25 luglio

Il Gran Consiglio del fascismo è terminato nella notte con un voto contro di lui, ma Mussolini non sembra aver capito. Chiede di essere ricevuto dal re, solo per informarlo. Ma il re, a villa Savoia, lo fa arrestare.

– Aggiornamento del 27.06.12 –

La sala del Gran Consiglio del fascismo a palazzo Venezia nella notte fra il 24 e il 25 luglio. Alle riunioni non erano ammessi fotografi o cineoperatori e il disegno è stato fatto sulla base dei documenti e delle testimonianze dei membri partecipanti

La sala del Gran Consiglio del fascismo a palazzo Venezia nella notte fra il 24 e il 25 luglio. Alle riunioni non erano ammessi fotografi o cineoperatori e il disegno è stato fatto sulla base dei documenti e delle testimonianze dei membri partecipanti.

È domenica e a Roma è una assolata giornata d’estate, fresca di primo mattino, poi calda e afosa. La città è tranquilla e poca la gente nelle strade. Nessuno sa che nella notte si è riunito a Palazzo Venezia il Gran Consiglio del fascismo e nessuno sa che, dopo più di vent’anni, il fascismo sta per morire. Della riunione è invece a conoscenza Roberto Suster, ma non di come è andata a finire. Roberto Suster è il direttore della Stefani, l’agenzia di stampa ufficiale del fascismo: “Il più delicato strumento giornalistico del regime”, così è stata definita.

Nonostante la domenica e il programma di portare la famiglia in campagna, Suster decide di andare in ufficio. Esce di buon’ora dalla sua casa di via dei Monti Parioli e si reca nella sede dell’agenzia, in via di Propaganda. Nel suo ufficio di direttore – una stanza d’angolo al secondo piano, dalla cui finestra si vede piazza dì Spagna – dà un’occhiata ai giornali; un’occhiata senza interesse, perché sa che le notizie politiche importanti i quotidiani non le pubblicano se non gliele ha date la Stefani, e la Stefani non ha dato niente, neppure la notizia della convocazione del Gran Consiglio.

In prima pagina il Messaggero pubblica un articolo del suo direttore Alessandro Pavolini (“Nessuna illusione” è il titolo; nel testo c’è però un frase strana: “una invincibile nostra forza della disperazione”); poi si parla di un’aspra lotta su tutto il fronte in Sicilia, mentre il bollettino n. 1155 del Quartier generale delle Forze armate dà notizia della caduta di Palermo in mani angloamericane. Ma questo Suster lo sapeva già, perché i bollettini di guerra è la Stefani che li trasmette ai giornali.

Passano così le ore e non succede niente. Verso l’una Suster decide allora di andare a palazzo Venezia, dove uno come lui può entrare quando vuole; un quarto d’ora di strada, a piedi.

A palazzo Venezia – racconta nel suo Diario1 – “ho trovato Buffarini Guidi, Polverelli, Bastianini, Galbiati2. Si guardavano un po’ in cagnesco, ma erano tutti sereni. Bastianini è stato lungamente dentro dal Duce, che ho intravisto attraverso la porta aperta, sempre massiccio ma invecchiato e molto im­bronciato. Quando Bastianini esce, parliamo un po’ assieme, ed egli mi dice come stanotte il Gran Consiglio, con 19 voti contro 7, abbia invitato il Duce e non persistere in metodi di governo e su strade che hanno ormai dimostrato di essere fatali alla Nazione. Egli ritiene pertanto che il Duce non possa più rifiutarsi né esitare a dare una nuova efficienza alla Nazione, affidando i vari dicasteri, che lui, senza efficienza né competenza, de­tiene, ad uomini capaci e responsabili, che sappiano rimettere in moto l’organismo dello Stato, inceppato gravemente dal suo strapotere accentratore e incompetente. Bastianini crede che la crisi possa durare al massimo 48 ore e che il Duce non potrà avere nella sua soluzione che una parte di forma e di prestigio, dati i gravissimi dissidi e le sanguinose accuse che sono state scambiate la notte scorsa durante il Gran Consiglio”.

“Parlo anche con Polverelli, che ostenta la più grande calma e serenità. A proposito della seduta del Gran Consiglio egli mi dice che si è perso molto tempo per discutere problemi di dettaglio come il funzionamento delle corporazioni, ma che anche i voti espressi non hanno che un valore interno di partito. Su mia richiesta mi autorizza a partire oggi stesso per Norcia, dove da qualche giorno ho deci­so di accompagnare la famiglia. Galbiati, il capo della Milizia, è invece scuro in volto e passeggia nervoso. Buffarini-Guidi, l’ex sottosegretario agli interni, è allegro e saltellante. Entra a passo di corsa con il panzone traballante nel salone del Duce, attraver­sandolo ansante con il braccio levato. Operetta”.

Sono le due quando Suster lascia palazzo Venezia; rientra in agenzia e al telefono chiama subito Manlio Morgagni per raccontargli tutto quello che ha visto e sentito. Manlio Morgagni è il presidente e direttore generale della Stefani ed un collaboratore fedele e devoto di Mussolini fino dal 1922. È con i soldi di Mussolini che nel 1924 ha comprato l’agenzia Stefani, un’impresa privata, nata nel 1853 a Torino per iniziativa di Camillo Benso di Cavour.

“Morgagni” scrive Suster nel suo Diario “è molto allarmato e abbattuto, soprattutto perché non riesce a prendere contatto con nessuno. Né il sottosegretario agli interni, Albini, né il segretario particolare del Duce, De Cesare, né il capo della polizia Chierici hanno risposto alle sue ripetute ed ansiose tele­fonate. E lui, come amico personale del Duce, ha il senso di essere abbandonato da tutti. Parliamo a lungo della situazione e io non gli nascondo la mia impressione che la situazione del Duce e del regime sia ormai insoste­nibile. Basandomi però sulla stessa opinione e sull’atteggiamento degli oppositori, mi sembra che fatti decisivi non debbano verificarsi prima di due o tre giorni. Certo che si ha nell’aria la sensazione che tutto crolli”.

Il direttore della Stefani torna a casa e dice alla moglie di disfare le valige. Nonostante le assicurazioni di Polverelli, che è il suo ministro, la partenza per la villeggiatura è rimandata. Roberto Suster ha capito che è successo qualcosa di importante.

È Benito Mussolini, invece, che sembra non averlo ancora capito. Nel suo Rapporto sul 25 luglio3, che scriverà l’anno dopo a Salò, dice: “Alle sette mi alzai. Alle otto ero a palazzo Venezia. Regolarmente, come da circa ventuno anni, cominciò la mia giornata lavorativa: l’ultima! Fra la posta non vi era niente di grande importanza, a parte una domanda di grazia per due partigiani dalmati condannati a morte. Telegrafai in senso favorevole al governato­re Giunta. Oggi sono lieto che il mio ultimo atto di governo abbia salvato due vi­te, due giovani”.

Mussolini cerca poi Dino Grandi. Perché? Renzo De Felice scrive che probabilmente voleva ottenere da lui l’assenso per fare il suo nome al re come quello dell’esponente politico più indicato per assumere la direzione del ministero degli esteri e prendere in mano la complessa situazione dell’uscita dell’Italia dalla guerra. Dino Grandi, però, non si trova.

“Era partito in auto” scrive ancora Mussolini nel suo Rapporto “e non aveva lasciato detto nulla. Nel frattempo feci chiedere al generale Puntoni se Sua Maestà avrebbe potu­to ricevermi alle diciassette a villa Savoia o altrove. Mi fu risposto affermativamente. Alle dodici, in presenza di Bastianini, ricevetti l’ambasciatore giapponese, che voleva sapere, a nome del suo Governo, la mia opinione sulla situazione. Gli risposi che tutta la situazione dipendeva dallo sviluppo della battaglia sul fronte orientale e che si dovevano compiere tutti gli sforzi per tentare di far uscire la Russia dal conflitto, anche a costo di rinunziare alle conquiste territoriali già com­piute. Poco dopo ricevetti Galbiati, che mi comunicò fra l’altro che la partenza della divisione M non aveva potuto aver luogo in seguito al bombardamento dei nodi ferroviari di Roma. Mi propose di visitare il quartiere bombardato. Osservai che si sarebbe potuto rimandare la visita, ma mi rispose che si trattava di vedere lo stato dei lavori in corso. Ci recammo quindi a San Lorenzo. In realtà i lavori non procedevano quasi per nulla. Il rione era stato colpito con violenza. Fui attorniato da gente del popolo, che mi raccontava episodi e si lamentava. Feci distribuire dei soccorsi. Davanti alla chiesa di San Lorenzo gruppi di aspiranti di Marina mi im­provvisarono una dimostrazione. Erano le quindici. Un’afa pesante opprimeva gli spiriti degli uomini e pesava sulla città da un cielo immobile. Tornai a villa Torlonia. Consumai l’abituale colazione e passai un’ora a parlare con Rachele nel cosiddetto salotto da musica. Mia moglie era più che mai impressionata e la sua an­sia per qualcosa che avrebbe dovuto succedere era molto aumentata”.

Che cosa poteva succedere? Da Palazzo Venezia, finito il Gran Consiglio, Dino Grandi è uscito verso le tre per andare a Montecitorio. “Un grande senso di tristezza mi invase” racconta4; “guardai attorno per l’ultima volta quella sala, le pareti e il balcone che Mussolini aveva sempre chiamato orgogliosamente il ponte di comando della nazione. Reparti di Milizia assonnati erano tuttora di guardia lungo le scale e nel cortile. Molti dormivano appoggiati l’un l’altro e sui loro moschetti. Le prime luci del giorno cominciavano a schiarire la massa scura del palazzo quattrocentesco. Roma, ignara, dormiva. Tutta l’Italia dormiva”.

A Montecitorio, nel suo ufficio di presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, Grandi trova un messaggio del duca Acquarone, ministro della Real Casa: lo vuol vedere subito. L’incontro avviene pochi minuti dopo, alle quattro, nella vicina casa di un amico di Grandi, Mario Zamboni, membro anche lui della Camera. Grandi racconta il dibattito al Gran Consiglio, il voto conclusivo e il suo significato: “Il Gran Consiglio è, con una legge sanzionata dal re, l’organo supremo del regime; esso ha dichiarato la dittatura caduta, ha privato il dittatore dei suoi poteri, ha deliberato il ripristino della Costituzione e fa appello al sovrano perché si avvalga di tutte le prerogative che lo statuto attribuisce al Capo dello stato”. Ora, conclude, non vi è tempo da perdere. È necessario licenziare Mussolini, chiedere l’armistizio alle nazioni alleate, preparare le forze armate alla immancabile reazione tedesca. “È inevitabile” aggiunge “uno stato di guerra fra Italia e Germania, e l’Italia si troverà dalla parte degli Alleati e in causa comune con essi; l’Italia non può uscire dalla guerra. La neutralità è un’illusione”.

Sono le cinque del mattino. Dino Grandi rientra a Montecitorio e il duca Acquarone si reca al Quirinale e di qui a villa Savoia. A villa Savoia Pietro Acquarone parla col re e poi, alle sette, telefona al generale Ambrosio al Quartier generale del Comando supremo. Poche parole: “Il momento è arrivato”. L’azione di Grandi e le decisioni del Gran Consiglio” scriverà poi Ambrosio5 “completavano il piano preparato da tempo dal re e dai militari; il verdetto del Gran Consiglio offriva inoltre al re l’arma costituzionale per la destituzione di Mussolini”. Che “il momento è arrivato” il generale Ambrosio lo annunzia alle nove anche al maresciallo Badoglio; poi al suo braccio destro, Giuseppe Castellano, il generale che il 2 settembre firmerà a Cassibile il testo dell’armistizio6.

Alle 10.30 il re riceve il generale Puntoni, capo della sua Casa militare, che gli riferisce la richiesta di Mussolini di essere ricevuto nel pomeriggio. La richiesta – dirà poi il generale Puntoni7 – sconvolge “il programma del re”, che aveva deciso di agire l’indomani. Un’ora passa fra contatti e telefonate: Acquarone, Ambrosio, Badoglio, Puntieri e Angelo Cerica, comandante generale dei carabinieri; poi, poco prima di mezzogiorno – scriverà il generale Castellano8 – Acquarone lo chiama e gli dice che il re riceverà Mussolini alle 17 a villa Savoia.

Castellano racconta: “Acquarone mi chiede: ‘Che cosa facciamo?’. Rispondo: ‘Sua Maestà che cosa ordina?’. ‘Nulla’. ‘Allora decidiamo noi’ concludo io, e vado a casa di Ambrosio. Questi è del parere che se Mussolini accetta il suo destino senza ribellarsi conviene lasciarlo andare, altrimenti lo si arresta seduta stante. ‘Ma ciò non è possibile’ obietto ‘perché il re non vuole nessuno vicino e noi non possiamo sapere come si svolgerà il colloquio. Se lo facciamo uscire non lo prendiamo più’. Ambrosio mi guarda un istante e poi decide: ‘Arrestiamolo’. Corro con quest’ordine da Cerica e gli dico a nome di Ambrosio di prepara­re tutto: cinquanta carabinieri a Villa Savoia e un’autoambulanza militare. All’uscita dall’udienza: arresto. L’autoambulanza deve sortire da una porta secondaria. Cerica mi chiede l’ordine scritto. ‘Te lo farò avere più tardi’ gli ri­spondo; ‘tu intanto dai le tue disposizioni'”.

Alle tre del pomeriggio il re chiama il generale Puntoni9: “Mussolini deve essere arrestato fuori di casa mia”. Ma ormai le decisioni sono state prese. “Alle 16.30” continua il generale “mentre passeggio col sovrano nel piazzale davanti alla villa, si avvicina il duca Acquarone, il quale riferisce a Sua Maestà che il generale Cerica ha fatto presente l’impossibilità di compiere il fermo di Mussolini fuori di villa Savoia. Il sovrano ha un moto di stizza. Alla fine, costretto dall’imminenza dell’arrivo del Duce, deve piegarsi all’insistenza del ministro della Real Casa”.

Sono quasi le cinque. Alle cinque in punto l’auto dì Mussolini, che è accompagnato dal suo segretario De Cesare, entra dal cancello spalancato di via Salaria. Tre auto con i poliziotti di scorta rimangono fuori. Il re, vestito da maresciallo, è sulla porta della villa. Mussolini è invece in borghese. Nell’interno del vestibolo stazionano due ufficiali.

Entrati nel salotto, “Il re” racconterà Mussolini10 “passeggiava su e giù nervosamente, con le mani dietro la schiena e capii subito che era in preda ad estrema agi­tazione. Dalla borsa di pelle che avevo portato con me tolsi i documenti che riguardavano la seduta del Gran Consiglio e feci l’atto di porgergli quello che conteneva l’o.d.g. di Grandi; interruppe a metà il mio gesto: ‘Non occorre; il voto del Gran Consiglio è tremendo. Voi non potete certo illudervi sullo stato d’animo degli italiani contro di voi. In questo momento siete l’uomo più odiato d’Italia: potete contare su un solo amico che avete e che vi rimarrà sempre: io’. Durante questo colloquio, che non era durato più di 10 minuti, eravamo rima­sti in piedi. Al termine di questa professione di amicizia, il Re mi accompagnò alla porta e nel salutarmi mi prese con entrambe le mani la destra e me la strinse a lun­go, così”.

Mussolini se ne va. Scende la scalinata e si avvia verso la sua auto. Il suo fido autista, il maresciallo Ercole Boratto, non c’è; è stato allontanato e sequestrato in una sala della villa; gli hanno tolto la pistola. Accanto all’auto c’è invece un capitano dei carabinieri, Paolo Vigneri, che, sull’attenti, gli dice, solenne11: “Duce, in nome di Sua Maestà il re vi preghiamo di seguirci per sottrarvi ad eventuali violenze da parte della folla”. Mussolini “allarga le mani nervosamente serrate su una piccola agenda e con tono stanco, quasi implorante, risponde: ‘Ma non c’è bisogno!’. Il suo aspetto è quello d’un uomo moralmente finito, quasi distrutto: ha il colorito del malato e sembra persino più piccolo di statura. ‘Duce – dice il capitano Vigneri – io ho un ordine da eseguire’. ‘Allora, seguitemi’ risponde Mussolini e fa per dirigersi verso la sua macchina. Ma l’ufficiale gli si para dinnanzi: ‘No, Duce, bisogna venire con la mia macchina’. L’ex capo del governo non ribatte altro e si avvia verso l’autoambulanza, col capitano Vigneti alla sua sinistra; segue De Cesare, con a fianco il capitano Aversa. Dinnanzi all’autoambulanza Mussolini ha un attimo di esitazione, ma Vigneri lo prende per il gomito sinistro e lo aiuta a salire. Siede sul sedile di destra.

Sono esattamente le ore 17,30. Dopo, sale De Cesare e si mette a sedere di fronte al suo capo. Quando anche i sottufficiali e gli agenti si accingono a montare, il Duce protesta: ‘Anche gli agenti? No!’. Vigneri allarga le braccia come per fargli capire che non c’è nulla da fare e, rivolgendosi deciso ai suoi uomini, ordina: ‘Su ragazzi, presto!’. Anche i due capitani salgono. Nell’autoambulanza ora si è in dieci e si sta stretti. Il questore Morazzini si avvicina e, prima di chiudere la porta dall’esterno, avverte che si uscirà da un ingresso secondario e che un famiglio accompagnerà l’automezzo sino all’uscita. La macchina si muove, mentre l’autocarro con il plotone dei cinquanta carabinieri rimane fermo. Ormai non c’è più bisogno di loro”. Uscita dalla villa, l’autoambulanza parte a tutta velocità.

“Mussolini” continua la relazione dei carabinieri “aveva l’aspetto abbattuto; era silenzioso, non alzava gli occhi da terra”. Alle sei e mezzo l’autoambulanza si ferma nel cortile della caserma Podgora in Trastevere. Nella sala del circolo ufficiali Mussolini rimane più o meno un’ora; poi qualcuno dice al capitano Vigneri di riprendere l’autoambulanza e di trasferirsi alla caserma degli allievi ufficiali dei carabinieri in via Legnano. Sono le sette di sera. L’operazione è terminata.

Mezz’ora prima Vittorio Emanuele Orlando, ottantatre anni, vecchio uomo politico, prima ministro, poi presidente del consiglio dal 1917 al 1919, ha finito di scrivere il testo di due dei tre messaggi che la radio dovrà trasmettere appena possibile. Il terzo è il proclama di Badoglio.

 

Il testo del decreto del re che revoca Mussolini dalla carica di Capo del governo. Da notare la grossa bugia 'a sua domanda'. Il documento, praticamente inedito, è conservato alla Corte dei conti, 1943, Reg. Finanze n. 14, foglio 135.

Il testo del decreto del re che revoca Mussolini dalla carica di Capo del governo. Da notare la grossa bugia “a sua domanda”. Il documento, praticamente inedito, è conservato alla Corte dei conti, 1943, Reg. Finanze n. 14, foglio 135.

Letti e riletti, i tre testi finiscono al Quirinale e qui ancora vengono letti e riletti. Il problema è trasmetterli. La radio di stato, l’Eiar, e i giornali non pubblicano informazioni ufficiali se non le trasmette la Stefani, e la Stefani è l’agenzia ufficiale del fascismo.

Che cosa accade ce lo racconta Roberto Suster12: “Alle 21.40 – scrive il direttore della Stefani – ero appena tornato a casa per cena che mi telefonano dalla Stefani per avvertirmi che il Capo dell’Ufficio stampa di Casa Reale voleva consegnare a me, personalmente, tre comunicati riservati ed urgenti. Invito Galimberti a farseli consegnare, ma il professore Casorati, mi dice lui stesso al telefono, mi prega di rientrare immediatamente alla Stefani per comunicazioni importanti”.

“Senza perdere un minuto, ridiscendo, prendo la macchina e a tutta velocità torno in redazione. In via Flaminia e in Piazza del Popolo incontro un insolito movimento di truppa; motociclisti e autoblinde. Il prof. Casorati mi accoglie molto serio in viso e mi prega di concedergli un colloquio da solo. Entrando nella mia stanza mi porge tre fogli dattiloscritti dicendomi: ‘D’ordine di S.M. il Re vi prego di provvedere alla loro immediata diramazione in Italia e all’estero, dandomene assicurazione’. Leggo i comunicati.

Si tratta delle dimissioni del Duce, dell’incarico affidato al maresciallo Badoglio di sostituirlo e dei proclami rivolti alla Nazione. Ci guardiamo senza parlare, e poi dico: ‘Lei sa, caro professore, che io sono dinanzi a tutto e soprattutto un buon italiano. La mia stessa qualità di trentino e di ex irredento ne costituiscono la migliore garanzia. Questi comunicati segnano però una tappa nella storia dell’Italia. Mi permetta di verificarli. Lei comprenderà la mia responsabilità’. Il prof. Casorati aderisce al mio scrupolo e io chiamo il comm. Costetti13 a Casa Reale, chiedendo conferma dell’autenticità dei fogli dattiloscritti che non erano né firmati né bollati. Il comm. Costetti mi garantisce l’autenticità dei documenti e mi chiede la parola d’onore che li avrei diramati. Non ho difficoltà a dargliela e provvedo immediatamente a passare al telescrivente ed al telegrafo così come alla radio i testi”.

“Sono le 22.15. Il prof. Casorati parte immediatamente ed io incarico il bravo Galimberti di fare venire dalla caserma dei carabinieri una guardia armata per il nostro edificio. Nessuno può prevedere quello che avverrà quando la notizia si diffonderà attraverso il giornale radio delle 22.45. Poi chiamo Corrias, capo gabinetto del ministero della cultura popolare. Non sa ancora nulla. Io non lo metto al corrente della notizia che è in corso di trasmissione, ma pochi minuti dopo mi chiama lo stesso ministro Polverelli. Mi chiede se sono sicuro che i comunicati annuncianti le dimissioni del Duce sono autentici. Lo rassicuro di aver controllato a Casa Reale ed egli mi dice: ‘Allora diramali’.

“Rispondo: ‘Ho già fatto’. Il dramma si svolge con una tale semplicità che sembra di sognare. Chiamo allora Bastianini per avvertirlo di quanto avviene, ma non è in casa e sua moglie mi dice di non sapere dove si trovi. Evidentemente, per ogni eventualità si è messo in salvo. Poi chiamo Morgagni a casa e gli dico che il Duce ha dimissionato, che Badoglio ha costituito un nuovo governo. Non fa nessun commento né apprezzamenti; mi chiede solo quello che gli consiglio di fare. Lo invito ad andare al letto e a dormire, che avrei telefonato o sarei andato da lui ove fosse stato necessario. Poi mi occupo un po’ della situazione redazionale.

“Sono le 22.40. La caduta del fascismo ha provocato fra tutti una viva emozione. In complesso non si nasconde la gioia. Si dice che il Duce conduceva ormai il paese fatalmente alla catastrofe e che l’esserne liberati può forse offrire una possibilità di ripresa o di salvamento per l’Italia. Fra tutti però i più felici sono i carabinieri. Il brigadiere che li comanda sale egli stesso sulla seggiola per togliere da tutte le stanze il ritratto di Mussolini, affermando ch’egli aveva tentato d’inquinare la stessa Arma. Intanto il giornale radio delle 22.45 ritarda. Passano ben otto minuti prima che l’annunciatore si decida a dare lettura dei famosi comunicati e subito la città e le strade sembrano percosse da un sussulto. Porte e finestre si spalancano. Un uomo in camicia da notte attraversa Piazza di Spagna, girando come impazzito ed agitando una bandiera tricolore. Ragazze, donne, soldati si precipitano fuori. Tutti gridano, si abbracciano, corrono. Il brusio sale come una marea, lontana e minacciosa”.

 

All’Eiar in via Asiago che cosa è successo? I comunicati sono stati trasmessi dalla Stefani alle 22.15-22.20. I giornali radio sono sette, il primo alle 7.45 del mattino; l’ultimo è alle 22.45.

Uno degli “speaker” che li leggono è Giovanni Battista Arista, detto Titta. Intervistato dalla Rai nel 1963, anche lui non ricorda per quale ragione, quella notte, l’ultimo giornale radio non fu trasmesso alle 22.45, ma con otto minuti di ritardo, più di mezz’ora dopo l’arrivo della notizia dalla Stefani. Si può però immaginare perché: la sorpresa, lo sconcerto, anche la paura, le telefonate a destra e a sinistra, e le necessità di ulteriori controlli; non tanto con la Stefani (“non saranno mica ammattiti?”), quanto col Quirinale. È il direttore generale, Raul Chiodelli, che parla direttamente col duca Acquarone. Riceve conferma, ma non basta. I giornali radio terminano sempre con la Marcia reale e con Giovinezza, l’inno fascista. Chiodelli è così confuso che chiede se dopo la Marcia reale si deve dare, come sempre, Giovinezza. “Direi proprio di no” risponde Acquarone.

Finalmente, alle 22.53, Titta Arista legge, con tono solenne, i tre comunicati. Il primo è quello che annunzia le dimissioni (non l’arresto) di Mussolini. Dice Arista: “Attenzione, attenzione” e poi: “Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo Primo Ministro segretario di Stato, presentate da Sua Eccellenza il cavaliere Benito Mussolini ed ha nominato Capo del Governo Primo Ministro segretario di Stato Sua Eccellenza il cavaliere maresciallo d’Italia Pietro Badoglio”. Dopodiché si sentono le note della Marcia reale.

Il secondo comunicato è il proclama di Vittorio Emanuele: “Italiani, assumo da oggi il comando di tutte le Forze Armate. Nell’ora solenne che incombe sui destini della Patria ognu­no riprenda il suo posto di dovere, di fede e di combatti­mento: nessuna deviazione deve essere tollerata, nessuna re­criminazione può essere consentita. Ogni Italiano si inchini dinanzi alle gravi ferite che han­no lacerato il sacro suolo della Patria. L’Italia, per il valore delle sue Forze Armate, per la deci­sa volontà di tutti i cittadini, ritroverà nel rispetto delle istitu­zioni che ne hanno sempre confortata l’ascesa, la via della ri­scossa. Italiani, sono oggi più che mai indissolubilmente unito a voi dalla incrollabile fede sull’immortalità della Patria”.

Il terzo comunicato è il proclama di Badoglio, con l’infelice frase “la guerra continua”, causa di tanti equivoci e di tante disgrazie: “Sua Eccellenza il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio ha rivolto agli italiani il seguente proclama: ‘Italiani, Per ordine di Sua Maestà il Re e Imperatore assumo il Governo militare del Paese, con pieni poteri. La guerra continua. L’Italia, duramente colpita nelle sue province invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. Si serrino le file attorno a Sua Maestà il Re e Imperatore, immagine vivente della Patria, esempio per tutti. La consegna ricevuta è chiara e precisa: sarà scrupolosamente eseguita, e chiunque si illuda di poterne intralciare il normale svolgimento, o tenti turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito. Viva l’Italia. Viva il Re'”.

Il primo comunicato porta in calce la sigla della Stefani, come d’obbligo per tutti i comunicati ufficiali, ed è significativo che la notizia della fine del fascismo di Mussolini sia siglata dall’agenzia che è stata l’organo ufficiale del fascismo e di Mussolini.

Roberto Suster è rimasto nella sede dell’agenzia e alle 23.15 – racconta14 – “una telefonata dalla casa del senatore Morgagni mi avverte che pochi minuti fa egli si è suicidato con due colpi di pistola. Prendo sull’automobile un carabiniere e il redattore Pucci e mi precipito a casa sua. Sdraiato in un mare di sangue, con la materia celebrale che esce dalla fronte squarciata, Morgagni rantola ancora nella stanza da letto, dove si è ucciso, dopo aver scritto un biglietto che dice ‘Il Duce ha dato le dimissioni, il Re ha chiamato Badoglio. La mia vita è finita. Viva Mussolini'”.

Dei moltissimi gerarchi del fascismo (gerarchi, così si chiamavano e si facevano chiamare, con dotta reminescenza dal greco, tutti gli alti dirigenti del partito) Manlio Morgagni è (e rimarrà) l’unico suicida in quella notte strana. In Italia è accaduto un cataclisma e non sono tanti gli italiani che se ne accorgono. In genere, la sera si va sempre a letto presto, anche perché spesso ci si deve alzare la notte e rifugiarsi in cantina quando suona la sirena dell’allarme aereo. Anche in questa notte quasi tutti dormono e non hanno sentito il giornale radio. Quelli che l’hanno sentito, in casa o in qualche bar rimasto aperto, rimangono sorpresi; poi avvertono gli amici, i parenti. Verso mezzanotte il centro delle città è pieno di gente. Quelli che dormono sono svegliati dal fracasso, aprono le finestre, faticano a capire quello che è successo. Molti si vestono in fretta, escono di casa, scendono nelle strade, diventano folla, si abbracciano, gridano, “viva”, “morte”.

A Milano anche Pietro Ingrao dorme. Ha 28 anni, da tempo è militante nel partito comunista clandestino; inseguito dalla polizia, si è nascosto in una casa del centro con altri due compagni. Un amico lo sveglia urlando. Si veste in fretta. “Ci precipitammo per le strade del quartiere” racconta15; “attorno regnava sovrano il silenzio pesante della notte d’estate, nel buio senza stelle. Ma presto dall’alto delle case cominciò uno spalancarsi di finestre, e persone affacciarsi e chiedere in ansia: ‘Che c’è, che succede?’. Mai come in quel momento ho sentito la gioia prorompere nel petto e, al tempo stesso, fisicamente, la distanza e la vicinanza di quelle voci interroganti che sembravano giungere da una altitudine lontana e confusa. Presto però il paesaggio mutò. E a Porta Venezia trovammo Milano illuminata, ebbra e in tumulto. La gente si stringeva, s’abbracciava, s’aggregava senza conoscersi, si scatenava nei gridi, nelle invettive. Per la prima volta mi trovavo in una furia di popolo che urlava, sfasciava, esultava: alla caccia delle sedi fasciste, dei segnacoli del regime, a gridare lo scatenarsi della gioia e la voglia di vendicarsi”. “A rileggerla ora nella memoria” continua Ingrao “quella notte in piazza che fu? Solo collera e vendetta di minoranze perseguitate che tornavano alla luce? o gente scorata che ritrovava coraggio? o anche opportunismo di pavidi che si adattavano al mutamento, e piazza vile che si accodava al vincitore nell’ora del rendiconto?”.

In realtà le reazioni alla prima notizia delle “dimissioni” di Mussolini (la notizia dell’arresto si diffuse il giorno dopo) furono tante e diverse: lo sconcerto, la preoccupazione, la paura di chi aveva cariche nel partito fascista e dal fascismo riceveva autorità, privilegi e stipendi; e la felicità, dalla parte opposta, di chi viveva in prigione o al confino di polizia o nascosto in qualche casa ospitale o in qualche convento (fra gli altri, gli ebrei sfuggiti ai rastrellamenti). E la soddisfazione, il sollievo di quanti, diventati, da più o meno tempo, contrari alla dittatura oppure aventi figli o mariti in servizio militare oppure impauriti dai bombardamenti aerei oppure stremati dal poco mangiare, pensavano che la fine del fascismo volesse dire anche la fine della guerra; e la gioiosa sorpresa e la speranza di tanti intellettuali, che vedevano finalmente il ritorno della democrazia, della libertà, la possibilità di trovarsi, di parlare, di discutere senza il rischio di finire in galera; fra questi i giovani, cui spettava il compito di essere la nuova classe dirigente, ma che di democrazia e di libertà avevano letto soltanto sui libri; ardenti di voglia di fare, con la testa piena di idee bellissime ma confuse. Sì, era arrivata la democrazia, era arrivata la libertà. E ora?

Anche Manlio Cancogni dormiva, a Firenze, quella notte. “Sarà stata la mezzanotte” racconta16. “Le voci continuavano a chiamare; in ciabatte andai ad aprire porta d’in­gresso e portone. Sul marciapiede, di qua e di là della strada, riconobbi Vasco, Sandro, Mario17. Vasco era eccitatissimo; e anche un poco stupito dalla mia scarsa partecipazione alla gioia co­mune. Tornare a letto, ora? Con tutto quello che sta accadendo? Sarebbe stato come dar prova di scarso senso civico, di un egoismo inconciliabile con le tante parole spese sul fascismo, l’antifascismo, il mondo di domani ecc. ecc. Se persino due uomini prudenti e riflessivi come Parronchi e Luzi sentivano l’appello dell’ora, come avrei potuto io, dopo tutto il gran parla­re che avevo fatto, tirarmi indietro? Del resto il sonno era svaporato. E ora cominciavo a capire la grandezza del momento, e che non potevo mancare, e che il dovere mi chiamava e avrei potuto far cosa utile per il partito che cre­devo di rappresentare. Chiesi due minuti, il tempo d’infilarmi un paio di calzoni e una camicia, e rientrai in casa. Mio suocero era tornato al lavoro nel suo studio; mia moglie s’era riaddormentata nel letto nuziale, le altre donne, suocera, cognate, zia, domestica non s’erano nemmeno sve­gliate. In due minuti ero pronto; uscito sul marciapiede dove quelli mi aspet­tavano, mi chiusi alle spalle l’altissimo portone. ‘E ora? Che si fa?’. Qualcosa si doveva pur fare in una notte come quella. ‘Andiamo da Roma­no’ propose Vasco. Bilenchi18 abitava allora con la moglie in via Fra Bartolomeo, e quando Vasco lo chiamò dalla strada affacciò subito la testa sotto la persiana alzata a metà, come se ci aspettasse”.

“Nemmeno a sforzarmi e a inventare riuscirei a fare una relazione dei di­scorsi e dei propositi che si tennero quella notte nella sala da pranzo dell’a­mico, fra il fumo di innumerevoli sigarette. Di riunioni simili, se ne tenevano in tutta Italia, in quelle stesse ore, migliaia e tutte ugualmente confuse e fu­mose (non solo metaforicamente), eppur necessarie”. “Era sottinteso, pareva, che in Italia tutto sin dall’indomani sarebbe cam­biato. E che quindi non ci fosse tempo da perdere per entrare, anche noi let­terati, nell’omnibus della storia che passava anche sotto le nostre finestre. Se la rivoluzione era cominciata (di questo si pareva tutti certi), dovevamo fare sentire la nostra voce”.

“Uscimmo dalla casa di Romano che cominciava ad albeggiare. Eravamo molto soddisfatti anche se non avremmo saputo dire perché. Aver mostrato, noi uomini di lettere estranei alla realtà della gente comune, di sa­pere, venuto il momento, essere come gli altri, i fratelli nella stessa vicenda? Sì, forse era per questo. Letterariamente era questa una seconda nascita. E per questo si respirava con piacere l’aria fresca di quel mattino estivo, il mattino della libertà”.


1 Più che di un diario, si tratta di una serie di appunti (di cui sono rimaste 53 pagine dattiloscritte) per un libro che Suster aveva intenzione di pubblicare in seguito, col titolo di Cronache per una storia d’Italia del 1943. Del testo, conservato all’Archivio centrale dello stato (ACS-FRS), si è parlato la prima volta in L’agenzia Stefani da Cavour a Mussolini di Sergio Lepri, Francesco Arbitrio e Giuseppe Cultrera (Le Monnier, 1999 e 2001). Il testo è stato poi pubblicato integrale in Per una storia d’Italia del 1943 a cura di Gianni Faustini (Quaderni di Archivio trentino, 2006).

2 Gaetano Polverelli era il ministro della cultura popolare, a cui, come direttore dell’agenzia ufficiale, rispondeva Roberto Suster. Giuseppe Bastianini era il sottosegretario agli esteri (ministro era Mussolini); Enzo Galbiati era il comandante della MVSN (“Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale); Guido Buffarini-Guidi era stato sottosegretario agli interni fino al rimpasto ministeriale del 6 febbraio.

3 Benito Mussolini, Opera omnia, XXXIV.

4 Dino Grandi, 25 luglio 1943, Il Mulino, 1983.

5 Il generale Ambrosio in una intervista a M. Lualdi sul Corriere della sera dell’11 marzo 1955.

6 Nel suo Diario (v. nota 1) Renato Suster scrive che il sottosegretario agli esteri Giuseppe Bastianini gli aveva detto che in un primo progetto del colpo di stato, fissato per il 27 luglio, il generale Castellano era la persona incaricata di uccidere Mussolini “a revolverate” a palazzo Venezia. Il re aveva però respinto l’idea del “tirannicidio”.

7 P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, Palazzo, 1958.

8 G. Castellano, Come firmai l’armistizio di Cassibile, Mondadori, 1945.

9 P. Puntoni (v. nota 7).

10 Mussolini in una intervista riportata da R. Montagna su Oggi del 19 giugno 1958.

11 Tutto è raccontato, con molta precisione e cura dei particolari, nella relazione Arresto – Detenzione – Liberazione di Mussolini redatta dal generale dei carabinieri Filippo Caruso dopo la liberazione di Roma.

12 R. Suster, v. nota 1.

13 Carlo Costetti (grande ufficiale, non commendatore) era il capogabinetto del duca Acquarone.

14 R. Suster, ibidem.

15 Pietro Ingrao, Volevo la luna, Einaudi, 2006; Pietro Ingrao (1915) è stato presidente della Camera dei deputati dal 1976 al 1979.

16 Manlio Cancogni, Gli scervellati, Diabasis, 2003. Manlio Cancogni (1916), giornalista e scrittore; fra gli altri romanzi La linea del Tomori (premio Bagutta 1968), Azorin e Mirò, Il ritorno (premio selezione Campiello 1971), Allegri gioventù (premio Strega 1973), Quella strana felicità (premio Viareggio 1985), Il Mister (premio Grinzane 2000); l’ultimo libro, autobiografico, è Sposi a Manhattan (2006).

17 Vasco era Vasco Pratolini, lo scrittore (1913-1991), autore, fra l’altro, di Cronache di poveri amanti, Un eroe del nostro tempo, Lo scialo; Sandro era Alessandro Parronchi, scrittore e docente universitario; Mario era Mario Luzi (1914-2005), poeta e saggista, più volte candidato al premio Nobel per la letteratura.

18 Romano Bilenchi, scrittore (1909-1989); autore, fra l’altro, dei romanzi Anna e Bruno e Conservatorio di Santa Teresa e dei tre racconti La miseria, La siccità, Il gelo; anche giornalista (direttore del Nuovo Corriere di Firenze dal 1946 al 1956).

25 luglio – Di più

Elisa Valle mi segnala diversi documenti interessanti sul sito www.instoria.it (verbale del Gran Consiglio: testo, firme raccolte da Dino Grandi e computo dei voti) e sul sito www.storiologia.it. Qui si potranno trovare anche altri documenti su Mussolini, il fascismo e la seconda guerra mondiale (vedere l’indice).


– Nell’archivio storico del Corriere della sera c’è un interessante racconto di Sandro Gerbi di come il presidente degli Stati Uniti Franklin Roosevelt apprese la notizia del proclama di Badoglio e delle “dimissioni” di Mussolini (ricordiamoci che tra Washington e Roma esistono sei ore di differenza. Le 22.53 di Roma corrispondono alle 16.53 di Washington). Ecco un estratto dell’articolo, leggibile interamente sul sito del Corriere della sera.

“Nel pomeriggio di domenica 25 luglio il presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt si trovava nel suo cottage “Shangrila”, circa 60 miglia a nord di Washington, nelle Catoctin Mountains. Ma il suo non era un weekend di riposo. Stava ultimando infatti un discorso con l’aiuto di due fra i suoi più stretti collaboratori, Sam Rosenman e il drammaturgo Robert Sherwood. Quest’ultimo era all’epoca responsabile del settore internazionale dell’Office of War Information (Owi), l’agenzia messa in piedi un anno prima per coordinare l’attività di propaganda del governo americano. La quiete della località di montagna e la soddisfazione per il lavoro pressoché concluso furono però improvvisamente turbate da una telefonata di Steve Early, addetto stampa di Roosevelt, che dalla capitale annunciava la caduta di Mussolini, comunicata dalla poco attendibile Radio Roma. Il presidente – racconta Sherwood – piuttosto sorpreso ma non tremendamente colpito dall’annuncio, si chiese in che modo potevamo riscontrare l’autenticità della notizia. Perciò io telefonai ai miei colleghi delle onde corte a New York e chiesi loro che cosa sapevano di questa storia. L’avevano sentita anche loro, naturalmente, e si erano messi in contatto con i dirigenti della Bbc a Londra, i quali erano propensi a ritenerla vera. I rappresentanti dell’Owi – prosegue Sherwood – avevano poi cercato di avere delle conferme dalla Casa Bianca, mentre essa stava ora tentando di ottenere una conferma da loro. Riferii quanto sopra al presidente ed egli mi disse: ‘Beh, ne verremo a capo più tardi’.

“Alla ‘Voce dell’America’, intanto, regnava comprensibilmente il caos assoluto. Come comportarsi? La giornata festiva rendeva difficili le consultazioni con il Dipartimento di Stato e le direttive sull’Italia erano piuttosto vaghe. Le ultime, approvate il 21 febbraio 1943, dicevano: ‘Il fascismo non include solo Mussolini ed i suoi complici politici e militari, ma anche la Casa Savoia, che ha tradito l’Italia consegnandola al fascismo, e gli industriali che hanno sostenuto il fascismo’. Pure il messaggio congiunto di Roosevelt e Churchill del 17 luglio poteva senz’altro essere interpretato nello stesso senso.

“Assente Sherwood, il suo vice James Warburg, della famiglia dei banchieri, si assunse in pieno la responsabilità di decidere. Nelle sue istruzioni, raccomandò di trattare l’evento ‘freddamente e senza alcun giubilo’, tenendo presente, comunque, che non faceva alcuna differenza se ‘la leadership apparteneva a Mussolini, a Badoglio oppure al re’. L’intrinseca ambiguità della politica estera americana consentiva dunque alla linea ‘liberal’ di prevalere, spingendo l’Owi su un terreno piuttosto accidentato. Così, quella fatidica sera del 25 luglio, Lopez si sentiva pienamente autorizzato ad attaccare con durezza Vittorio Emanuele III: ‘Il proclama di Badoglio esorta gli italiani a stringere le file attorno al re imperatore. Il re è stato fatto imperatore da Mussolini e da Badoglio. Il popolo italiano non è stato consultato. Il popolo italiano non è impegnato’.

“Ma la Voce dell’America andava ben oltre. Quella sera stessa Warburg si risolveva a mandare in onda alcuni passi di un commento radiofonico appena pronunciato dal noto columnist del New York Post, Samuel Grafton. Si tratta di un episodio conosciuto, ma non nei dettagli. ‘Il fascismo è ancora al potere in Italia’ diceva Grafton. ‘Ha soltanto cambiato faccia. Il fascismo italiano si è colorito guance e labbra, e sta cercando di capire se un sorriso non sarà più produttivo del famoso cipiglio con cui ha così a lungo convissuto. Il piccolo re deficiente (the moronic little king), che è stato dietro alle spalle di Mussolini per 21 anni, ha mosso un passo avanti. Questo è un minuetto politico e non la rivoluzione che stavamo aspettando’.

Questa presa di posizione, che esprimeva la parte radicale della politica e del giornalismo americano – continua Sandro Gerbi – non piacque a Roosevelt, “che convocò una conferenza stampa in cui dichiarò che né lui né lo State Department avevano autorizzato la trasmissione incriminata. Del resto, il giorno prima Churchill aveva informato il presidente americano che ‘avrebbe trattato con qualsiasi governo italiano non fascista, in grado di consegnare la merce’, cioè di firmare la resa. Il discutibile concetto, dopo qualche oscillazione da parte di Roosevelt, veniva da questi avallato in una nuova conferenza stampa, il 30 luglio, manifestando la propria disponibilità a trattare con qualunque non fascista, ‘che fosse un re, o un attuale primo ministro, oppure il sindaco di una città o di un villaggio'”.


Arcangelo Ferri segnala il libro “I verbali di Hitler. Rapporti stenografici di guerra, 1942-1945”. Il primo volume (1942-1943) è stato pubblicato alla fine del 2009 dalla Libreria Editrice Goriziana con una lunga introduzione del generale Fabio Mini.

La decisione di Hitler di costituire un “Servizio stenografico al Quartier generale del Führer” e di affidargli la registrazione stenografica delle riunioni con i suoi più alti collaboratori militari fu presa nell’estate del 1942 dopo una crisi di fiducia con qualcuno dei generali (in particolare il generale Alfred Jodl) per la condotta delle operazioni durante l’avanzata tedesca nel Caucaso. Alla fine della guerra erano stati redatti 103 mila fogli, scritti su una sola facciata, e tutti furono bruciati, salvo un migliaio di pagine che vennero recuperate dai Servizi segreti americani e pubblicate nel 1962 dalla Deutsche Verlags-Anstalt” di Stoccarda (“Hitler Lagebesprechungen seiner militarischen Konferenzen 1942-1945”). Si tratta quindi di un testo probabilmente attendibile ma incompleto. Molte pagine riguardano il 1943; leggiamo quelle del 25 luglio.

Siamo a Rastenburg, la cosiddetta “tana del lupo”, nella foresta di Goerlitz nella Prussia orientale. È la riunione serale, che ha inizio alle 21.30. Come sappiamo, Mussolini è stato arrestato a Villa Savoia alle 17.30; il comunicato che ne annunzia le “dimissioni su sua domanda” sarà letto alla radio alle 22.53. Il verbale comincia con un esame della situazione nell’Europa orientale; l’interlocutore è il generale Kurt Zeitzler. A un certo momento Hitler informa Zeitler (è il capo di stato maggiore generale dell’esercito): “Il Duce si è dimesso”. “Di sua iniziativa?”. “Probabilmente per desiderio del re, su pressione della corte “.

Interviene il generale Jodl: “Badoglio ha assunto il governo”. Hitler: “Badoglio è il nostro più acerrimo nemico… Questo è un tradimento. È un tradimento bello e buono. Sto attendendo notizie su quello che il Duce dirà. Coso (chi è questo ‘coso’? probabilmente l’ambasciatore a Roma Mackensen) vuole parlare col Duce. Speriamo che riesca a scovarlo. Vorrei che il Duce venisse subito qui. Che il Duce venga subito in Germania”. Sono presumibilmente le 22 e Hitler non sa ancora (cioè i suoi rappresentanti a Roma, ufficiali e segreti, non sanno e quindi non lo hanno informato) che Mussolini è stato arrestato cinque ore e mezzo prima. Ancora Hitler: “La mia idea sarebbe che la 3a divisione corazzata granatieri occupasse subito Roma e scardinasse immediatamente tutto il governo”.

Si discute ancora; poi il generale Jodl: “Dobbiamo attendere notizie veramente precise e vedere quello che sta accadendo”. Hitler: “Per il momento abbiamo ricevuto questo rapporto: ieri il Duce era al Gran Consiglio. Nel Gran Consiglio c’erano Grandi, che ho sempre definito un ‘porco’, Bottai, ma soprattutto Ciano. Hanno parlato contro la Germania e avrebbero detto: ‘Non ha più alcun senso proseguire la guerra; in qualche modo si deve tentare di tirar fuori l’Italia’.. ..Già questa sera il Duce ha fatto sapere a Mackensen che non capitolerà. Poi improvvisamente ho ricevuto la notizia che Badoglio vorrebbe parlare a Mackensen, Mackensen ha detto di non avere nulla da discutere con lui. Egli è diventato ancora più insistente e infine Badoglio ha inviato un uomo… Ha detto che il re lo aveva appena incaricato di formare un governo dopo che Mussolini si era dimesso”.

Qui il verbale mostra molte lacune; evidentemente mancano alcune pagine. Più avanti Hitler dice: “Coso (questa volta ‘Coso’ è Badoglio) ha subito dichiarato che la guerra continua. Questo non cambia nulla. Quella gente deve fare così perché è un tradimento. Ma anche noi, da parte nostra, continueremo a giocare il loro stesso gioco. Prepareremo tutto per impadronirci fulmineamente di tutta questa gentaglia, per far piazza pulita di tutta quella marmaglia. Domani manderò giù un uomo che dia ordine al comandante della 3a divisione corazzata granatieri di entrare seduta stante a Roma; e un gruppo speciale per arrestare subito tutto il governo, il re, tutta la banda; soprattutto per arrestare subito il principe ereditario e impadronirsi di questa canaglia, soprattutto di Badoglio e di tutta quella gentaglia. Allora vedrà che si infiacchiscono fin nelle ossa e che fra due o tre giorni ci sarà un altro rivolgimento”.

Più avanti. Hitler: “Jodl, rediga subito l’ordine per la 3a divisione corazzata gra­natieri… l’ordine, senza parlare con nessuno, di entrare a Roma con i cannoni d’assalto e di arrestare il governo, il re e tutta la compagnia… Soprattutto devo avere il principe ereditario”. Keitel (capo dell’altro comando della Wehrmacht): “È più importante del vecchio”. Bodenschatz (generale dell’aviazione): “Si deve organizzare in modo che venga subito impacchettato, messo in aereo e portato via”. Hitler; “In aereo e subito via, via all’istante!”. Bodenschatz: “Che non perdiamo il ‘bambino’ già all’aeroporto!”.

Hitler: “Fra otto giorni qui ci sarà un altro ribaltone, vedrà!”; e poi: “Naturalmente daremo il via nel momento in cui le nostre forze saranno pronte per andare subito là e disarmare tutta la banda. Il senso di tutta la storia è che i generali traditori e Ciano stanno assestando un colpo al fascismo”.

La riunione continua affrontando i problemi dei vari fronti di guerra. Alla fine la discussione torna sull’Italia e Hitler riprende quello che ritiene debba essere la linea politica tedesca nei riguardi di Badoglio: “Dobbiamo portare avanti il gioco come se credessimo che continueranno!”; cioè fingere di credere che gli italiani continueranno a combattere al fianco degli alleati tedeschi.

La seduta – dice il verbale – è chiusa alle 22.13. Tra quaranta minuti la radio italiana trasmetterà i tre comunicati: il primo che annunzia le “dimissioni” di Mussolini e la nomina di Badoglio a capo del governo, poi il proclama del re, quindi quello di Badoglio con l’infelice frase “La guerra continua”. Forse Badoglio è veramente convinto che Hitler non abbia capito e che non capirà.

Un’altra riunione comincia a mezzanotte e 25. Il verbale è anche qui molto lacunoso e non si è quindi certi che Hitler sia stato informato dai suoi a Roma che Mussolini non si è dimesso, ma è stato arrestato sette ore prima. Si parla in generale della situazione militare in Italia e ancora del progetto di occupare Roma. L’ambasciatore Hewel pone il problema del Vaticano.

Hitler: “È del tutto indifferente. In Vaticano c’entro subito. Crede che abbia soggezione del Vaticano? Quello lo prendiamo subito. Là dentro c’è tutto il corpo diplomatico. Me ne infischio. La gentaglia è là e noi tireremo fuori tutto quel branco di porci. Poi in un secondo momento ci scusiamo. Ce ci importa. Noi facciamo la guerra”.

La seduta termina a mezzanotte e tre quarti e domani 26 si riaprirà alle 11.46. Hitler chiede al generale Jodl: “Sono arrivate notizie nuove?”. Jodl: “No. Finora è stato fissato un colloquio (dell’ambasciatore Mackensen) con Badoglio alle 18; prima non c’era tempo per troppo impegni. Gli uni gridano ‘pace, pace’, gli altri danno la caccia ai fascisti. Mi ricordano le bambinate prima del Mercoledì delle ceneri”. Hitler: “Arriverà anche il Mercoledì delle ceneri”. Jodl: “Il Comando supremo ha comunque preso tutte le sue precauzioni in caso di pericolo (delle autorità tedesche, si suppone). Un aeroporto è completamente in mano tedesca”.

La notizia della caduta di Mussolini è stata data dalla radio tedesca alle 7 del mattino con questa frase: “Si suppone che questo cambiamento di governo sia da ricondurre alle condizioni di salute del Duce che negli ultimi tempi era ammalato”.

Sempre secondo i verbali, la riunione cominciata alle 11.46 viene interrotta alle 12.10 per un colloquio di Hitler col feldmaresciallo von Kluge; è presente anche il generale Zetzler. Hitler: “È già informato sulla situazione generale, signor feldmaresciallo?”. Kluge: “Oggi, attraverso una comunicazione radio”. Hitler: “La comunicazione radio non corri­sponde alla verità. In breve la situazione è questa: in Italia è avvenuto quello che temevo ed a cui avevo già accennato anche re­centemente nella riunione con i generali; è una rivolta che parte dal­la Casa reale o dal maresciallo Badoglio, quindi dai nostri vecchi ne­mici. Il Duce è stato arrestato ieri. È stato invitato a recarsi al Quirinale per dei colloqui ed al Quirinale è stato arrestato e poi im­mediatamente deposto. Poi è stato formato que­sto nuovo governo che, naturalmente, ufficialmente dichiara ancora di collaborare con noi. Naturalmente è tutta una copertura per gua­dagnare qualche giorno e consolidare il nuovo regime. In sostanza il nuovo regime, naturalmente, dietro di sé non ha nulla, a parte gli Ebrei e la plebe che a Roma si fanno sentire; questo è chiarissimo. Ma comunque al momento ci sono e adesso è urgente e necessario che agiamo. In realtà ho sempre temuto questi sviluppi. Proprio per questo motivo ero così preoccupato di partire troppo presto qui al­l’est, perché ho sempre pensato che sarebbero subito iniziate le danze a sud; gli Inglesi ne approfitteranno, i Russi ruggiranno, gli In­glesi sbarcheranno. Dagli Italiani il tradimento, vorrei dire, era nel­l’aria. Vista la situazione volevo attendere almeno fino a quando sarebbero state pronte parecchie formazioni. Ora la faccenda è que­sta, dobbiamo avere delle formazioni all’Ovest. Perché, naturalmen­te, sono deciso a colpire fulmineamente proprio come ho fatto nel caso della Jugoslavia. Ritengo che la resistenza dell’Italia stessa sarà zero. I fascisti passeranno con noi. Farinacci comunque lo abbiamo portato qua, è da noi. È già a Monaco, in volo per venire qui. Dove sia il Duce, non lo so. Appena vengo a saperlo lo porto fuori subito con i paracadutisti. Per come la vedo io, tutto questo regime è un tipico regime da colpo di stato come a suo tempo a Belgrado e un giorno crollerà. La premessa è che agiamo subito”.

Il piano per l’occupazione militare di Roma e per l’arresto del re, del principe ereditario e di Badoglio sarà chiamato dapprima “Untenehmen Student”, dal nome del generale Kurt Student, comandante della divisione paracadutisti incaricata dell’operazione (ritroveremo il generale Student il 12 settembre con i suoi paracadutisti che libereranno Mussolini sul Gran Sasso). Il progetto verrà poi ampliato per essere molto più di un colpo di mano sulla capitale e prenderà il nome di operazione “Schwarz”, ma un giorno dopo l’altro aumenterà la contrarietà dell’OKW, l’alto Comando dell’esercito, e in particolare del generale Kesselring. Il colpo di mano su Roma sarebbe stato possibile, ma avrebbe creato una serie di problemi militari e politici; politicamente avrebbe rischiato di alienare le ultime simpatie degli italiani per la Germania e militarmente avrebbe messo in difficoltà le truppe tedesche in Sicilia e nel Mezzogiorno, offrendo un buon motivo di defezione ai Comandi delle Forze armate italiane e impedendo l’afflusso in Italia di quelle divisioni tedesche necessarie per affrontare gli angloamericani il giorno in cui, prima o poi, l’Italia si sarebbe arresa.

Il 5 agosto Hitler, accortosi anche che, contrariamente alle sue previsioni, con la caduta di Mussolini il partito fascista si era dissolto ed erano praticamente scomparse le sue milizie, cancellerà l’operazione “Shwarz” e ordinerà lo studio di un’altra operazione – si chiamerà “Eiche”, “quercia” – per la liberazione di Mussolini (si veda la giornata del 12 settembre).

Il mese di agosto e poi i primi giorni di settembre fino all’armistizio dell’8 passeranno così con un Hitler che fingerà di credere alle assicurazioni di Badoglio sul proseguimento dell’alleanza con la Germania e un Badoglio che continuerà a non accorgersi – e non era difficile – che Hitler aveva capito tutto.


– Franco Arbitrio ci segnala questa notizia sui tre ufficiali dei carabinieri – il tenente colonnello Giovanni Frignani e i capitani Raffaele Aversa e Paolo Vigneri – che parteciparono all’arresto di Mussolini. Due – Frignani e Aversa – furono uccisi dai tedeschi alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. Il tenente colonnello Giovanni Frignani, che comandava il gruppo dei 50 carabinieri a villa Savoia, dopo l’8 settembre entrò nel fronte militare clandestino insieme con il capitano Aversa, organizzando i numerosi carabinieri sbandati nella banda “generale Caruso”. Frignani e Aversa furono catturati dalla tedeschi il 23 gennaio 1944 e rinchiusi nella sede del comando tedesco di via Tasso a Roma, dove furono torturati.

Ai due ufficiali è stata concessa la medaglia d’oro al valor militare. Dice la motivazione di Frignani: “Ufficiale superiore dei carabinieri riuniva intorno a sé numerosi carabinieri sottrattisi alla cattura dei nazifascisti, organizzandoli, assistendoli moralmente e materialmente, inquadrandoli e facendone un organismo omogeneo, saldo, pronto ad ogni prova. Arrestato, sopportava per due mesi, nelle prigioni di via Tasso, torture e sofferenze per non tradire la sua fede di patriota ed il suo onore di soldato con rivelazioni sull’organizzazione militare clandestina. Martoriato, con lo spirito fieramente drizzato contro i nemici della Patria, piegava il corpo solo sotto la mitraglia del plotone di esecuzione”.Era nato a Ravenna l’8 aprile 1897.

Questa la motivazione di Aversa: “Ufficiale dei CC.RR., comandante di una compagnia della Capitale, opponeva dopo l’armistizio, all’azione aperta ed alle mene subdole dell’oppressore tedesco e del fascismo risorgente, il sistematico ostruzionismo proprio e dei dipendenti. Sfidava ancora i nazifascisti sottraendo i suoi uomini ad ignominiosa cattura. Riannodatene le fila e raccolti numerosi sbandati dell’Arma, ne indirizzava le energie alla lotta clandestina, cooperando con ardore, sprezzante d’ogni rischio, a forgiare sempre più vasta e possente compagine. Arrestato dalla polizia tedesca come organizzatore di bande armate, sopportava per due mesi, nelle prigioni di via Tasso, sevizie e torture che non valsero a strappargli alcune rivelazione. Fiaccato nel corpo, indomito nello spirito sempre drizzato fieramente contro i nemici della Patria, cadeva sotto la mitraglia del plotone di esecuzione alle Fosse Ardeatine”. Era nato il 2 settembre 1906 a Labico (Roma), dove il padre Alfonso comandava la locale stazione dei carabinieri.

Diversa la sorte del capitano Paolo Vigneri. Dopo l’8 settembre si rifugiò in montagna. A guerra finita lasciò l’Arma, fece il concorso per notaio, lo vinse e si trasferì a Catania. Era nato a Calascibetta (Enna) il 13 marzo 1907. È morto a Catania il 24 ottobre 1988.


– Sul sito di “Vaticanfiles” c’è una lunga storia sull’attività romana di Frignani e di Aversa prima della loro fine nelle Fosse Ardeatine. Il 7 ottobre costituirono un “Fronte clandestino di resistenza dei carabinieri”, in contatto col Comando carabinieri dell’Italia meridionale; Frignani era il capo del servizio informazioni. Nella sua clandestinità Giovanni Frignani fu ospitato dai coniugi Elena Hoehn (una slesiana cresciuta ad Amburgo in ambiente luterano) e Luigi Alvino (un imprenditore di Avellino), nel loro appartamento nel quartiere nomentano; ma proprio qui il 23 gennaio del 1944 la Gestapo irruppe e arrestò Frignani, la moglie Lina, il capitano Aversa, che era andato a parlare col collega Frignani, e Elena Hoehn. Tutti furono portati nel Comando romano delle SS in via Tasso. Lina Frignani e Elena Hoehn vennero rilasciate il giorno seguente, ma i due ufficiali dei carabinieri furono sottoposti a interrogatori e sevizie perché rivelassero nomi e sedi della loro organizzazione. Il 22 febbraio Elena Hoehn scrisse una lettera al papa per chiedere un suo intervento presso il maresciallo Kesselring; Pio XII rispose il 7 marzo con una lettera del sostituto alla Segreteria di stato monsignor Montini (“Numerosi passi sono stati fatti nel senso da lei desiderato”).

Il 23 marzo Elena Hoehn e Lina Frignani si trovavano in via Tasso accanto ad un’auto con targa vaticana, inviata dal Vaticano, con qualche speranza di rilascio. Arrivò invece la notizia dell’attentato di via Rasella. Il portone del palazzo si chiuse e sulla sorte dei detenuti scese il silenzio. Solo il 5 aprile giunse a Lina Frignani una lettera dell’ambasciata tedesca per informarla che il marito era morto il 24 marzo e che i suoi effetti personali potevano essere ritirati in via Tasso. Il 24 era il giorno dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. A niente era valso l’intervento di Pio XII.


– Come Benedetto Croce accolse la notizia della defenestrazione di Mussolini? Ecco dal suo diario:

25 luglio. “Mi ero messo a letto alle 23 quando una telefonata della signorina Elena di Serracapriola dalla sua villa mi ha comunicato la notizia del ritiro del Mussolini e del nuovo governo affidato dal re al generale Badoglio. Sono accorsi anche, udita la stessa notizia, il Parente e il Morelli, che erano mezz’ora prima andati via; e ci siamo intrattenuti dell’evento. Tornato a letto, non ho potuto chiudere occhio fino alle quattro e più oltre. Il senso che provo è della liberazione da un male che gravava sul centro dell’anima; restano i mali derivati e i pericoli”.

26 luglio. “Oggi, ripercussione dell’evento di ieri. Molte visite, richieste di notizie, congetture”.

27 luglio. “Anche stanotte dormito poco, da mezzanotte alle quattro. Fisso è il pensiero alle sorti dell’Italia; il fascismo mi appare già un passato, un ciclo chiuso, e io non assaporo il piacere della vendetta; ma l’Italia è un presente doloroso”.

28 luglio. “Non certo impreveduto ma sempre repugnante è lo spettacolo al quale si assiste dei rapidi cangiamenti politici; e tuttavia si mescola ad esso qualcosa che sembra sincero e sano: un’espansione, una gioia pel ritorno del nome e delle sembianze della libertà, e si pensa che la corruzione e la corruttela fascistiche non erano giunte a spegnerne il ricordo nel cuore degli italiani”.

E il 2 dicembre un giudizio su Mussolini: “L’uomo, nella sua realtà, era di corta intelligenza, correlativa alla sua radicale deficienza di sensibilità morale. Ignorante di quella ignoranza sostanziale che è nel non intendere e non conoscere gli elementari rapporti della vita umana e civile, incapace di autocritica al pari che di scrupoli di coscienza, vanitosissimo, privo di ogni gusto in ogni sua parola e gesto, sempre tra il pacchiano e l’arrogante… Il problema che solo è degno di indagine e di meditazione non riguarda la personalità di lui, che è nulla, ma la storia italiana ed europea, nella quale il corso delle idee e dei sentimenti ha messo capo alla fortuna di uomini siffatti”.


– Come abbiamo scritto nella giornata del “12 settembre – Di più”, nella bella collana “Piccola biblioteca di Nuova Storia contemporanea” è stato pubblicato di recente (2012), con prefazione di Francesco Perfetti, direttore della rivista, un libretto (“La calda estate del 1943”) scritto nel 1958 da Eugenio Dollmann, il personaggio più misterioso e affascinante, con la sua splendente uniforme nera di colonnello delle SS, della presenza tedesca a Roma da prima del 25 luglio fino alla liberazione della città nel giugno del 1944. Forse il personaggio più potente.

Nato a Ratisbona nel 1900, laureato in filosofia all’università di Monaco, Dollmann si trasferì a Roma a metà degli anni Venti per coltivare i suoi studi sulla storia e sull’arte del Rinascimento italiano. Abitava in piazza di Spagna, amava la vita mondana e, frequentando salotti e, biblioteche, si fece ben presto amico di nobili romani e di prelati del Vaticano. Ottimo conoscitore della lingua italiana, frequentava la casa di Galeazzo Ciano e gli uffici del capo della polizia Bocchini, era l’invitato d’onore dei ricevimenti della principessa Colonna e il confidente di Rachele Mussolini. Diventò presto l’informatore dell’ambasciata tedesca, prima von Mackensen poi Rahn, e del Comando tedesco di Kesselring a Frascati. Non per niente era amico di Heinrich Himmler e anche di Eva Braun, che l’aveva conosciuto a Firenze e ne era rimasta affascinata. Simpatico si rese anche a Hitler, di cui fu l’interprete nel suo viaggio in Italia nel 1938 e che lo nominò colonnello delle SS, sebbene non avesse fatto mai il soldato. Probabilmente era omosessuale.

Come ha vissuto il colonnello Dollmann la giornata del 25 luglio? Ecco il suo diario in alcune delle pagine più interessanti del suo libretto.

“26 luglio 1943, notte. Sono le due del mattino. Ho lasciato la mia terrazza che dà su piazza di Spagna. , da dove ho assistito alle feste di esultanza per la caduta di Mussolini e del fascismo. Poco fa ho svegliato il povero Mackensen (l’ambasciatore tedesco) e gli ho detto che deve immediatamente far muovere Badoglio per salvare la Deutsches Haus, contro la quale sembrava indirizzarsi l’ondata bastigliarda dei romani. Apprendo così che il nuovo capo del governo era già immerso in profondissimo sonno, ma che poi, assai controvoglia, è finalmente intervenuto. Si comincia bene.

“Ma torniamo indietro. Alle 11 del 25 luglio sono stato a Palazzo Venezia per prendere informazioni dal commendator Agnesina, mio vecchio conoscente dai tempi di Bocchini. Mi ha ricevuto subito nel suo uffi­cio, ma il suo “rapporto sulla situazione” è stato più oscuro di un oracolo della Sibilla. Mi sono fatto dare la sua versione sugli avvenimenti dell’ultima notte e apprendo che il Duce starebbe sbrigando l’ordinario lavoro di ogni giorno. Pericolo? Soltanto se il Duce continua a considerarsi invulnerabile, cioè assoluta­mente inamovibile!

“Secondo Agnesina, sembra che il Duce non abbia il minimo sospetto sulla estrema pericolosità della situa­zione. Gli chiedo quanta fiducia Mussolini può avere sulla Polizia, sui Moschettieri, sulla Milizia e ottengo come risposta che ciò dipende esclusivamente dalla sua energia e dalla sua decisione: ancora questa paro­la, energia, proprio quello che, da molto tempo ormai, sembra venir meno al Duce, ora per ora, giorno per giorno.

“Verso le 13, colazione con i fedeli della seduta notturna: Buffarini Guidi, Biggini, Tringali Casanova. Nel vecchio “San Carlo” il tempo sembra essersi fer­mato; siamo in mezzo a vecchi, servizievoli camerieri; il pranzo, in piena regola e con vini eccellenti, non ac­cenna a finire. Buffarini, sostenuto dai suoi amici, rac­conta tutte le fasi della seduta del Gran Consiglio, che chiama la “notte di San Bartolomeo” del fascismo. Secondo lui, il momento decisivo è stato quello prece­dente la fine della prima parte, prima dell’intervallo: se Mussolini fosse ancora quello di una volta, avrebbe fatto arrestare sul posto i “rivoltosi”, sciolto l’assem­blea e organizzato una “nuova Marcia su Roma”!

“Col vuotarsi delle bottiglie, il tono si fa sempre meno pessimista: Buffarini, per l’udienza pomeridia­na già fissata, crede ora a un ultimatum del Re per risolvere, nel senso della monarchia, la questione del diritto di voto del Gran Consiglio in materia di suc­cessione al trono, e quella della diarchia formata dai due primi marescialli dell’Impero.

“Più tardi, verso le tre, Buffarini e io andiamo in macchina da Mackensen, che aveva pregato l’ex mi­nistro di una relazione personale. Buffarini parla con efficacia straordinaria, come un avvocato del tempo di Cicerone, e l’ambasciatore e io dimentichiamo quasi che la storia non si è svolta nell’era imperiale, ma tra il 24 e il 25 luglio 1943. Grande, grandissima perplessità tuttavia, per l’imminente udienza a Villa Savoia, con­tro la quale pare che anche donna Rachele abbia fatto una grande scena. Buffarini si fida ben poco del Re, e supplica Mackensen di sconsigliare il Duce. Assur­da idea sulle possibilità di un diplomatico accreditato presso Sua Maestà, e, inoltre, con un funzionario cor­retto come Mackensen!

“Ci lasciamo. Mackensen corre a dettare alla tele­scrivente quello che ha appena sentito, Buffarini si precipita a Villa Torlonia, io decido di cercare Gal­biati, il comandante della guardia armata del fascismo per informarmi sui suoi preparativi che senza dubbio, devono essere spinti ormai al massimo.

“Errore colossale! La caserma tutta, ufficiali e trup­pa, è appisolata nella pace domenicale. Quando riesco finalmente a trovare Galbiati, lo sento entusiasta del­l’accoglienza ricevuta dal Duce nel quartiere di San Lorenzo! È veramente un genio nella sua ingenuità e, purtroppo, non è un Trotskij! Piacevole conversazio­ne, con ridicole proposte, lontano da ogni realtà. Gal­biati sembra aver dimenticato anche l’unica realtà, la celebre divisione “M”, guidata dall’abile ed energico generale Lusana; oppure la abbandona ad Ambrosio per un ulteriore impiego. Egli è veramente un super­prodotto del “Credere, obbedire e non combattere”, un bravo ragazzo in fondo, “un vero buon camerata” ahimè!

“Impressionatissimo, attraverso la Città Eterna, che sembra morta, press’a poco all’ora del putsch reale di Villa Savoia. Poi torno da Mackensen. Movimento e nuove divise davanti al Ministero dell’Interno. Che cosa è successo? Mi raccontano poi a Villa Wolkonsky, in una confusione senza uguali, il colpo di Stato dei Savoia. C’è da togliersi il cappello, tuttavia: io ho sem­pre messo in guardia tutti, grazie al Cielo, dal sottova­lutare il piccolo Re. Ma tanto “machiavellismo” non glielo facevo davvero!

“Dalle sette di sera ha inizio la sepoltura del fasci­smo. Nel frattempo furibonde telefonate di Hitler. Caos all’Auswaertiges Amt (il ministero degli esteri). Caos all’ambasciata. Ber­lino e il quartier generale del Führer danno, ogni cin­que minuti, disposizioni diverse, che vanno dall’arre­sto immediato (con chi?) di tutta la Casa reale e del nuovo governo fino a un provvisorio modus vivendi con Badoglio. Anch’io, sotto l’impressione desolante della fuga in massa dei fascisti e della loro unica parola d’ordine “si salvi chi può!” consiglio la seconda soluzione. Si tratti di Farinacci, di solito così sconside­ratamente estremista, o di Vittorio Mussolini, tutti vo­gliono precipitarsi a Frascati sotto l’ala protettrice di Kesselring, e poi, di corsa, “a casa”, nel Terzo Reich!

“Nessuno si interessa a quel che penserà o farà il po­vero Duce nella sua caserma di carabinieri, e meno di tutti, a quel che sembra, suo figlio Vittorio, dal quale tutta l’ambasciata si attendeva proposte di salvatag­gio, offerte di sacrificio, audacissimi piani. E dove sono, poi, i marziali Moschettieri del Duce? Dov’è, soprattutto, l’ordine di mobilitazione generale di Gal­biati: “Credere, obbedire”, questi due verbi adesso non bastano più!.

“Nuovo piano di Mackensen verso le 9 di sera: devo chiamare direttamente Hitler al telefono e proporgli di marciare da Sutri verso Roma con la divisione “M” per liberare Mussolini! Se io fossi uno di quelli che si chiamano eroi, lo farei; ma non lo sono, in questa occasione nella quale i fascisti dovrebbero avere il coraggio per una seconda marcia su Roma. Forse, se uno, uno solo, si fosse messo a disposizione per una simile impresa, gli ufficiali istruttori tedeschi della divisione avrebbero collaborato con entusiasmo. Del resto, perché non lo stesso Mackensen?

“Anche l’ora della mia “stella”, fortunatamente, è passata. Una fortuna, probabilmente, soprattutto per Roma che avrebbe vissuto brevi, ma sicuramente ac­caniti e sanguinosi combattimenti per le strade. Una fortuna, forse, anche per il povero Duce, che io, dopo il 25 luglio, non credo più capace di azioni rivoluzionarie. Non vi sono dubbi: con un solo, deciso, fascista alla testa della divisione “M”, con un discorso alla Sil­la, alla Mario o alla Giulio Cesare, si sarebbe potuto liberare Mussolini fin dalla mezzanotte del 25 luglio. Già, tutto questo se il fascismo non si fosse seppellito da solo, volontariamente! Mackensen e io siamo d’accordo sulla volontarie­tà di questo “autodafè”, ma quale sarà la vendetta di Hitler? Egli non accetterà mai tranquillamente l'”on­ta” consumata ai danni del suo amico. Villa Savoia va incontro a giorni oscuri e se il Re è savio, deve allon­tanare da Roma tutte le donne e i bambini della casa.

“Verso mezzanotte vado in piazza di Spagna, senza es­sere molestato. Per le strade di Roma ondate di aria da Bastiglia; un’aria a buon mercato, mi pare, che esulta per la caduta del leone, adorato per vent’anni. A casa, più tardi, nuova telefonata col povero Mackensen per un progettato assalto alla Deutsches Haus, sulla quale io non verserei una lacrima, dato che è il centro di tut­te le cabale e gli intrighi interni tedeschi, ma che tutta­via deve essere salvata. E poi Badoglio deve accorgersi che governare non vuol dire dormire.

“Fino alle due del mattino aspetto una chiamata, una visita, un Muti, uno Scorza. Kesselring a Frasca­ti, Mackensen all’ambasciata e io aspettiamo inutil­mente; e inutilmente la fedele e brava divisione “M” aspetta il suo Galbiati!”.

La morte del fascismo non poteva essere meglio raccontata; ma è interessante anche il giudizio di Dollmann sul comunicato in cui Badoglio assicurava che la guerra al fianco dell’alleato tedesco continuava: “Dal 25 luglio nel Terzo Reich nessuno si il­luse sulla solidità dell’alleato e sulla sua fedeltà ai patti; nessuno fece più serio affidamento sul prosegui­mento dell’alleanza e sulla famosa frase di Badoglio “la guerra continua” che, trasformata in bando, si poteva leggere su tutti i muri della penisola, anche su quelli ridotti in macerie dai bombardieri alleati”.