24 agosto
Stanotte; mancano pochi minuti alla mezzanotte. Dall’autocentro del ministero dell’interno si muove una piccola colonna formata da un’automobile, un autocarro e un’ambulanza. A bordo sono dodici carabinieri armati di moschetto al comando del tenente Ezio Taddei, con un maresciallo in borghese, Ricci, ed un misterioso uomo sulla quarantina in tuta kaki, basso, stempiato, sulla quarantina, con accento napoletano1.
Il convoglio esce dalla città, deserta, senza luci (c’è il coprifuoco), e imbocca la via Aurelia. Dopo una quindicina di chilometri si ferma a Maccarese. Qui viene lasciata l’ambulanza. Il tenente Taddei si dirige alla stazione dei carabinieri, sveglia il maresciallo comandante e chiede due carabinieri perché guidino il gruppo a Fregene. Si aggiungono così i militi Antonio Contiero e Frau. Si arriva a Fregene. Altra sosta alla locale stazione; sveglia del comandante, il brigadiere Barolat, che viene invitato ad unirsi al gruppo. Motivo? “Abbiamo l’ordine di arrestare Ettore Muti e lei deve condurci alla sua abitazione” risponde il tenente Taddei.
Chi è Ettore Muti? È un personaggio avventuroso, spericolato, spavaldo e generoso; una figura dannunziana, e non per niente è stato, a 17 anni, fra i 2500 legionari che nel settembre nel 1919 hanno occupato e proclamato l’annessione all’Italia della città di Fiume, che, finita la guerra, gli alleati tolgono all’Austria-Ungheria e vogliono dare al nascente regno di Jugoslavia. Per dimostrare il suo coraggio, si è buttato dal tetto di una palazzo di cinque piani su un telone da pompieri. Gabriele d’Annunzio lo chiama “Gim dagli occhi verdi”.
Ettore Muti è stata una delle figure mitiche del fascismo.
È nato a Ravenna nel 1902; a 13 anni è rimasto orfano di padre e a 13 anni è stato espulso da tutte le scuole per avere preso a pugni un professore; a 15 è riuscito, con documenti falsi, a farsi arruolare nel sesto reggimento di fanteria; poi è assegnato agli Arditi, i reparti di assalto costituiti nel 1917.
L’incontro col fascismo e con Mussolini è fatale. Nel 1922 è a capo dello squadrismo romagnolo, nel 1923 è comandante della Milizia di Ravenna. Ama le scazzottate, le belle donne e le corse: in motocicletta, con la sua Harley-Davidson, in automobile, con la sua Bugatti azzurra, e poi con un’Alfa Romeo. Negli anni Trenta scopre l’aeronautica. Volontario in Etiopia, poi in Spagna, poi in Albania. Nessuno ha tante medaglie d’argento come lui: dieci, e una d’oro.
Nell’ottobre del 1939 Mussolini lo ha chiamato alla segreteria del Partito fascista. C’era bisogno di un uomo nuovo, un “puro”, dopo gli otto anni di Achille Starace, che è diventato una barzelletta con le sue stupidaggini, il “voi” al posto del “lei”, il “passo romano” come il tedesco “passo dell’oca”, il “cerchio di fuoco” dentro il quale devono passare i gerarchi. Ma per Ettore Muti quello non è il suo posto; non gli piace sedere dietro una scrivania2. E poi non è simpatico a nessuno dei capi. Giuseppe Bottai, l’intellettuale del regime, lo disprezza: “Quella sua testa piccola tonda, e soda, rapata, secondo il costume dei tedeschi e dei boxeurs, quel suo sguardo infossato sotto le orbite prominenti, così destituite d’ogni nerbo di meditazione, d’osservazione, di comprensione da apparire senza colore, neutre, d’un grigio mimetico; quella sua fronte bassa, d’una bassezza impressionante al punto da parer subito, al primo incontro, un segno sinistro”3.
Alla segreteria del partito Muti rimane soltanto dodici mesi; lascerà il posto a Adelchi Serena il 30 ottobre del 1940, ma già ai primi di giugno rientra in servizio in aviazione e il 18 ottobre, formalmente ancora segretario del Pnf, riesce, partendo dall’isola di Rodi, a bombardare gli impianti petroliferi inglesi delle isole di Bahrein, nel golfo Persico; un volo, andata e ritorno, di 4500 chilometri; una distanza enorme, a quei tempi.
Come tenente colonnello dell’aviazione Ettore Muti ha combattuto anche in Francia e in Inghilterra, e un poco alla volta si è ritirato dalla vita politica. Il 25 luglio era in missione in Spagna per conto del Servizio informazioni dell’aeronautica militare; il 27 è tornato a Roma e qualcuno gli ha suggerito di ritirarsi nella villetta che ha a Fregene: protetto dal fido autista Masaniello Marracco e in buona compagnia; ha lasciato la moglie Fernanda Mazzotti e l’unica figlia Diana, nata nel 1929, e sta con una soubrette cecoslovacca della compagnia di riviste di Odoardo Spadaro, Edith Fucherowa, in arte Dana Harlova. Tutto tranquillo, questa notte fino alle due.
Sono le due e il brigadiere Barolat, comandante della stazione dei carabinieri di Fregene, sale sull’auto del tenente Taddei e per una strada sterrata lo guida nella pineta dove Muti ha preso in affitto, in via Palombina 55, una villetta ad un piano. Ad una certa distanza i due automezzi si fermano. I carabinieri scendono e circondano l’abitazione. Sono le due e cinque. Il brigadiere Barolat bussa alla porta. Dopo qualche minuto compare, assonnato, l’autista di Muti, Masaniello Marracco, al quale il tenente dice ad alta voce “Ho un mandato di cattura per Ettore Muti”.
Svegliati dal trambusto, compaiono Ettore Muti a torso nudo con i soli pantaloni del pigiama, la cameriera Concetta Verità e l’industriale ravennate Roberto Rivalta, ospite nella villetta. “Ho l’ordine di arrestarla” dice il tenente Taddei”. Muti indossa la sua uniforme di ufficiale, prende una borsa con un po’ di biancheria, consegna alcune migliaia di lire alla cameriera. L’amico Rivalta, che ha accompagnato Muti alla porta, nota il misterioso uomo in tuta kaki che in seguito descriverà agli inquirenti.
Muti è in testa al gruppo (alle sue spalle è l’uomo in tuta, seguito dal tenente Taddei e dai carabinieri) che si dirige verso il folto della pineta anziché verso gli automezzi. Ad un tratto – secondo quanto racconterà qualche anno dopo il carabiniere Contiero, smentendo la versione fornita da Taddei alla magistratura militare – il tenente lancia un fischio; risponde dal buio un altro fischio e subito comincia una breve ma intensa sparatoria fra i carabinieri e gli sconosciuti. Al termine Ettore Muti rimane per terra, ucciso da due colpi di pistola sparati alla nuca. Da chi? dall’uomo misterioso? Nessun altro è rimasto ferito.
Il corpo di Muti viene trasportato all’ospedale militare del Celio. La sorella riuscirà ad avere il berretto sul quale sono visibili i fori d’entrata dei due colpi. Il rapporto necroscopico, redatto dal medico d’ufficio, dice “deceduto per colpo alla nuca di arma da fuoco”. La salma, chiusa in una bara di legno grezzo, è collocata nel deposito 253 del cimitero del Verano; da qui sarà trasportata nel gennaio 1944 a Ravenna, sua città natale, dove il 19 febbraio si svolgeranno solenni funerali.
L’agenzia Stefani, diretta da Roberto Suster, nominato da Mussolini l’11 gennaio 1941 e rimasto in carica dopo il 25 luglio 1943 su invito di Guido Rocco, ministro della cultura popolare del governo Badoglio, trasmetterà domani mattina ai giornali una notizia brevissima: “È deceduto oggi a Roma il tenente colonnello Ettore Muti, medaglia d’oro al valor militare”.
Nel pomeriggio l’agenzia trasmetterà una seconda notizia: “A seguito di accertamento di gravi irregolarità nella gestione di un ente parastatale, nel quale risultava implicato l’ex segretario del partito fascista Ettore Muti, l’Arma dei Carabinieri procedeva nella notte dal 23 al 24 corrente al fermo del Muti a Fregene. Mentre lo si conduceva alla caserma sono stati sparati dal bosco colpi di fucile contro la scorta. Nel momentaneo scompiglio egli si dava alla fuga, ma inseguito e ferito da colpi di moschetto tirati dai carabinieri, decedeva”.
Tra un mese la Stefani darà una versione diversa del fatto. Da agenzia ufficiale del fascismo è diventata, dopo il 25 luglio, l’agenzia ufficiosa del governo Badoglio; con la nascita della Repubblica sociale il direttore Suster sarà licenziato e l’agenzia tornerà ad essere l’agenzia ufficiale del regime fascista. Il 24 settembre, nel giorno stesso della sostituzione di Suster con un nuovo direttore, Orazio Marcheselli, la Stefani, smentendo “il comunicato laconico e menzognero comparso il 25 agosto sulla stampa” che “tentò di gettare fango sulla figura di Ettore Muti, fulgido esempio di eroismo italiano”, scriverà che “la verità è e resta una sola: Muti è stato ucciso, assassinato da sicari per ordine del mandante Badoglio”.
“Da qualche giorno” dirà ancora l’agenzia “Muti si trovava a Fregene a riposare dalle fatiche della guerra e più ancora per nascondere silenzioso il suo dolore a causa del tradimento a lui noto. Si diceva che egli maturasse il divisamento di fare un tentativo disperato per salvare Mussolini dalla prigionia. Per il temperamento di Muti, questa era una cosa possibile. Ma i banditi, in agguato, non potevano perdonargli questo supremo disperato appello al suo coraggio”.
La Stefani darà quindi un suo resoconto delle fasi dell’arresto e dell’uccisione di Muti e poi: “A coprire il misfatto ed a giustificarlo con un alibi ben studiato, susseguentemente furono lanciate alcune bombe dal bosco. Oltre questo, nessuna voce umana suonò nella notte tragica sulla piccola spiaggia di Fregene se non la voce del tenente Taddei: ‘Finalmente questo porco è stato ammazzato’. Alle ore 3,45 la tragedia era conclusa”.
La frase – infame, ma improbabile – attribuita al tenente Taddei dalla Stefani non comparirà in nessun’altra fonte, e le fonti saranno tante. Ma quale la verità? Badoglio il mandante? Muti stava preparando un complotto per la liberazione di Mussolini?
Il generale Giacomo Carboni1 racconta: “Il maresciallo Badoglio mi chiamò il 21 agosto e mi ordinò perentoriamente di arrestare Muti. Motivo: spionaggio e complotto contro lo stato”. L’arresto doveva essere fatto dai carabinieri. Carboni convoca il comandante dell’Arma, generale Angelo Cerica, e studia un piano che dopo un ripensamento di Badoglio (“se l’arrestiamo, dove lo nascondiamo?”; “Io finirò ammazzato dai tedeschi”) viene approvato. “A che ora sarà fatto?” si informa. “In piena notte” – risponde Carboni. “Mi raccomando. Se Muti scappa è finita per tutti”.
“Quando, la mattina dopo, ricevuta la relazione di Cerica, andai al Viminale per riferire a Badoglio – racconta Carboni – mi resi conto che il Maresciallo si riteneva soddisfatto di quanto era successo”. Aggiunge Carboni: “Il colpo di grazia a Muti, in aggiunta a quello sparatogli a bruciapelo da Salvatore Abate”2 Badoglio cercò di infliggerlo con il famoso comunicato in cui si parlava di “gravi irregolarità nella gestione di un ente parastatale” ed addossando l’intera responsabilità dell’accaduto ai carabinieri, “mentre nel gruppo c’erano anche agenti di polizia ed era un poliziotto l’individuo in tuta che agì da killer”.
Nel suo diario3, il 24 agosto, anche Giuseppe Bottai parla della storia: “Due giorni fa, martedì, nella pineta di Fregene, Ettore Muti è stato assassinato. Se il verbo sia giusto, non so; e per un pezzo non si saprà. Ucciso, di certo, da una pattuglia di carabinieri andati per arrestarlo in una sua casetta sul mare. Uccisione legale contro un tentativo di fuga? Pare l’ipotesi più certa. Ma già circolano altre voci: o che sia stato spacciato perché “sapeva”; o che fosse implicato in scandali finanziari all’Agip, dove operavano suoi fidi; o che a lui facesse capo un complotto. Convalidano l’ultima voce notizie d’altri arresti: di Igliori, di Vaccaro, di Gravelli, di Cavaliere. Alla scoperta del complotto si sarebbe giunti così. Certo Professor Wagner dell’Accademia Tedesca di villa Sciarra ricevette, giorni fa, l’ordine di far conoscere a altra segreta autorità germanica l’orario preciso delle sue giornate della settimana in corso: perché, lo s’avvertiva, si sarebbe potuto avere bisogno del concorso di tutti i tedeschi presenti a Roma, per una certa impresa. Messo in sospetto, il nostro professore, di non coperti sentimenti antifascisti, si confidava con un collega italiano; e questi, a sua volta, con un funzionario della direzione universitaria del Ministero dell’Educazione nazionale]. Entra in scena Severi, che per telefono, par di vedere la sua aria di salvatore della Patria, mette in guardia Badoglio. Donde, il resto. Dunque, par vera questa del complotto, anche se ora la si vorrà gonfiare ad altri fini. E duole di pensare che il Fascismo sia caduto tanto in basso da potersene, da alcuni, immaginare una rinascita per mezzo d’un complotto”.
1 In Più che il dovere. Memorie segrete, Parenti, 1955. Carboni era commissario del Servizio Informazioni Militari (SIM) e per la sua carica in quotidiano contatto con Badoglio. Era inoltre comandante del corpo d’armata corazzato che proteggeva Roma.
2 Salvatore Abate è dunque, secondo il generale Carboni, il nome del misterioso killer in tuta kaki. Ma chi è Salvatore Abate?
3 Diario 1935-1944, già citato.
Con la collaborazione di Franco Arbitrio