17 settembre
“Per ordine del Fuhrer e con effetto immediato i prigionieri di guerra italiani non devono essere più indicati come tali, bensì con il termine di ‘internati militari italiani’ (Italienische Militär-Internierte”. Così dice una nota diramata tre giorni fa dal Comando supremo della Wehrmacht (OKW), a modifica di una direttiva del 9 scorso, secondo la quale “i soldati italiani che non siano disposti a continuare la lotta al fianco dei tedeschi devono essere disarmati e considerati quali prigionieri di guerra”.
Il cambiamento di denominazione – da “prigionieri di guerra” a “internati”1 – ha un senso: gli internati non sono sottoposti al regime previsto per i prigionieri di guerra dagli accordi di Ginevra del 1929 (trattamento umanitario, sufficiente alimentazione, assistenza sanitaria e religiosa, protezione della Croce Rossa internazionale) e vengono a trovarsi in un limbo giuridico completamente legato all’arbitrio delle autorità militari tedesche.
Quanti sono gli Imi? Difficile avere cifre esatte2. L’8 settembre gli italiani sotto le armi sono approssimativamente 3.500.000, dai quali vanno sottratti i prigionieri degli angloamericani (circa 600 mila) e dei francesi, i dispersi dell’Armir in Russia, i feriti e gli invalidi. Effettivamente in grigioverde si ritiene che siano due milioni. Nei giorni dopo la firma italiana dell’armistizio i tedeschi ne catturano 1.007.000 3; di questi, 196 mila riescono a fuggire. Dei rimanenti 810 mila (321 mila catturati in Italia, 58 mila in Francia, 430 mila nei Balcani) 13 mila muoiono nel trasporto dalle isole greche e 94 mila (quasi tutti Camicie nere) decidono di passare con i tedeschi.
Nei campi di concentramento tedeschi vengono dunque deportati circa 730 mila militari italiani; 710 mila saranno trattati come Imi, 20 mila come prigionieri di guerra perché non si sono arresi o sono stati catturati dopo essere passati (nei Balcani) con i partigiani. Entro la prossima primavera 103 mila si dichiareranno disponibili, come combattenti o come ausiliari, a prestare servizio per la Germania o per la Repubblica Sociale di Mussolini. Sono quindi un po’ più di 600 mila i rinchiusi nei campi di prigionia in Germania o nei territori occupati: Stammlager (Stalag) per i soldati e i sottufficiali avviati al lavoro coatto; Offizierslager (Oflag) per gli ufficiali; campi di punizione (Straflager) o dipendenze dei campi di sterminio per i militari accusati di sabotaggio o di altri reati.
Lo status degli Imi verrà formalmente cambiato nel’agosto del 1944, quando, dopo insistenze di Mussolini, che si è incontrato con Hitler a Rastenburg, il Comando supremo della Wehrmacht darà agli internati la qualifica di lavoratori civili, applicando loro le stesse condizioni, anche economiche, concesse ai lavoratori civili non militari4 che lavorano in Germania anche da prima della guerra. I campi di concentramento passeranno formalmente dall’amministrazione militare alle gestione del sindacato unico nazista Deutsche Arbeitfront. Diminuirà la sorveglianza armata e sarà consentita una certa libertà di movimento entro limiti ben circoscritti e militarmente sorvegliati, ma le condizioni di lavoro e di vita – alimentazione e assistenza igienico-sanitaria – non miglioreranno e aumenterà l’utilizzo dei militari sottufficiali e soldati come mano d’opera coatta. La giurisdizione di tutti gli ex-Imi sarà della Gestapo, responsabile della loro sorveglianza e delle loro punizioni per infrazioni sui tempi e le norme di lavoro. La “civilizzazione” degli internati significherà quindi non una operazione umanitaria ma uno sfruttamento più qualitativo della forza lavoro.
La durezza e la pericolosità del lavoro come edili, ferrovieri, minatori e contadini e la malnutrizione e le malattie hanno una tragica conferma nel numero degli Imi ed ex-Imi morti. Non si hanno cifre precise, ma le cifre stimate vanno dai 37 ai 50 mila.
Cifre non precise sono anche quelle che riguardano gli internati che decidono di rispondere no agli inviti di collaborare con la Germania nazista. Una cifra approssimativa è tra 600 e 650 mila, così approssimativamente ripartita: più di 200 generali e ufficiali superiori, 23 mila ufficiali inferiori, 16 mila sottufficiali, tra 580 e 600 mila i militari di truppa.
Il primo no è tra l’8 e il 20 settembre ed è significativo, perché la Repubblica Sociale nascerà il 23 settembre e la dichiarazione di guerra del governo Badoglio alla Germania avverrà solo il 13 ottobre. La lotta partigiana non è ancora cominciata e questo no sul luogo di cattura è quindi il primo atto di ribellione contro il nazismo e una proclamazione di antifascismo.
Il secondo no avviene nei campi di concentramento ed è il rifiuto a indossare di nuovo l’uniforme italiana, quella di Mussolini, tonando in Italia a combattere al fianco dei tedeschi. E’ un’offerta che può apparire seducente: significa non essere più prigionieri in quei campi di concentramento. E’ un no che viene ripetuto più volte, anche in risposta a una campagna di propaganda organizzata dall’ambasciata italiana a Berlino grazie a una missione militare che visita i campi lavoro e si richiama sia a argomenti morali e ideali, propri della retorica fascista, sia a minacce e lusinghe di libertà. E’ quindi un no che ha un significato politico e sembra giusto che i 600 mila e più ex-Imi che rifiutano di lasciare fame, freddo, violenze e lavoro coatti e di tornare in Italia per combattere per Mussolini siano considerati parte della Resistenza, accanto ai partigiani e ai militari che operano in Italia nella guerra di liberazione.
I militari che accettano l’offerta di rimanere, come viene proclamato ufficialmente, “fedeli all’alleanza”, sono un po’ meno di centomila, ma non tutti sono utilizzati per far parte, come Mussolini vorrebbe, delle quattro divisioni della neonata Repubblica Sociale (“Monterosa”, “Italia”, “Littorio” e “San Marco”) in corso di addestramento in Germania. Circa sessantamila vengono inquadrati come ausiliari nella Luftwaffe (aeroporti e artiglieria contraerea) e nella Wehrmacht (servizi sanitari, ferroviari e edili nelle retrovie) e circa 40 mila come combattenti nelle unità della Rsi e nelle SS. In Italia molti disertano appena arrivati e scappano in montagna.5
1Prima di ora la parola “internati” è stata usata per i militari che si sono rifugiati in stati neutrali come la Svizzera
2Questi dati, desunti da varie fonti, sono in “Gli internati politici italiani” di Mario Avagliano e Marco Palmieri, edito nel 2009 da Einaudi.
3Secondo l’indagine “A futura memoria” dall’Anei, ‘Associazione nazionale ex internati, il 70,4 per cento si sono lasciati catturare senza resistenza dove si trovavano, in caserma o nel caposaldo; il 15,4 per cento sulla via del ritorno a casa; il 13 per cento in battaglia aperta dopo breve resistenza; l’1,2 per cento in combattimento fra tedeschi e partigiani.
4Per i lavoratori civili non militari si veda più sotto nel “17 settembre – Di più”.
5Nel libro già citato (“Gli internati politici italiani” di Mario Avagliano e Marco Palmieri) c’è una interessantissima raccolta di testimonianze di internati, sia di quelli che optarono per la Rsi, sia di quelli che rimasero nei campi di lavoro (circa l’80-85 per cento). Molte lettere descrivono le terribili condizioni di vita nei lager e nei campi di punizione.
17 settembre – Di più
– Che cosa succede in tanti e tanti reparti dell’esercito, specialmente all’estero, nei giorni dopo l’annunzio dell’armistizio? Un bel racconto è quello di Giovanni Giovannini nel suo libro “Il quaderno nero”, uscito nel 2004 con i “Libri Scheiwiller”. Giovannini (1920-0000) è stato giornalista della “Stampa” di Torino, presidente della Federazione degli editori di giornali (Fieg) e presidente dell’Ansa. L’8 settembre 1943 si trovava nella Costa Azzurra, vicino a Mentone, come caporal maggiore nell’ufficio informazioni del Comando del primo Corpo d’armata della IV Armata. Ecco il racconto.
“Apprendo la notizia dell’armistizio in un piccolo ristorante italiano. Chi me la comunica è Mugnai, il proprietario. Mugnai, il grande cranio lucido, gli occhi un po’ atoni, la mascella prominente. Il prototipo dei fascisti all’estero: nella sua mente fascismo e Italia si sono confusi in una cosa sola; al punto che l’esasperazione dell’italianità, provocata dal vivere in mezzo agli stranieri, ha portato all’esasperazione del fascismo. Il quale ha significato per lui solo quanto era stampato sulla carta, proclamato dalle bocche: rinunzia, sacrificio, purezza, fede nella grandezza della patria. Avendo sempre vissuto all’estero, ha ignorato tutte le bassezze, le vergogne, le miserie della prassi in cui quelle teorie si traducevano. Ora nella sala deserta e semibuia sta attonito, appoggiato a una parete, un’espressione mista di stupore e di dolore nello sguardo.
“Non posso restare là: a me il cuore trabocca di gioia. Nelle strade c’è una insolita animazione. Le nostre divise attirano sguardi ora di simpatia ora di derisione trionfante. Non vi presto troppa attenzione. Devo arrivare a Grasse, sede mia e del mio Comando, ad ogni costo, anche se qualcuno – il mio pensiero è fisso alle truppe tedesche accantonate tra Cannes e Grasse – tentasse di impedirmelo. Levo la sicura alla pistola e metto la pallottola in canna. So che l’arma è scassata; serve solo per farmi coraggio.
Alla stazione di Cannes devo prendere l’autobus. Prima tentazione: fra pochi minuti deve passare la tradotta per Mentone. Saltar sopra abbandonando tutto e tutti, e fra qualche ora essere in Italia!
“Gruppetti di soldati stanno esaminando lo stesso problema. Li dissuado: da un momento all’altro i tedeschi entreranno in azione per impedirci la ritirata e catturarci tutto quanto può loro servire; da un momento all’altro possono avere inizio regolari operazioni di guerra. Che cosa avverrà di noi se ci daremo alla fuga ognuno per conte proprio?
“Si è formato attorno un capannello di civili francesi che approvano. Siamo d’accordo: il momento è venuto per i gollisti francesi che possono da un momento all’altro appoggiare un esercito regolare. Ma l’inquietudine. la tensione, il nervosismo sono grandi. Sorveglio continuamente gli sbocchi delle strade che portano alla stazione, temendo sempre di veder irrompere da un momento all’altro qualche pattuglia tedesca,
“E non succede niente. La tradotta carica di soldati festanti arriva; riparte con tanti altri, verso Nizza. Mentone, Ventimiglia. Con pochi altri torniamo in autobus a Grasse, sede del nostro Comando dei primo Corpo d’Armata.
“Credevamo di trovare la cittadina – sede del Comando di Corpo d’armata e di diversi reparti di truppa – tutta sottosopra; invece niente. Tutto calmo. E’ sera. Poca gente nelle strade.
“Ci dirigiamo svelti verso l’hotel Victoria, sede del Comando.
Davanti a noi un carabiniere lungo lungo cammina lemme lemme. Mentre lo sorpassiamo gli chiediamo per scherzo: “Nulla di nuovo oggi?”. E quello, serio serio, “Niente”.
“Ci fermiamo di botto. Che la notizia sia falsa? Quante volte si è sparsa senza alcun fondamento questa voce negli ultimi giorni! «Ma l’armistizio… non è vero…?»
“«Ah, beh, sì» – risponde – «ma, a parte quello…»
“Voliamo via.
“Al Victoria, finalmente un po’ di animazione. Dal sottosuolo salgono le urla dei telefonisti: un caos di nomi, di cifre, di maledizioni. Una frase domina sulle altre: «Mentone? Mentone? Pronto? Qui Grasse! Pronto? Mentone? Mentone? Mentone?» Si cerca disperatamente – ma inutilmente – il contatto con Mentone, sede del Comando della IV Armata.
“Per le scale si trasportano casse: negli uffici si imballa. Entro nel mio; i ragazzi mi corrono incontro, mi abbracciano: «Si va a casa! È finita, è finita!». Tutti gli ufficiali sono là, nervosi, ma ottimisti. Volutamente o no, non trapela nemmeno l’ombra di un dubbio.
“In tutto il Comando non ci si preoccupa che di far le valige. La sicurezza generale è così impressionante che piano piano mi sgancio l’arma, mi metto a dare una mano agli altri; mi convinco anch’io.
“Di ora in ora le notizie sono tali da inquietare anche i più ottimisti: una divisione corazzata tedesca ha preso posizione, si dice, lungo il Varo, rompendo così le nostre comunicazioni con Mentone. Ed effettivamente non si riesce a stabilire regolari contatti col Comando della IV Armata.
“Si comincia a nutrire sempre più forte il dubbio sul da farsi.
“Ma cominciano altresì ad arrivare ordini precisi di restare calmi ai propri posti di combattimento.
“L’eccellenza Romero – si comunica – e il suo capo di S.M. colonnello Mariotti stanno trattando con alti ufficiali tedeschi per le formalità del rientro. E in questa evenienza e in quella – che continuo a ritenere più probabile – che si venga alle mani, non resta che dare esecuzione agli ordini.
“E’ tarda notte; tutto è pronto: decido di riposare per un paio di ore. Bisbigliare, bere, discutere come sta facendo la massa degli ufficiali nelle sale del Grand Hotel non serve d’altronde a molto. Mi butto sul letto e mi addormento di colpo, profondamente.
“Un rombo formidabile mi sveglia di lì a poco. Corro alla finestra: l’oscurità della notte è rotta dai bagliori dei fari di centinaia di automezzi. E tutto l’Autoreparto di Corpo d’Armata che da St.Valliers discende a Grasse.
“Che intenzioni ha il Comando? Ci si sta raggruppando per rientrare o per batterci? In tutti i casi questo movimento è un buon sintomo: il Comando prende delle iniziative.
“Attendiamo gli ordini; meglio. “l’ordine”. Poiché tutti indistintamente vegliano, il dito sul grilletto. Nessun ordine è venuto; e l’alba è ormai sorta. Nessun segno in giro di anormalità. Mi porto al Comando; non si vedono ufficiali. E circolano brutte notizie: saremmo isolati Quello che è certo è che i tedeschi assumono contegno sempre più ostile. L’incertezza e l’insufficienza assoluta del nostro Comando appaiono all’improvviso chiare: siamo nelle mani di gente quanto mai irresoluta. Soffocando di rabbia, mi arrendo anche io all’evidenza; e comincio a esaminare la possibilità dì fuggire. E chiaro che questi incapaci non daranno mai l’ordine di combattimento. Hanno fatto bene coloro che se la sono svignata, senza analizzare troppo.
“La situazione infatti precipita di colpo: soldati tedeschi prendono posizione davanti all’entrata con un pezzo d’artiglieria. Altri soldati tedeschi entrano – col consenso dei nostro Comando – a prendere possesso dei centralini telefonici.
“Che cosa sta succedendo?
“Interrogativi ansiosi: «Cosa fa il Comando?». «Dove sono gli ufficiali?».
“Sono spariti tutti, tranne qualche subalterno che si aggira smarrito. I minuti passano, lentissimi.
“Finalmente, una comunicazione ufficiale: «Il Comando del I Corpo d’Armata ordina la consegna delle armi. Perché è solo a questo prezzo», chiarisce il portavoce, «che il Comando stesso è riuscito ad ottenere il rientro degli uomini in Italia».
Un tedesco avanza verso il bersagliere di guardia al cancello, lo invita a sgombrare. H bersagliere rifiuta. L’altro insiste, conciliante: colle mani e coi gesti, gli fa capire che non c’è niente da fare.
“Il bersagliere rifiuta nuovamente. La situazione si fa tesa.
“Di persona, interviene un ufficiale italiano e dà l’ordine. L’onta si compie.
“Consegnano le armi quei soldati che fino a qualche ora prima si trovavano in una psicosi combattiva, come mai si era verificato nei tre anni della guerra fascista; soldati che sicuramente avrebbero vinto o si sarebbero fatti uccidere.
“Vedo ancora le armi che si ammucchiano; il rumore che tanno cadendo mi echeggia ancora nelle orecchie mescolato alla voce di quel vecchio colonnello del Genio che in tono assolutamente fuori posto di forzata bonarietà continua a dire e a ripetere che non si deve nutrire alcun timore, che da un momento all’altro si partirà per l’Italia.
“Nell’incapacità e nel tradimento crolla il vecchio esercito italiano”.
Nel suo “Quaderno nero” Giovanni Giovanni racconta anche il rifiuto delle richieste tedesche di passare sotto la loro bandiera. Ecco il racconto.
“Il primo ‘no’ è quello che pronunciammo alla caserma Kellerman di Grasse alle 10 del mattino dell’11 settembre, due giorni dopo l’armistizio. Quella mattina ai soldati italiani catturati furono offerte tre opportunità: a)continuare la guerra con l’Asse; b) servire la Germania come libero lavoratore (autisti); c) prigionieri di guerra. E la risposta secca fu: prigioniero di guerra.
“Il secondo “no”, ancora più difficile, il 23 settembre, al termine di un viaggio allucinante, quando ormai si erano chiusi alle nostre spalle i fili spinati dello Stalag XII A di Limburg. La nuova offerta prevedeva la scelta tra due sole condizioni: a) arruolato nelle SS germaniche; b) prigioniero di guerra. E la risposta fu: prigioniero di guerra.
“Poi la terza proposta, fatta da un sottotenente medico italiano: a) arruolarsi nell’esercito fascista; b) restare prigioniero di guerra. Su 600 soldati italiani, solo quattro scelgono la prima alternativa.
“Non è finita. Per il quarto ‘pressing’ su di noi i tedeschi utilizzano anche un generale di divisione e il fratello del ras di Cremona, Farinacci. «Tornate con noi in Italia, che la patria ha ancora bisogno di voi: otterrete settimane di licenza per riabbracciare le vostre fidanzate e le vostre famiglie. Vi daremo viveri, sigarette e divise nuove. Dovete solo sottoscrivere il modulo che vi sarà distribuito e che dovete consegnare entro questa sera al capo baracca». Nuovo rifiuto generale.
“Ai tedeschi non rimane altro da fare che prendere nuovamente atto della decisione italiana e considerarci una volta per sempre prigionieri.
“Immediatamente l’organizzazione tedesca entra in funzione e nel giro di pochi giorni siamo tutti visitati, divisi in due gruppi principali, a seconda se giudicati idonei a qualsiasi genere di fatica o no; l’uno e l’altro gruppo ancora suddivisi poi – a seconda della professione – in “operai” e “contadini”.
“Così i primi scaglioni, composti ciascuno da qualche centinaio di uomini, cominciano a partire. Quelli che restano li guardano allontanarsi, pensosi, verso località che dovrebbero essere ignote, ma i cui nomi trapelano sempre; nomi favolosi, letti cento volte sui libri di storia, ma che acquistano, nella realtà nuova, una risonanza completamente diversa e paurosa”.
Nel libro di Giovannini c’è un altro racconto che merita di essere letto e ricordato.
“La domenica in fabbrica non si lavorava e ci mandavano in paese a spalare intorno alle case e a fare altri lavori poco pesanti. Ogni tanto si rimediava qualche cosa dalla popolazione. Facevamo proprio pena. Laceri, magri, con impresso sul volto, dalla mattina alla sera, il marchio della fame.
“Quella domenica un quadretto familiare ci colpisce. Una coppia, una bella coppia affacciata da un balconcino fiorito. Un quadretto, magari un po’ oleografico, quasi fuori dal tempo: almeno fuori da quel fosco tempo di guerra. E una giornata di sole. Lei e lui, giovani e biondi, sono sereni e sorridenti e mormorano tra loro mentre ci guardano spalare poco più in là. Ad un tratto lei sembra guardarmi negli occhi. Sì, guarda proprio me. Mi fa cenno di avvicinarmi. Poi si allontana un momento e ritorna con un cestino di vimini e una cordicella.
“Il marito la guarda, inespressivo. Forse con un atteggiamento lievemente interrogativo. Ma sono attimi. Siamo tutti spasmodicamente concentrati su quel cestino.
“Lei rientra in casa. Pochi istanti dopo esce fuori con un grosso piatto. A me e ai miei tre amici “spalatori” sembra di vedere del pane scuro, del formaggio, forse anche dei salsicciotti.
“La ragazza avvolge il tutto dentro uno strofinaccio candido e sistema il pacchetto nel cestino. Lo cala giù dal balcone, con la cordicella, mentre ci fa cenno di avvicinarci.
“Ti cuore ci balza in petto, gonfio di gratitudine e di sorpresa, mentre ci affrettiamo sotto il balcone. La cordicella scivola lenta nella mani eburnee della ragazza, ed il cestino scende, scende. Ormai è a portata di mano. Io, che sono il più alto, allungo una mano….
“Ma il cestino risale. Guardo in su stupito. Lei sorride. Il cestino riscende. Riprovo a prenderlo, ma quelle mani dispettose lo riportano fuori portata. E così un’altra volta, e poi un’altra, e poi un’altra. Trasferiamo lo sguardo dalle mani eburnee al viso. Lei sorride sempre. Anzi, no. Ora ride. No, non è un riso. E un sogghigno.
“Quel cestino non finirà mai nelle mani dei prigionieri italiani affamati. Resta ancora – dopo sessanta anni – a ballonzolare nella mia mente. A ricordarmi, ad ogni sobbalzo, che la crudeltà umana – a volte – ha le trecce bionde”.
Catturato dai tedeschi per essere tradotto nei campi di concentramento, qualcuno riuscì a scappare. Ecco il racconto di Alessandro Norci, insegnante di storia e filosofia e giornalista che ha lavorato all’Ansa come capo del Servizio culturale.
“Mi trovavo in servizio, col grado di sottotenente di complemento al comando di un plotone di fanteria dislocato sulla cinta difensiva di Zara, che dipendeva dal comando della difesa di Zara. Prima conseguenza dell’annuncio dell’armistizio fu la rapida sparizione degli alti ufficiali del Comando, che si affrettarono a prendere d’assalto i pochi aerei ancora disponibili. Per qualche giorno i reparti, rimasti soli, tenevano inconcludenti assemblee per decidere che partito prendere.
“Venne finalmente diffuso un messaggio del generale di divisione: o rimanere sulla cinta difensiva combattendo per i tedeschi contro i guerriglieri iugoslavi o essere deportati in Germania in canapi di concentramento. Scegliemmo i campi di concentramento, perché nessuno voleva combattere per i tedeschi, tanto più che alcuni nostri reparti erano passati nelle file dei partigiani iugoslavi. Fummo perciò disarmati dai tedeschi e trattenuti in stato di arresto.
Il 28 settembre fummo imbarcati a Zara su uno dei piroscafi di linea che un tempo di pace facevano servizio tra Zara e Fiume ed erano stati requisiti dai tedeschi. Il giorno dopo arrivammo nel porto di Venezia, dove sbarcammo e venimmo accantonati nella motonave Vulcania, adibita durante la guerra a nave ospedale e allora in riparazione nel porto veneziano. Qui rimanemmo e capimmo che cosa ci aspettava: essere condotti alla stazione per essere poi tradotti in Germania.
“A bordo del Vulcania c’era una squadra di operai – falegnami e carpentieri – addetti ai lavori di restauro. Conversando con loro, insieme a un cappellano militare e a un sottotenente di Napoli con i quali avevo stretto amicizia, emerse che sarebbero stati disposti a venirci in aiuto. Attuammo così un piano rischioso. Col loro 9iuto nottetempo ci introducemmo nel settore più profondo della nave, adibito ai locali di servizio che restavano sempre chiusi. Ci furono inoltre fornite tute da lavoro, che indossammo per coprire le nostre uniformi militari. Al mattino, quando tutti i militari prigionieri furono fatti sbarcare ci mescolammo agli operai, facendo finta di lavorare. Suonata la sirena di mezzogiorno, scendemmo a terra insieme alla loro squadra, passando sotto gli occhi di una sentinella tedesca che sorvegliava l’uscita.
“Una gondola si avvicinò al Vulcania” e il gondoliere prelevò non so con quale trucco i nostri tre zaini che contenevano i nostri effetti personali e ci indicò il recapito presso il quale avremmo avremmo potuto ritirarli. Più tardi scoprimmo che quel recapito non esisteva, ma questo lato oscuro della vicenda fu poi largamente ricompensato dalla disinteressata solidarietà non solo degli operai che ci aiutarono a fuggire, ma anche da tanti che per le strade di Venezia ci offrirono spontaneamente aiuto e ospitalità. Avevano capito tutto e riconoscevano la nostra condizione di sbandati dalla punta degli stivali militari che uscivano fuori dalla tuta, come mi spiegò un ragazzino che voleva a tutti i costi regalarmi un vecchio paio di scarpe.
“Fummo ospitati in casa di un colonnello in pensione, antica conoscenza del cappellano, che in un giorno ci procurò documenti di identità falsi, indumenti borghesi (un sarto mi cucì in ventiquattro
ore un vestito che pagai con un assegno che difficilmente si sarebbe mai potuto riscuotere)
e informazioni preziose sui treni meno soggetti a controlli
polizieschi.
“II 6 ottobre partii in treno alla volta di Firenze insieme al tenente napoletano, che proseguì per Napoli, e il cappellano rimase a Venezia, ospite in un convento. Non ho saputo più niente dei miei compagni di evasione”.
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I lavoratori civili non militari
– Accanto agli Imi si trovavano in Germania anche lavoratori civili italiani non militari. Quasi centomila si erano volontariamente trasferiti prima del 1943, attirati da una paga migliore, che si aggirava sui 250-300 marchi al mese, pari a 1700-2000 lire, molto più che in Italia. Erano soprattutto contadini e muratori, provenienti dal Sud.
A cominciare dal 1944 la necessità di mano d’opera in Germania si aggravò notevolmente, nonostante la presenza e il lavoro coatto dei prigionieri stranieri, che in quell’anno erano arrivati a parecchi milioni. In Italia le autorità tedesche svolsero un’intensa propaganda per il reclutamento di operai, ma i volontari che risposero all’invito furono pochi. Su pressioni tedesche furono allora le autorità della Repubblica Sociale a precettare gli appartenenti alla classi 1920 e 1921 per il lavoro obbligatorio in Germania; soprattutto metalmeccanici per le aziende di costruzioni aeronautiche e di carri armati e agricoltori da impiegare nella campagne. Alessandro Pavolini, segretario del Partito fascista repubblicano mandò una comunicazione ufficiale ai Capi delle province perché mettessero a disposizione per l’impiego nell’agricoltura tedesca metà almeno, cioè 40 mila, dei chiamati alle armi della classe 1926.
Inviti e ordini non ebbero successo e aumentò invece il numero dei giovani che, per non rispondere agli appelli, andarono in montagna per unirsi ai reparti partigiani. I tedeschi ricorsero allora ad altri mezzi: anche al rastrellamento di civili durante le operazioni antipartigiani nelle campagne, a razzie compiute negli stadi di calcio e nei cinema e addirittura a sequestri di detenuti nelle carceri.
In Germania i lavoratori civili trasferiti dall’Italia nel 1944 e nel 1945 avevano un trattamento non molto diverso da quello degli Imi come alimentazione e assistenza igienica e sanitaria.
Col titolo “Operosità e gaiezza nelle officine e nei Lager” (Lager con l’iniziale maiuscola come anche i nomi comuni in tedesco) il quotidiano la “Stampa” di Torino del 26 aprile 1944 pubblicò un lunghissimo articolo, firmato Ezio Malingambi, in cui si cercava di promuovere il reclutamento di volontari civili per la Germania, presentando il lavoro nelle officine e nelle campagne tedesche come un lavoro confortevole sotto tutti i punti di vista, economico, alimentare, igienico e sanitario. L’articolo era cosi incredibile (i lager, fra l’altro, erano detti costruzioni fornite di termosifone e lavabi con acqua calda e fredda) che era preceduto da un altro lunghissimo articolo, soltanto siglato (C.P.), in cui si parlava dell’opportunità politica di una collaborazione fra l’Italia e la Germania. Ecco un brano dell’articolo.
“Qual è la vita del lavoratore italiano in Germania? Giunto a destinazione, dopo bagno, visita medica, fotografia, rilascio di passaporto, gli viene concesso un riposo di 24 o 48 ore per sistemarsi in baracca. Veramente il lager tedesco è tradotto con molta approssimazione con la parola italiana ‘baracca’; in esso non vi è nulla di improvvisato e traballante, ma è un modernissimo e pratico impianto in cemento armato e legname, a un piano o due, con tutti conforti: riscaldamento a termosifone, lavabi con acqua calda e fredda, gabinetti, bagni, refettori, stanze di soggiorno con l’immancabile radio, luce elettrica a profusione eccetera”.
L’articolo, supponendo che i lettori ignorassero la situazione degli Imi, non faceva distinzione fra volontari civili e militari internati: “Quanti sono i lavoratori italiani in Germania? A quelli che vivono in comunità nelle baracche bisogna aggiungere tutti i piccoli gruppi e gli isolati che dimorano nelle pensioni (sic) o privatamente. Non è esagerato dire che i volontari italiani del lavoro arrivano già in Germania al mezzo milione. Ma altri ne occorrono ed altri ne sono attesi, per la vittoria comune”.