò che diciamo e scriviamo.
Sergio Lepri già in passato e di nuovo in questo libro non risparmia sforzi e cura per ricordarci le norme di buon uso e metterci in guardia contro cattivi usi correnti della nostra lingua. I prontuari alfabetici che arricchiscono il volume sono il luogo in cui emergono i frutti puntuali di questo suo impegno. Se ne avvantaggeranno, se se ne serviranno, giornalisti e annunciatori di radio e televisione. Se ne potrebbero avvantaggiare direttamente o indirettamente (ma forse è sperar troppo) anche quei nostri attuali ministri che, per esempio, dicono egìda e inclìto. Ma ce ne avvantaggiamo tutti perché Lepri ci mette in guardia anche da quegli stereotipi in cui rischiamo di scivolare. E fa tutto ciò con affabilità, con la grazia di un lieve sorriso. Cito ad esempio la voce annunciato.

annunciato Fra tutti i titoli di libri o di film o di programmi televisivi di successo cui amano richiamarsi specialmente i titoli dei giornali, quello più ripreso è la Cronaca di una morte annunciata di Gabriel García Márquez: “un disastro annunciato”, “una crisi annunciata”, “un caos annunciato”. Forse sarebbe giusto cambiare libro.

Dicono che un sorriso o una bella risata fanno bene alla salute. A volte è dura sorridere o ridere. Ma vale la pena provarci e questo bel libro, denso, ricco, utile, ma anche umoroso ci aiuterà a farlo. Motivo non ultimo della gratitudine che dobbiamo a Sergio Lepri