13 maggio
“Alle 10, cioè fra un’ora circa, dobbiamo arrenderci”. Sotto una tenda malandata a Enfidaville, vicino al mare, sulla strada per Hammamet, il sottotenente Gaetano Tumiati racconta le sue ultime ore di ufficiale dell’esercito italiano in Tunisia1. È la resa delle forze italotedesche, è la fine della guerra in Africa settentrionale, è la fine della presenza dell’Italia in quello che – Libia, Africa orientale – Mussolini chiamava il nostro spazio vitale. “Ieri sera all’imbrunire” continua Tumiati “il capitano Saretti ci ha convocati nella grotta del Comando di compagnia, dove, alla luce di un Petromax, ci ha letto l’ordine del generale Messe con le parole del Duce. A Roma hanno capito che, dopo la caduta di Tunisi, per noi, circondati da ogni parte, non c’è più niente da fare e hanno deciso il ‘cessate il fuoco’”.
La resa è stata firmata ieri. Sono passati due anni e otto mesi da quando, nel settembre del 1940, le truppe italiane – 200 mila uomini al comando del generale Graziani – sono entrate per alcune decine di chilometri in Egitto, difeso da 30 mila soldati inglesi. Obiettivo: impossessarsi del delta del Nilo e del canale di Suez.
È stata una guerra con alterne vicende. In dicembre il generale inglese Wavell ha respinto gli italiani, ha oltrepassato il confine e ha occupato una parte della Cirenaica. Mussolini ha chiesto aiuto a Hitler, che in marzo ha subito inviato il corpo aereo che aveva base in Sicilia e poi un reggimento corazzato; diventeranno l'”Africa Korps”, comandato dal generale Erwin Rommel. In aprile italiani e tedeschi hanno ripreso la Cirenaica, ma gli inglesi hanno mantenuto il porto e la base di Tobruq e le hanno difese da un assedio che è continuato fino al giugno del 1942. Conquistata Tobruq, il generale Rommel è entrato in Egitto e si è spinto fino a el-Alamein, 120 chilometri da Alessandria. È la prima battaglia di el-Alamein, luglio-agosto; ma è qui che Rommel è stato fermato.
La seconda battaglia di el-Alamein si è svolta dal 23 ottobre al 4 novembre. El-Alamein vuol dire, in arabo, “collina delle vette gemelle”. È da tempo un campo trincerato, dove il deserto egiziano si restringe formando un passaggio di soli sessanta chilometri; da una parte il mare, dall’altra la depressione di el-Qattara, tutta paludi e sabbie mobili.
Di fronte al generale Rommel, che si è già meritato il nome di “volpe del deserto”, c’è ora il generale inglese Bernard Montgomery. Ha sotto di sé 86 battaglioni di fanteria con 150 mila uomini, alcune migliaia di automezzi, 3247 cannoni, 1350 carri armati, 1200 aerei. Alle 21.30 del 23 ottobre, in una notte di luna piena, mille cannoni hanno aperto il fuoco simultaneamente lungo il fronte e alle 22 è cominciata l’avanzata delle fanterie.
La resistenza italiana e tedesca è stata accanita, ma la sproporzione delle forze era troppo forte. I combattimenti sono durati dodici giorni e alle 8 di sera del 4 novembre Rommel ha deciso l’unica soluzione possibile: la ritirata. Sono morti 13.500 inglesi, 17 mila italiani, novemila tedeschi. È stata una delle battaglie decisive della seconda guerra mondiale2.
Nonostante la sconfitta, il comando italotedesco (le truppe italiane sono comandate dal generale Messe) è riuscito ad evitare l’accerchiamento e i settantamila superstiti hanno cominciato a ripiegare lungo la fascia desertica che costeggia la litoranea fatta costruire da Italo Balbo3: tremilaquattrocento chilometri. Gli inglesi hanno raggiunto Tobruq l’11 novembre, Bengasi il 20; dopo, la Cirenaica, la Tripolitania: a Sirte il 25 dicembre, a Tripoli il 23 gennaio; poi ai confini della Tunisia il 4 febbraio. Ma già da tre mesi, l’8 novembre, le forze angloamericane sono sbarcate in Marocco e in Algeria4. La Tunisia, dove nuove truppe tedesche e italiane sono arrivate in dicembre per unirsi a quelle in ritirata dalla Libia, si è così trovata presa fra due fuochi.
Sei mesi di guerra lungo la costa mediterranea dell’Africa, dall’Egitto a Tunisi.
La battaglia di Tunisia è durata due mesi. Il 7 aprile Tunisi è caduta. Dal 9 all’11 il generale Messe ha continuato la lotta nell’ultima esigua testa di ponte di Capo Bon, fra Tunisi e Biserta: poi, l’11, è lo stesso Mussolini che lo ha invitato ad arrendersi: “Poiché gli scopi della resistenza possono considerarsi raggiunti” dice il telegramma “lascio a Vostra Eccellenza libera onorevole resa. A voi e agli eroici superstiti della Prima Armata rinnovo il mio ammirato vivissimo elogio”.
Alle 12.30 di ieri la resa è stata firmata, le ostilità sono cessate. Stamani i giornali italiani hanno pubblicato il bollettino di guerra numero 1083: “La 1a armata italiana, cui è toccato l’onore dell’ultima resistenza dell’Asse in terra d’Africa, ha cessato per ordine del Duce il combattimento”. Il bollettino non dice il numero dei prigionieri (fra italiani e tedeschi più di 275 mila), non parla dello sciame di barche piene di soldati italiani di tutte le armi che hanno cercato di raggiungere le coste della Sicilia; e non tutte ci sono riuscite.
Termina così l’avventura africana dell’Italia, cominciata nel 1982, quando il governo italiano comprò da una società marittima la remota baia di Assab in Eritrea, continuata con l’occupazione della Libia dopo la guerra italo-turca del 1911-1912, esaltata con la conquista dell’Etiopia nel 1935-1936 e la conseguente proclamazione dell’impero.
Tutto è finito. È finito anche per il sottotenente Gaetano Tumiati sotto la sua tenda malandata di Enfidaville: “Alle 10, cioè fra un’ora circa, dobbiamo arrenderci”. E poi: “Do uno sguardo al cronometro d’acciaio, regalo dei miei per la maturità: funziona ancora nonostante tanti mesi di guerra nel deserto. Le nove e un quarto. Mancano tre quarti d’ora. Con la mente ripasso in fretta tutte le raccomandazioni che il capitano ci ha fatto ieri sera nella grotta. Di munizioni non ne ho più, le abbiamo sparate tutte. Una sarabanda infernale che è durata tutta la notte, incendiando il fronte per chilometri e chilometri. Per mesi ci siamo sentiti ripetere “risparmiate munizioni, risparmiate munizioni”, neanche fossero d’oro: stanotte finalmente ci siamo potuti sfogare. I cannoni del colonnello Bergamasco, le Katiusce dell’Afrika Korps, le batterie degli 88 hanno sparato tutti insieme per ore e ore. Le mitragliere da 20 del mio plotone, poverine, avevano le canne arroventate. Neanche gli inglesi prima dell’assalto alla linea del Mareth, nel marzo scorso, avevano sparato tanto. E poiché sapevamo che, dopo, tutto sarebbe finito, quest’ultima sparatoria, folle, dissennata, aveva un che di festoso; il cielo solcato dalle traccianti faceva pensare a Piedigrotta. All’alba, ritornato il silenzio, ho ordinato di sotterrare tutti gli otturatori sotto un cespuglio. Alle sette ho fatto cospargere di benzina l’unico autocarro del nostro plotone e ho ordinato al sergente Altemani di dargli fuoco. I soldati, nelle loro postazioni, invece di guardare verso le linee nemiche, si erano voltati tutti a osservare il sergente che con un accendino dava fuoco a uno straccio. Con quello straccio nella mano tesa ha esitato un attimo a rischio di bruciarsi. Poi lo ha gettato sull’autocarro che in una frazione di secondo è stato avvolto da una gran vampata. Di autocarri in fiamme, in due anni di guerra, ne avevo visti a centinaia, ma questa volta era diverso. Il vecchio Spa 38 ci aveva portati per migliaia di chilometri dall’Egitto fin qui e la sua fine ci toccava dentro come l’incendio della casa in cui si è abitato a lungo o l’uccisione di un cavallo cui si è affezionati.
“Sono passate quasi due ore, lo scheletro annerito sta fumando ancora, il vento leggero che spira dalle colline alle nostre spalle non riesce a disperdere del tutto l’odore nauseabondo dei pneumatici bruciati. Ho raccomandato ai soldati di raccogliere nei tascapane soltanto lo stretto necessario e di non consumare l’ultima razione di gallette e di carne in scatola che potrebbe tornarci utile domani o dopodomani: nessuno sa quando ci daranno qualcosa da mangiare. Ormai hanno finito di selezionare i loro poveri panni pieni di pidocchi e se ne stanno accucciati nelle postazioni, dietro le mitragliere inservibili, cercando di riscaldarsi al sole. Il bersagliere Libbra Emanuele – ho anche tre bersaglieri nel mio plotone – si è addormentato col fez rosso tutto di traverso. All’intorno regna una gran calma: l’altura di Takrouna, teatro di sanguinose battaglie, si staglia azzurra contro il cielo primaverile, e anche le altre colline, piene di olivi, fanno pensare a un paesaggio umbro. Dalle linee nemiche nessun segno di vita. Solo in grande lontananza, a sud, sul nastro asfaltato che porta a Enfidaville, si accende di tanto in tanto il riflesso di un vetro. Dev’essere una colonna di autocarri inglesi che, ormai incontrastata, trasporta le fanterie che dovranno farci prigionieri e occupare quest’ultima ‘isola’ in procinto di arrendersi.
“Le dieci meno un quarto. Il sole si è fatto più caldo, il bersagliere Libbra si è svegliato, tutti i soldati, affacciati ai sacchetti di terra che proteggono le postazioni, guardano verso i cespugli argentei del fondovalle con rassegnata curiosità.
“‘Signor tenente, mettiamo la bandiera bianca?’. La voce del sergente Altemani, dietro di me, è quella di sempre. Anche il suo viso lindo, sbarbato, da bravo operaio specializzato lombardo, non ha mutato espressione. Tra le braccia regge un grosso fagotto di teli bianchi luccicanti e, ritto in piedi, attende disposizioni, pronto ad eseguirle con la stessa rapidità ed efficienza di quando gli ordinavo di far scavare una trincea o di esplorare un’oasi con le sue autoblinde (avevamo le autoblinde, prima della ritirata di el-Alamein). Quei teli bianchi, che regge tra le braccia, sono strisce di seta ricavate dal paracadute di un pilota inglese fatto prigioniero a Buerat cinque mesi fa, la vigilia di Natale. Avevo sempre pensato di portarmene a casa almeno una parte per farmene delle camicie, visto che in Italia, a quanto intuisco dalle lettere che mi arrivano da Ferrara, di seta non dev’essercene più molta e probabilmente neppure cotone. Invece, ecco a che cosa serviranno.
“‘Mancano ancora nove minuti, Altemani. Aspettiamo le dieci in punto’. ‘Signorsì. Agli ordini’. Altri ci precedono. A un certo punto, su una collina alla nostra destra, circa un chilometro di distanza, affiora una chiazza bianca. E poi un’altra, un’altra, un’altra ancora. Nel giro di pochi minuti tutto il fronte italo-tedesco, fino a quel momento invisibile, si costella di chiazze candide. Cristo, di lenzuola non ne abbiamo, tovaglie neppure, le nostre camicie sono kaki o grigioverdi: da dove diavolo son saltati fuori tutti quei teli bianchi? Ormai, a completare la catena, mancano soltanto la nostra collinetta e poche altre, sulla sinistra, dove sono piazzate le artiglierie leggere dell’Afrika Korps. Alle dieci e cinque (non si sa mai, il mio orologio potrebbe andare avanti di qualche minuto) dico ad Altemani di esporre due lembi del paracadute, due soli, senza tanti sbandieramenti: uno sul punto più alto della collina, l’altro a mezzacosta, fra i rami di un piccolo olivo”.
Il sottotenente Tumiati sarà uno dei 120 mila prigionieri italiani della guerra d’Africa; lo porteranno negli Stati Uniti, nel Texas; tornerà in Italia nel gennaio del 1946. Altri prigionieri saranno trasferiti in India, altri in Australia. Parecchi resteranno in Algeria, in mano francese; e la loro sorte sarà la peggiore.
1 Gaetano Tumiati è stato inviato speciale dell’Avanti! e della Stampa, direttore dell‘Illustrazione italiana, vicedirettore di Panorama, direttore dell’area periodici della casa editrice Rizzoli, premio Campiello con il romanzo Il busto di gesso. Questa testimonianza è in Prigionieri nel Texas, Mursia, 1985.
2 A el-Alamein c’è dal 1955 un sacrario dedicato ai militari caduti nelle due battaglie del 1942.
3 Italo Balbo, uno dei “quadrumviri” della Marcia su Roma del 1922, comandante della Milizia fascista, ministro dell’aeronautica 1929-1933, è stato governatore della Libia dal 1934. Il 28 giugno del 1940 è morto nel cielo di Tobruq, quando il suo aereo è stato accidentalmente abbattuto dalla contraerea italiana.
4 Lo sbarco angloamericano in Marocco e in Algeria ha portato alla resa delle truppe francesi del governo di Vichy e, per ritorsione, all’occupazione tedesca di tutto il territorio francese. La flotta francese, ancorata a Tolone, si è autoaffondata per non cadere nelle mani dei tedeschi.